| Cosa c'era? Cosa c'era prima di noi, no, non i nostri antenati o i nostri ricordi, ma prima dei nostri ricordi, delle nostre abitudini, dei nostri atteggiamenti e delle nostre convinzioni?
Cosa c'era prima del nostro linguaggio? Prima di ciò che è la nostra memoria, le nostre immagini interiori, i nostri racconti, c'è un confine, uno scalino in discesa che molti hanno dimenticato, una specie di nostalgia che è insieme paura di sapere, a volte separata da noi da un insieme di sciocche superstizioni. Questa è la traccia.
La testimonianza di chi ha lasciato un segno, che noi ci sforziamo sovente di ricostruire, di rielaborare alla luce delle nostre comprensioni, ma che si scrolla di dosso tutte queste incrostazioni per tornare a stagliarsi nella luce, vivido, acuto, penetrante come l'urlo della storia.
Sono venuto qui a Costantinopoli, romano milleottocento anni dopo i Romani, perché anche noi nella capitale viviamo di tracce, di immagini mitologiche in continuo rimestìo: l'Urbe imperiale dei Cesari, il sogno assolutistico dei Papi, l'arroganza coloniale del Fascismo, l'opulenza clamorosa del boom economico, il sogno iconoclasta della ribellione degli·anni "70, il new deal di Rutelli...
Non nascondo che Istanbul-Costantinopoli mi dà l'idea di essere un po' meno "stratificata" di questo marasma Capitolino in cui d'estate è impossibile vivere, e spero, al mio ritorno, di avere qualche chiave di lettura in più per vivere, un domani, in quelle "città generiche"-
metropoli totali di cui parlano per ora solo i sociologi.
Sarà forse perché anche Yeats, il poeta, non vedeva Bisanzio che negli arazzi, nei gioielli, nei magri resti dei mosaici, nella letteratura, e quindi niente mura, niente permanenza, niente immagini fototipiche ma solo simboli, segni disegni su altri segni.
Il tram mi portava veloce dall'approdo del pullman fino al centro. La città moderna nasconde perfettamente il passato: il sogno di una Turchia europea rimuove con violenza l'immobilità dei secoli bui, dominati dalla staticità burocratica dei visir. Eppure anche loro avevano lottato come delle furie per cancellare un altro ricordo, quello della città imperiale, ed imporre la scrittura coranica sul potere delle icone, le immagini sacre dei Greci.
Ecco che allora mi sovviene il collegamento tra le due cose: quei frammenti come di pan di Spagna che abbiamo spesso intravisto dall'autobus devono essere le mura leggendarie di Costantinopoli, sfondate più volte come a permettere l'osmosi totale con quel mondo di fuori che ha imposto più volte le sue leggi alla città sacra. Povero imperatore che, come dice Michele Pisello, lottò fino allo stremo uccidendo, alto come un angelo sul suo cavallo, centinaia di Turchi coi fendenti della sua spada. E poveri sultani che, pressati dal mondo esterno, restrinsero quelle mura dentro la città, quel Topkapi che teneva lontano il futuro accumulando ricchezze dal passato nei forzieri polverosi. E povera statua di Ataturk, il grande riformatore liberale degli anni 20, che oggi vede pian piano corrosa la sua autorità dalla veemenza terzomondista dell'Islam. Non ci sono più le mura, e nemmeno il fuoco greco, arma invincibile che oggi alcuni vogliono sostituire con l'europeismo, loro che all'Europa hanno creduto prima ancora che questa si formasse.
L'Europa è un subdolo alleato, che spesso toglie più di quanto conceda, con quei maledetti Crociati che arrivarono, grattarono via tutto l'oro di cui era ricoperto l'ippodromo di Teodosio e andarono via.
Sono venuto a cercare la cupola più grande del mondo, quella di Santa Sofia, ma stento a vederla, compressa com'è dai minareti che si stagliano alti sul suo perimetro, contrastato dalla meravigliosa eleganza della Moschea Blu, dagli ingressi nascosti, dal vociare del Bazar.
Alla fine le tre porte, grandi più di quella pesantissima del nostro Pantheon, e, dunque, dentro, con l'eco dei miei passi, non tanto dissimile da quella che producevano i passi dell'imperatore. Capisco perfettamente perché Maometto II abbia provato l'impulso ad inginocchiarsi di fronte a questa immagine magnificente del credo greco-romanoimperiale, per poi far coprire tutte le icone con le scritte sciabolate del Corano.
Grazie a Dio gli odori, quelli, non si possono cancellare, e inspiro lo stesso profumo di chiesa che da noi si percepisce quando si cerca refrigerio tra i marmi di Santa Maria Maggiore o di San Giorgio al Verano.
Cerco di grattare sotto la superficie e mi trovo al Museo dei Mosaici, quasi deserto e impolverato come un cantiere. Parlo col custode, lo convinco con un milione di lire turche a farmi girare senza impedimenti, e sollevo i cellophan, soffio sulle pietre colorate per rivedere quei volti, quelle immagini di animali in lotta, quelle bighe lanciate a tutta velocità verso un futuro di distruzione. Sembra di sentire ancora il rumore di quel cozzo, della caduta della speranza di tutto l'Occidente, la speranza che l'effigie dell'Impero, dello status-quo, rimanesse in piedi, almeno come testimonianza, come rifugio dall'angoscia.
Una traccia.
E invece no, 1'Oblìo è continuato per secoli, finché di Bisanzio non rimase che un pallido ricordo, capace di accendere solo la passione degli intellettuali.
Tutto quello che ho imparato, pertanto, è che possiamo assomigliare a due cellule dello stesso embrione, accomunate dalla sorte, o più spesso dalle sciagure, e che la bellissima brezza che spira da Occidente, benché qui trasporti il suono delle campane e lì quello del "meuzin", è probabilmente la stessa che spirava migliaia e migliaia di anni or sono.
(Articolo di Daniele Nofri pubblicato sulla rivista Orizzonti n. 11, nov.gen. 2000)
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