| A soli 22, Nicola Lecca, studente di filosofia a Cagliari, vanta già due record: è stato il più giovane finalista del Premio Strega e ha trasformato la tradizionale cinquina in sestina. Il suo “Concerti senza orchestra” (Marsilio, 1999) è entrato in finale a pari merito con “La città volante” di Roberto Pazzi, ma l’ha poi superato durante la lunghissima votazione al Ninfeo di Vallegiulia, piazzandosi quinto. Poi sono arrivati il Premio Selezione Chiara e il Premio Rhegium Iulii per l’opera prima.
Domanda – “Concerti senza orchestra” è una raccolta di otto racconti che hanno come protagonisti pianisti e violinisti. Che importanza ha la musica per i suoi personaggi?
LECCA – Loro vivono in funzione della musica perché sono musicisti. E vivono ossessivamente perché sono infelici, emarginati dalla società. Si aggrappano alla musica disperatamente come unica compagnia, per dimenticare che in realtà sono soli.
Domanda – E nella sua, di vita, la musica che parte ha?
LECCA – Per me è una presenza costante ma non disperata. L’ho scoperta a tredici anni, durante un viaggio a Londra: un amico mi prestò una cassetta di Wagner. Adesso ho una collezione di oltre cinquecento cd.
Domanda – Suona qualche strumento?
LECCA – Il violino. Ma da autodidatta, cioè male.
Domanda – Nel racconto “L’Imperatore”, un pianista è terrorizzato da una composizione di Beethoven che cela un ricordo d’infanzia altrimenti rimosso. Una melodia può rivelare segreti?
LECCA – La musica è un percorso di sensibilità: ascoltandola o eseguendola si entra dentro sé stessi. È una strada privilegiata per l’autoanalisi. Impone una disciplina cui si può reagire con il rigore assoluto o con una vita senza freni. Così accade alla giovane pianista di “Dalle labbra degli angeli” che a metà di un concerto si alza e se ne va perché si è stufata. E così accade a Jean-Nicolas, cocainomane divorato dall’ambizione perché non riesce a vincere il Premio Paganini.
Domanda – I suoi personaggi viaggiano sempre: con la musica attraverso l’anima, e grazie alla musica attraverso le sale da concerto delle capitali europee, dalla Konzerthaus di Vienne al Teatro Carlo Felice di Genova.
LECCA – Viaggiare è un ingrediente fondamentale della mia scrittura. Fino a 13 anni sono rimasto chiuso nella mia isola, poi, a Londra, ho capito improvvisamente che avrei sempre viaggiato. Annoto i miei viaggi in un taccuino: finora sono una sessantina. In dieci anni ho passato mille giorni fuori di casa… Ne traggo ispirazione, ma solo l’Europa mi appassiona. Mi sono piaciute Losanna, Parigi e Varsavia. Trieste è splendida. Non amo invece le città tedesche: mi sento a disagio, quei luoghi mi sono estranei.
Domanda – Lei descrive i musicisti con l’ossessione della raffinatezza, il disgusto della mediocrità e della vita di tutti i giorni. Non è un’esistenza difficile, la loro?
LECCA – Il solo fatto di essere raffinati li esclude dalla società che invece è rozza. Non è colpa loro, ma di una società standardizzata a un livello molto basso affinché nessuno si senta inadeguato… E le persone sensibili pagano. Allora alcuni, piuttosto che rinunciare alla loro propensione per correre incontro alla banalità, la esasperano e ne fanno il loro baluardo. Alla fine sono dei vincitori: tutti potenziali suicidi che scelgono di continuare a vivere. Gente che, in un modo o nell’altro, ce l’ha fatta.
Domanda – L’ultimo viaggio che ha fatto?
LECCA – A settembre in Islanda. Era una passione che avevo dalle elementari: all’esame di quinta ho portato questo paese, e la commissione mi ha accusato di averlo scelto perché era il più breve del sussidiario! Invece ero affascinato da geysers e balene.
Domanda – Allora il prossimo libro sarà ambientato a Reykjavik?
LECCA – Preferisco l’ambiente della Mitteleuropa, da Trieste a Vienna. Il mio prossimo romanzo che spero di finire per dicembre, si svolgerà tra Parigi e Stoccolma. Mi concentrerò su una realtà diversa dalla musica, che comunque non sparirà del tutto, rimarrà in sottofondo. Ma Reykjavik è una città impossibile da immaginare: sembra di camminare in un asilo per quanto la gente è ingenua… E le casette sembrano una città ideale fatta da un bravissimo artigiano.
Domanda – Che libro sta leggendo adesso?
LECCA – “Antichi maestri” di Thomas Bhernard. È uno dei miei autori contemporanei preferiti con Stig Dagermann, il Camus nordeuropeo.
Domanda – Lei studia filosofia. Quali pensatori ritiene fondamentali per il pensiero moderno?
LECCA – Kant e Hegel. Sono i capisaldi.
Domanda – Il suo metodo di lavoro?
LECCA – Scrivo di notte. Tutte le notti fino alle quattro. Poi vado a dormire e mi alzo a mezzogiorno: ho bisogno di otto ore piene di sonno, se so di non poterle avere preferisco rimanere alzato. Scrivere a notte fonda è un’abitudine, ma anche una necessità: niente distrazioni, telefoni che suonano o posta da firmare.
Domanda – Il suo regista preferito?
LECCA – Ho un amore folle per Bergman. “Sinfonia d’autunno” è un capolavoro, di una perfidia sottile che lascia il segno.
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“Concerti senza orchestra” (Marsilio) è una raccolta di otto racconti – otto come le note musicali – che hanno come tema la musica. I racconti sono “Angoscia di un genio”, “L’Imperatore”, “Dalle labbra degli angeli”, “La perfezione disperante”, “Le lacrime scritte”, “La donna di Brahms”, “aial Premio Paganini”, “Ascoltando Schuman”.
(Articolo di Federica Fantozzi, pubblicato sulla rivista Orizzonti n. 11, nov.gen. 2000)
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