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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

«This must be the place» di Paolo Sorrentino.«Non è un film sulla storia dell’Olocausto, ma un film che si muove su quello sfondo».

di Rivista Orizzonti

Nonostante le notevoli diversità con i precedenti lavori, anche in This must be the place è riconoscibile la mano di Paolo Sorrentino, attenta ai particolari e all’estetica come nelle altre sue pellicole. Già a partire dalla simbologia dell’eccentrico protagonista - fragile, ironico, tenero, ex rockstar che vive in quella zona grigia in bilico tra una noia prolungata e un’avvisaglia di depressione - col viso coperto da un cerone bianco e i capelli lunghi e cotonati (che ricorda molto Robert Smith) e con l’inseparabile trolley che si trascina sempre dietro: tutte coperte di linus, di cui si libererà poi, insieme ad un passato ingombrante e ad una figura paterna che, lui crede, non l’ha mai amato. Dopo aver raccontato personaggi prigionieri del loro passato, della loro solitudine, dove non c’è la possibilità di un lieto fine, con Cheienne viene raccontato un cammino di crescita e liberazione.

«È un personaggio che esprime anche gioia - ha spiegato Sorrentino -. Ha cinquant’anni, ma è rimasto bambino, e deve affrontare una serie di eventi che lo costringono in qualche maniera a dare finalmente via libera alla sua formazione di uomo adulto. Il film parte da uno sfondo che è quasi l’archetipo della tragedia e del dolore, però non volevo che fosse solamente questo, e ho mitigato quel contesto con un personaggio che si muovesse su un piano diametralmente opposto: sui binari dell’ironia, del candore».

È questo, anche, un film sul viaggio, come suggerisce il titolo («Questo deve essere il posto»), tra gli sconfinati paesaggi della provincia americana degli Stati Uniti. Cheyenne conduce una vita da pensionato a Dublino, fino alla morte del padre; evento che lo riporta a New York.
Ma è soprattutto il racconto di un viaggio interiore, verso un luogo più intimo: quello dell’anima. È, infatti, quello di Cheyenne, un percorso alla riscoperta di sé e del padre assente, di cui metterà a fuoco gli ultimi trent’anni di vita, dedicati alla ricerca di un criminale nazista, rifugiatosi negli Stati Uniti. Dopo la morte del genitore, sarà proprio lui, che non sapeva nulla dello sterminio degli ebrei e della reclusione del padre in un campo di concentramento, lui che ha sempre vissuto nella sua rassicurante e soffocante villa, a continuare quelle ricerche.
Ecco che ritorna sul grande schermo l’immensa tragedia del Novecento, ma «sarebbe errato – come afferma lo stesso regista - dire che è un film sulla storia dell’Olocausto: è un film che si muove su quello sfondo e racconta anche episodi e circostanze relative a quel momento però in maniera del tutto non completa, come è giusto che sia. Al di là della sua portata storica, l’Olocausto è il più grande ventaglio di osservazione sul comportamento umano, e sulle sue possibili aberrazioni, ed io porto semplicemente un piccolissimo contributo, se ci riesco, a quel tema, insieme a tutti gli altri film, a tutti gli altri libri».
Non è, questo film, un racconto completo su quel tema, così come non presenta un punto di vista privilegiato della ragione che ha portato allo sterminio.
«Io non mi sono fatto un’idea. Si possono avere più sospetti sulle motivazioni dello sterminio ma penso che avere certezze sia impossibile, per me come per tutti. Anche per gli storici.
Tra le teorie dette nel film, dal punto di vista dell’ex nazista, c’è anche l’idea che molte delle convinzioni e comportamenti di quel periodo nacquero per un processo imitativo dei massimi esponenti nazisti; ma questa è soltanto una delle tante interpretazioni che nei nostri studi, nel nostro documentarci sono venute fuori. Così come il pensiero della moglie del nazista, che attribuisce la ragione dello sterminio al semplice fatto che volevano i soldi degli ebrei. In realtà, io penso, e la mia non è una via di fuga o escamotage, che l’argomento sia di tale complessità e talmente inedito nella storia moderna per le sue forme così cruente, che trovare una spiegazione univoca sia molto difficile. C’è chi ha dedicato tutta la sua vita a capire le ragioni e non le ha trovate o ha provato a darsi delle spiegazioni semplicistiche, ma non perché fosse una persona semplicistica ma perché è difficile rintracciare una ragione: come ad esempio Simon Wiesenthal che, dopo una vita dedicata alle ricerche sulla biografia giovanile di Hitler, alla fine ha rintracciato l’origine di tanto odio in un episodio: al fatto che Hitler si fosse ammalato in seguito ad un rapporto sessuale con una prostituta ebrea».

A vestire i panni della rockstar è stato l’attore Sean Penn, che aveva espresso la sua volontà di lavorare con il regista italiano dopo aver visto Il divo, il film - sul senatore Giulio Andreotti - che si è aggiudicato il premio della giuria a Cannes nel 2008.
«Quello con Sean Penn ricalca il lavoro che mi è capitato di fare già precedentemente con altri attori, con la piccola variante che, vedendolo lavorare, da subito hai la sensazione che sia in grado di far tutto, una caratteristica non così comune – ha dichiarato Sorrentino -. Dall’altra parte, però, si aprono degli scenari pericolosi perché sei spinto ad andare dappertutto, visto che lui è uno in grado di reggere: la massima libertà può non produrre il massimo effetto; bisognava stare attenti. Nella sceneggiatura c’è già una definizione molto precisa del personaggio, con quel tipo di abbigliamento e trucco, un determinato carattere, però, al di là di questo standard iniziale, Penn ha portato tantissimo, perché ha una grandissima capacità di “inserirsi” negli interstizi della sceneggiatura, di aggiungere tutto quello che in una sceneggiatura non si riesce a mettere: cioè lavorare sulle sfumature del momento, sui dettagli, ed anche su aspetti più sostanziosi: ad esempio, il parlare con la voce in falsetto come il modo di camminare, che lui definisce “la camminata di chi si sente in colpa di essere diventato ricco” sono solo alcune delle sue idee; in ogni scena lui ha la capacità di portare delle felici novità, coerenti con il personaggio, a cui sceneggiatori e registi non riescono ad arrivare: si tratta di una serie di sofisticate attenzioni che solo i grandi attori possiedono, perché finiscono con l’impadronirsi del personaggio molto di più di quanto non lo siamo noi».

Ma Sean Penn non è l’unica star internazionale ad aver collaborato al film: c’è anche David Byrne, a cui è stata affidata la colonna sonora. «È stato un mito della mia adolescenza, e mi piace ancora oggi. L’ho conosciuto in occasione di un suo concerto a Torino, avevo un appuntamento con lui nel camerino; gli ho detto che avrei fatto un film con Sean Penn e gli ho proposto di fare le musiche e disse di sì, anche se non sembrava convinto: come quando si dice sì ad un pazzo, pur di levarselo di torno. C’era un aspetto che speravo lo incuriosisse, e fortunatamente così è stato: cioè l’idea di far realizzare a lui le canzoni che nel film sono eseguite da un gruppo di diciottenni. Il potersi immergere nelle sonorità dei ragazzi che si affacciano oggi sulla scena musicale, gli è piaciuta molto e ha deciso fattivamente di collaborare alle musiche. Era più titubante, ovviamente, per la sua presenza come attore. Ma si è convinto anche su quello, fortunatamente».

Un cast straniero, un genere che ricorda i film americani, una colonna sonora d’autore, varie location nel mondo (in Irlanda, a Dublino; a New York, a Detroit, in Michigan e in New Mexico): insomma, «una bella e lussuosa vacanza», usando le parole del regista, che spera in esperienze analoghe nel futuro, «anche se la realtà italiana non è mai addormentata, sempre piena di novità. Per chi fa il nostro mestiere è, paradossalmente, un serbatoio ricco, un panorama molto attraente. Il cinema italiano, proprio per la realtà delle cose, sarà inevitabilmente destinato a diventare molto più importante di quanto lo sia adesso».

This must be the place è un lavoro complesso, con una struttura narrativa «aperta», che si allarga a raccogliere tanti elementi, spunti, interpretazioni, dove lo spettatore può scegliere il suo film all’interno del film: se intenderlo come un tardivo romanzo di formazione, oppure come lo scioglimento del lutto, o ancora come un film sulla musica. È un film che dice molto di Sorrentino come persona, che ha messo in questo lavoro tutte le “cose che sono state di grande formazione ed emozione” durante la sua adolescenza.
«Non amo molto i film che battono per un’ora e mezzo solo su un unico argomento, penso che un film sia l’occasione per mettere più “carne al fuoco”. C’erano molteplici elementi di interesse per me, che vanno da un personaggio con quelle caratteristiche, al delicato e difficile rapporto affettivo tra un padre e un figlio, al racconto del periodo storico dell’Olocausto, con umiltà e per scorci, affrontato da un punto di vista di oggi, cioè senza scendere in una tipologia di film molto ricca, più dotata di noi che è il racconto vero e proprio della Shoah nella ricostruzione storica; e poi c’era anche l’idea di raccontare la musica. Quindi, tanti elementi che dovevano convivere».





Articolo di Teresa Filomeno, pubblicato su Orizzonti n.40

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