| Andrea G. Pinketts è ormai un amico di queste pagine. Lo abbiamo intervistato la prima volta quand’era già all’apice della carriera, col romanzo “Il conto dell’ultima cena”, e lo abbiamo poi seguito, o meglio inseguito, come solo il suo personaggio principale – l’alter-ego Lazzaro Sant’Andrea – saprebbe forse fare: con rumorosa discrezione. O con silenziosa indiscrezione, se preferite. Del resto sono proprio i giochi di parole l’aspetto caratterizzante della prosa dell’autore milanese, che non mancano neppure nella sua ultima fatica letteraria, “Depilando Pilar” (Mondadori, pp. 408, Euro 18,00).
Sarà la mole del volume, sarà la disincantata malinconia che a tratti emerge dalla voce narrante, “Depilando Pilar” lo si può senz’altro definire un romanzo di maturazione: richiama in campo tutti gli elementi che nel corso degli anni hanno alimentato la saga di Lazzaro Santandrea e poi li fonde, con dosato equilibrio, sebbene la verve narrativa di Pinketts resti predominante e coriacea come sempre. È il suo particolare modo di raccontare una storia a fare la differenza, del resto. Sono per l’appunto i giochi di parole, le frasi ad effetto, a far sì che ogni pagina regali almeno una bella sorpresa. Il tutto mentre una Milano più nera della pece si macchia di riflessi vermigli e chiama a gran voce l’unica persona in grado di rimettere a posto i tasselli del torbido mistero in cui, anche stavolta, s’è già cacciato per conto suo – e in largo anticipo sul sopracitato grido.
La Milano dei suoi romanzi è la topografia di un mondo narrativo quanto meno destabilizzante. Perché le sue storie, eccetto rari casi, sono quasi sempre ambientate nella città in cui vive?
ANDREA G. PINKETTS - «Perché quando scrivi esplori il lato che non conosci di una città che credevi di conoscere. Se quindi da una parte posso attingere al vissuto, dall’altra esploro il vivibile, il probabile. O l’improbabile, forse. Ma, in fondo, io sono un possibilista. Nei romanzi infilo la mia città e i miei amici storici, nei racconti invece mi sento molto più libero di spaziare altrove con la fantasia. Uno dei miei punti di riferimento letterari più saldi in assoluto è sempre stata l’opera di Dino Buzzati. Una simile lezione, portata a confronto sui mezzi logici e, vorrei aggiungere, tecnologici che la scrittura del noir impone, porta a credere che non sempre si sappia dove si va a finire. Col romanzo sei volutamente costretto a fornire delle spiegazioni, devi rispondere per forza alle domande che la storia solleva. Nei racconti, e questo Buzzati lo sapeva bene, puoi chiudere con dei puntini di sospensione».
Con un esempio del genere alle spalle, è curioso che lei abbia pubblicato più romanzi che racconti…
ANDREA G. PINKETTS - «Ogni storia nasce dalla necessità di raccontarla in un certo modo, in una certa misura. Le storie possiedono precise dinamiche, delle già esatte fisiologie, e da queste acquisiscono un respiro che può espandersi più o meno a lungo. Tutto qui, non c’è una regola precisa, o almeno non credo ce ne siano. Ho scritto “Depilando Pilar” in due anni e dieci mesi, ma avrei potuto impiegare benissimo la stessa quantità di tempo per scrivere un racconto: non è mai il numero complessivo delle pagine a significare l’ampiezza temporale di un lavoro, se il lavoro in questione si chiama scrivere. Del racconto, questo nuovo libro possiede l’immediatezza e una struttura narrativa molto più libera, rispetto ai precedenti».
Ma la necessità di raccontare una storia “in un certo modo” non diventa, a lungo andare, un segno di stile, la sua scrittura?
ANDREA G. PINKETTS - «La scrittura è qualcosa che ti appartiene per diritto di nascita, come la pittura, la scultura, o qualsiasi altra forma d’arte. Sei destinato, predestinato, condannato a praticarla. Ragion per cui quando giunge il momento decisivo per misurarsi col mondo delle parole, inevitabilmente finisci per diventarne a tua volta preda. O predatore».
E quando ha capito di esserne diventato preda (o predatore)?
ANDREA G. PINKETTS - «Ho cominciato col giornalismo. Negli anni Ottanta intervistavo le varie vallette delle altrettanto varie emittenti locali per Onda Tv. Nel 1991 ho vinto il premio “Una Remington sulla strada” come miglior giornalista investigativo, per una serie di servizi che ho realizzato immettendomi in realtà che non mi appartenevano: ho fatto il barbone alla Stazione Centrale, ho permesso l’arresto di Dimitri, il capo dei Bambini di Satana, infiltrandomi nella setta… tutto questo prima che le mie apparizioni televisive aumentassero in maniera tanto esponenziale. Adesso sarei troppo riconoscibile e non potrei più cimentarmi in ruoli come il porno attore al Mi-Sex, per esempio».
È una battuta?...
ANDREA G. PINKETTS - «Tutt’altro. È successo nel 1995, lavoravo per Panorama. Nell’intenzione di apparire da protagonista nell’ambito di questa singolare convention milanese – che all’epoca si teneva presso l’ex Palatrussardi –, mi sono inventato il personaggio di Udo Kuoio, il Re della Frusta, noto attore sadomaso svizzero. Ho frustato all’incirca duemila persone al giorno».
La sua carriera, d’altro canto, è disseminata di episodi particolari. Quando uscì la prima edizione di “Lazzaro vieni fuori”, il suo romanzo d’esordio, l’editore venne arrestato…
ANDREA G. PINKETTS - «“Lazzaro vieni fuori” lo scrissi nel 1984 e uscì nel ’91 da Metropolis, una piccola casa editrice in seno alla Fratelli Vallardi Editore. Ciarrapico, lo stesso Ciarrapico oggi consigliere dell’attuale Presidente del Consiglio, entrò proprio allora nel gruppo come azionista. Eravamo nell’occhio di un ciclone particolare, quello di Tangentopoli. Mentre il mio libro usciva, lui entrava in galera. O meglio: veniva posto agli arresti domiciliari, per cui credo avesse ben altro per la testa che occuparsi dell’esordio narrativo di Andrea G. Pinketts. Nel frattempo, la Rai aveva programmato il mio romanzo nelle letture radiofoniche ed era l’unico testo a venire letto senza essere materialmente uscito. A questo punto, potevo soltanto sperare che “Lazzaro vieni fuori” si dimostrasse un titolo ben augurante».
A quanto pare sì, visto che Feltrinelli l’ha poi ripubblicato…
ANDREA G. PINKETTS - «Tutto è successo perché una bella sera avevo voglia di un’ultima birra, prima di rientrare. Era tardi. Faccio il mio ingresso in un locale semideserto, gli ultimi due avventori stavano per essere sloggiati causa chiusura. Erano Manuel Vasquez Montalbàn e la sua agente Feltrinelli italiana. Ho regalato il mio libro a Montalbàn, ma lui non capiva una parola d’italiano, per cui lo lesse lei, tutto, in una notte, e al mattino mi richiamò entusiasta. Lieto fine».
(Articolo di Gianluca Mercadante, pubblicato su Orizzonti n. 40)
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