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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Scrittura che lacera la corteccia dei cuori. Le emozioni nelle opere di SILVANA GRASSO. «La vita mi ha visto spesso in apnea, incapace d’andare del tutto a fondo, ma inabile anche alla risalita».

di Rivista Orizzonti

“Le radici profonde non gelano…” scriveva J. R. R. Tolkien, il grande autore della saga de "Il Signore degli Anelli". E noi ce la immaginiamo così, con radici profonde tra le valli dell’Etna, nel pieno delle eruzioni laviche, quando il vulcano più alto d’Europa fa stare Catania e i suoi paesi col fiato sospeso. E lei lì, tra le rocce incandescenti, i suoi fogli sparsi, violentati dal vento, la sua penna calda, quasi come la lava. E il suo cuore, un continuo pulsare di emozioni che hanno nodi profondi proprio in quest’Isola.
Silvana Grasso non avrebbe bisogno di presentazioni, ma non la si può nemmeno immaginare lontana dalla sua terra, da questa Sicilia dove è nata, dove vive e dove lavora, seppur tra mille contraddizioni, mille battaglie, mille bagliori di gioie e dolori.
Lo confessa a "Orizzonti", in questa intervista che è un fiume in piena, di lava e non d’acqua, per questa terra maltrattata, stuprata, abbandonata. Il coraggio, ancor prima dell’arte, è ciò che traspare dalle emozioni della Grasso. La letteratura è vissuta come denuncia: sociale, politica, umana.

Domanda - “Perché tornavo in Sicilia?” si chiede Memi Santelìa (Ciane) nel romanzo Disìo, una delle opere coraggiose, premiate e “imputate”. Ma Silvana Grasso questa terra non l’ha mai lasciata. Nulla è davvero mutato nella vita dell’Isola “selvaggia”?

«Mille o più i tentativi d’affrancarmi dall’Isola, dalla sua affatturazione, dalla sua profezia che scandiscono inesorabilmente, ieraticamente ogni mio nano conato. Invano, inutilmente, miseramente sono gli avverbi che più realisticamente confessano e qualificano le mie fughe affrancatorie, la mia secessione emotiva. Così sto, come albero incenerito dal fulmine nei rami novelli, ma vivo nella radice più profonda, ma pronto a nuova fioritura, a resurrezione, a rigenerazione. In un connubio profondo, inestricabile, di vero e falso, di emotivo e logico, di sensoriale e apatico, di sacro e profano vivo dell’Isola, vivo come parassita intestinale delle sue plaghe, delle sue mareggiate umane più che idriche. Vivo eternamente in placenta, mai del tutto pronta a venire al mondo, a essere sgravidata, magari in una notte di luna calante, o forse è il liquore dell’acqua che, unico, mi contiene, isola nell’Isola, inaccessibile persino a me stessa. Quel che è del Mito non muta, non può, non deve. Il Mito è ipoteca d’eternità, d’immutabilità, grande iattura, maledizione degli dèi sarebbe il cambiamento. Altra cosa è quello sciacallaggio politico, recitato da scarti umani, senza barlume d’etica o morale, che consegna l’Isola al disdoro, allo scempio, alla necrosi, al cannibalismo».

Domanda - Donna, scrittrice, insegnante, giornalista e siciliana. In due parole: Silvana Grasso. Vuole chiedere altro a Dio?

«Scomodiamo Dio per cose serie, non per una piccola crepa sulla terra, un nodo nel ramo d’una quercia, come io sento d’essere. Incapace a mutare persino la rotta d’una formica, quantunque prometeicamente il mio pensiero prende quota, sfida il cielo, per poi precipitare come un aquilone, mal confezionato, avventurato, in assenza di vento. Ho preso molte strade più per solitudine, nevrosi, ansia, tedio, che per talento. La vita mi ha visto spesso in apnea, incapace d’andare del tutto a fondo, ma inabile anche alla risalita. Tra sperimentazioni esistenziali fallite ed esplorazioni umane esitanti, tra palcoscenico e inchiostro, ho divorato la mia vita di carta, o lei ha divorato me».

Domanda - Il sole africano nei capelli, il mare Jonio negli occhi, il fuoco dell’Etna nel cuore: la sua travolgente figura mediterranea è una risposta colta e spumeggiante alla letteratura nordico-scandinava di questo terzo millennio. Ma, da Verga a Capuana, da Brancati a Pirandello, da Silvana Grasso agli altri suoi contemporanei, come esportare questa Sicilia ai confini del mondo?

«La Sicilia non si esporta, di Sicilia bisogna si affami il mondo. Un indigeno del Borneo resterebbe in ammirato religioso stupore di fronte a un nostro tempio, persino una sola colonna, intuendone il daimon che ha guidato la mano di chi lo ha costruito, progettato, amato, concupito, in un amplesso irripetibile di bellezza e scientia. Adesso si faccia lei un giro, est, ovest, nord, sud, per i cosiddetti parchi archeologici dell’Isola. Ovunque abbandono, ovunque langue la bellezza tra piscio di cani e gatti, feci di topi, gramigna furiosa, ovunque languono Arte, Archeologia, azzannate dall’incuria, di anno in anno sempre più invisibili, abbrutite, disprezzate da una politica rozza, predatrice, che disonora Sicilia e siciliani, ben oltre i confini del mondo!»

Domanda - Gli artisti possono servire la comunità in politica? Cosa resta della sua esperienza di assessore alla Cultura del Comune di Catania?

«Dei miei cinque mesi in veste d’Assessore tecnico ai Beni Culturali del comune di Catania resta un punto di non ritorno, un punto fermo: non si ruba quel che è di tutti, non si ruba per portare in case private, di politici per giunta, pezzi archeologici, quadri, che generosi benefattori avevano lasciato in eredità ai Catanesi perché ne facessero attrazione, occasione di lavoro, di vanto. Ho denunciato la pluriennale emorragia d’opere d’arte da Castello Ursino, la Magistratura ha disposto il sequestro delle opere e il censimento, e la denuncia, civile prima che giudiziaria, è stata garante d’un’operazione di bonifica morale e culturale. Per questo sono stata dalla politica, che lì mi aveva voluta, metaforicamente “sfiduciata”, cioè scaricata!!! Non hanno dimenticato i catanesi, non ha dimenticato la Città che mi è stata amorevolmente complice. Un’operazione epica, ben oltre la Cultura dei libri e dei giretti promozionali. Mi sono sentita utile come mai nella vita, al servizio d’una Città, mi sono sentita argonauta alla conquista dell’onestà defraudata, dell’Arte rubata».

Domanda - Metafora, incantesimo, vertigine, una storia anti-maniera: "L’incantesimo della buffa" è solo uno degli ultimi suoi successi in ordine cronologico, dopo altri già noti titoli. L’ennesimo tentativo di far capire che in Sicilia la storia si vive “appannata”, anche oggi, alla periferia dell’Europa e all’inizio dell’Africa?

«Più che far capire, tento sempre a non far capire, a sparigliare, a provocare il lettore nel suo territorio emotivo. Quel che io scrivo, una volta letto, diventa la scrittura d’un altro, che lo ingravida di sé, delle sue ansie, delle sue aspettative, delle sue indomite cavalle trace, emozioni, affettività. Voglio restare ai margini della mia storia, consegnarmi al mio feudatario-lettore, al suo mancipio, docile seguendone il passo dove la sua lettura mi conduce, suo amante o suo ostaggio. Questo, solo questo, può spiegare perché, nonostante l’oggettiva oscurità delle mie storie e la farragine emotiva che ne disturba la scrittura, i miei lettori sono in continua crescita; tra il 2011 e il 2012 tutti i miei romanzi (Einaudi, Rizzoli) sono o stanno per essere ripubblicati nei tascabili Marsilio. È il lettore che stabilisce le periferie, è la sua emotività il “fabbro” della storia, che ho scritto io, che lui riscrive. Io butto giù un canovaccio, anche rozzo, imperfetto, ma lui rimanda a me una Storia perfetta, storia d’amorosi sensi».

Domanda - Silvana, tra presentazioni e nuovi lavori. A quando una nuova, attesa produzione in versi? O è già poesia la sua prosa incandescente?

«Non so se la mia prosa sia poesia, so per certo che lascia “vulnera”, cioè ferite nella mia corteccia emotiva. Miracolosamente, però, quando penso di non avere un solo centimetro di “pelle” integra, mi scopro rigenerata, pronta a nuove infinite “ferite”, più segni dell’anima, in verità, più tatuaggi dell’affettività. La parola deve lasciare un segno forte, eterno, contro cui nulla possa potenza di laser!».



(Articolo di Antonio Iacona, pubblicato su Orizzonti n. 40)


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