| Il messaggio nella bottiglia che ci giunge oggi viene da lontano. Lontano nel tempo, non nello spazio: si tratta della parola scritta di Michel de Montaigne, letterato e filosofo tra i più significativi della Francia del XVI secolo. Per provare a comprenderla suggerisco di dislocarci inizialmente nella cultura dell’epoca. È, quella di Montaigne, un’età poco nota: il secolo del manierismo. L’umanesimo del manierismo rifiuta, dell’umanesimo propriamente detto, la fiducia assoluta nella possibilità di scoprire un ordine totale appagante e, invece, si esprime nella ricerca affannosa ed instancabile, talvolta persino cavillosa, del principio di metamorfosi del reale. In questo senso, il pensiero del manierismo, pur sviluppandone certe movenze, si contrappone a quello rinascimentale del recupero pagano della vita, e tuttavia non può essere omologato alla speculazione della Controriforma, se non altro perché le sue prime espressioni, specie in ambito figurativo con Pontormo e Rosso Fiorentino, risalgono agli anni Venti del Cinquecento e poi in quanto la sfiducia nei confronti della possibilità di attingere ad un ordine totalizzante del senso si rivolta contro la ragione stessa della cultura del concilio di Trento. Ciò che è sicuro, infatti, è che dall’esaltazione dell’aldiquà gioiosamente inteso si passa, con la filosofia della fine del XVI secolo, allo scetticismo della ragione basato sul potere dei sensi. È Montaigne a confermarlo: «Questo discorso mi ha condotto a considerare i sensi, nei quali risiede il fondamento e la prova maggiore della nostra ignoranza. Tutto ciò che si conosce, si conosce senz’altro per mezzo della facoltà di chi conosce; di fatto, poiché il giudizio viene dalla facoltà di colui che giudica, è giusto che quest’operazione egli la porti a compimento con i suoi mezzi e per sua volontà, non per costrizione altrui, come avverrebbe se conoscessimo le cose per forza e secondo la legge della loro essenza. Ora, ogni conoscenza penetra in noi attraverso i sensi: essi sono i nostri padroni» (Saggi, Milano, Adelphi, 1992, p. 781, libro II, capitolo XII: Apologia di Raymond Sebond). La conoscenza deve essere libera ed autonoma per essere conoscenza vera, perciò bisogna emancipare il pensiero dalle forzature di qualsiasi logica deterministica, sia di quella che si origina da cause e motivi trascendenti che di quella scaturita dall’affermazione assoluta dell’immanenza. Contro la necessità delle varie geometrie dell’inferenza occorre invece abbandonarsi alla ‘istintiva’ percezione delle cose. D’altra parte la percezione che opera mediante i sensi struttura una verità a sua volta non libera, perché per definizione collocata al servizio proprio della sensibilità. «I sensi sono i nostri padroni», e tuttavia al potere di questi capricciosi signori l’evento del conoscere non può in alcun modo rinunziare, pena il venir meno dell’esserci stesso dell’uomo come essere senziente, poiché essi sono «il fondamento e i principi di tutto l’edificio della nostra scienza» (ibidem). «Davvero c’è di che menar vanto della fermezza di questo bell’oggetto, che si lascia condurre e mutare dal moto e dagli accidenti d’un vento così lieve! Questo stesso inganno che i sensi portano al nostro intelletto, lo subiscono a loro volta. La nostra anima a volte se ne vendica allo stesso modo; essi mentono e s’ingannano a gara» (ivi, p. 793). Soggetta al capriccio dei sensi, la verità della conoscenza non corrisponde più ad una descrizione ‘sincera’ dell’essere e tuttavia non è neanche possibile affermare in maniera univoca che tutto ciò che è dipende dal potere della sensibilità, in quanto quest’ultima funge a sua volta da precario terreno di affermazione dell’inganno dell’intelletto. Di qui il crollo della fiducia ontologica in quanto tale, alla quale però non subentra alcunché di diverso dalla percezione razionale e poetica del proprio sé. Ad una totalità ontologica abbracciata in concetti per l’appunto totalizzati e sistematici si sostituisce una specie di totalità individuale, specifica, minuta; una contraddizione viva, insomma, còlta nella casualità del momento e del fenomeno. In breve, la riflessione sull’io, l’auscultazione dell’interiorità che caratterizza l’opera di Montagne, se da un lato si ricollegano alla centralità dell’uomo tipica del Rinascimento, dall’altro però si colorano di insicurezza, di problematicità: i Saggi sono quindi la testimonianza di una crisi, il ribaltamento del fiducioso antropocentrismo rinascimentale, dovuto però a quello stesso antropocentrismo. Ed è proprio questo che ce li rende così attuali! L’uomo ora è visto nella sua mutevolezza e nell’instabilità del riferimento, sia nei riguardi della natura che in rapporto alle norme di comportamento ed ai valori.
In virtù di questo disincanto pervasivo, Montaigne viene annoverato tra i pensatori scettici. In realtà lui, nei suoi Saggi, non fa altro che dialogare con se stesso e prima ancora con il lettore, presupponendo quindi una comunicazione che non viene meno, nonostante l’instabilità di tutto il resto. Montaigne, anticipando e superando a suo modo Eco, manda messaggi ad un lettore che auspica ‘competente’, o meglio perspicace, cioè in grado di comprendere del testo più di quanto lui stesso come autore vi ha posto intenzionalmente in opera. «Un lettore perspicace scopre spesso negli scritti altrui perfezioni diverse da quelle che l’autore vi ha poste e intraviste, e presta loro significati e aspetti più ricchi» (Saggi, p. 166, libro I, cap. XXIV). Non c’è disponibilità più grande nei nostri confronti e nei confronti del senso. In questo gesto generoso di Montaigne riconosciamo movenze critiche alla Barthes ed un certo tocco alla Derrida, ma soprattutto apprezziamo la scommessa nella ricezione che fa sì che i Saggi siano affidati ai flutti della storia, per diventare appunto il nostro messaggio nella bottiglia.
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