| “Ternitti era la storpiatura di Eternit, ternitti venivano chiamate le fabbriche in cui si aveva a che fare con il cemento amianto; in fondo, al Capu, ternitti era sinonimo di tetto, tegola, cemento, e gran parte del materiale usato nei cantieri, anche se amianto non era”.
«Spesso, quando si inizia a scrivere un libro, ci sono diversi sentimenti che accompagnano un autore. Nel mio caso, credo che la scintilla sia nata da un gesto d’amore. Anche i libri in cui c’è la rabbia contro qualcosa, tante volte nascono da un gesto d’amore. Verso la propria terra, verso la propria gente, o verso una persona.
Non avrei mai scritto “Ternitti” se non fossi nato e cresciuto in una terra dove i complessi industriali hanno cambiato il clima, le persone, la geografia. Una terra contraddistinta anche dall’emigrazione, con tante persone che andavano a lavorare nelle grandi fabbriche del Nord (e parlo dei miei padri e dei miei nonni) o nelle grandi fabbriche della Germania, della Svizzera. Molti di questi emigranti sono tornati; da ammalati. Il male più comune è quello dell’amiantosi.
Io mi sono occupato di un caso in particolare che riguarda il Capo di Leuca. Oltre 2000 persone sono partite da lì per andare a lavorare, soprattutto nella fabbrica d’amianto di Niederurnen; si sono ammalate di asbestosi e hanno contratto il male senza sospettare che sarebbe arrivato, in un periodo in cui si sapeva già che l’eternit faceva morire le persone.
Ho sentito che dovevo raccontare questa storia; molte volte uno scrittore cerca la chiamata, che arriva da un “qualcosa” che ti può succedere, da un’esperienza personale.
Io, per alcuni anni, ho vissuto lì, nel Capo di Leuca, con i figli di persone che avevano lavorato in queste fabbriche. Quasi tutti i miei coetanei - all’epoca avevo vent’anni - erano orfani, non avevano un genitore.
Allora, ho iniziato a raccogliere le loro storie, le loro testimonianze. Non volevo, però, fare un libro di denuncia, un libro che si piangesse addosso, del tipo: “quanto siamo sfortunati, dobbiamo lasciare il posto in cui viviamo, con una luce meravigliosa, il canale d’Otranto, il mare, il sole, per andare a vivere in un luogo dove il sole lo vediamo soltanto 3-4 volte l’anno…”. No, Non volevo scrivere questa storia.
Volevo, invece, raccontare la storia di chi è tornato e ha trovato la forza di riscattare i genitori ammalati, di chi ha cercato anche la spinta dentro di sé per cambiare la vita dei propri paesi.
Ho raccontato una storia esemplare, di una donna che si chiama Mimì Orlando, figlia di due operai di una fabbrica di eternit, a Zurigo. S’innamora di un ragazzo, che ha lavorato anch’egli in quella fabbrica, che conosce a Zurigo quando è immigrata per la prima volta. Tornerà nel proprio paese negli anni 90, da sola, perché quest’uomo l’ha lasciata, ma scopriremo il perché soltanto alla fine del libro. Nel piccolo paese ricostruisce la sua famiglia, un nucleo familiare composto soltanto da lei e da sua figlia, di cui non si conosce il padre; il nome si scoprirà alla fine.
In questa storia affronto un tema, che è quasi un’ossessione per me: quello delle donne sole. Io dico sempre che: essere donne sole in un Paese come l’Italia, e soprattutto in provincia, è più difficile che esserlo in altri posti d’Europa. Mimì vive la sua solitudine, ma con tenacia, con lotta; sia nel posto di lavoro in fabbrica, dove porta la sua esperienza di ragazza madre, sia in una società patriarcale dove “sono le donne che cantano e che portano la croce”, e lo fanno senza piagnistei. Mimì affronta i problemi, anche quelli più drammatici, e le tragedie con un sentimento che è molto sottovalutato: la grazia. Perché dico che la grazia è un sentimento sottovalutato? Perché viene spesso confusa con la cordialità, con la cortesia, con qualcosa di molto più superficiale. La grazia è un’armonia, di comportamenti, di sentimenti, e di gesti. E questo l’ho potuto raccontare perché ho conosciuto donne così. Se dovesse, ad esempio, dare da bere del latte, il latte del suo seno, prenderà un cucchiaino d’argento, si chiuderà in una stanza al buio e lo depositerà lì, dopo essersi scambiata uno sguardo armonico con l’uomo che ama.
Ternitti è nato da un gesto d’amore verso queste donne, verso la mia terra. La mia lingua, il mio dialetto.
Io credo nel prodigio del dialetto; che non è una lingua antropologica, è una lingua dell’anima, una lingua del cuore. Spesso il dialetto cambia da contrada a contrada, nel mio paese cambia da casa a casa; infatti, il dialetto di questo libro è un pastiche. Ci sono i dialetti salentini, c’è il dialetto martinese, il dialetto massafrese, quello di Corsano.
Il prodigio è quello di allargare il senso delle parole. Il linguaggio è libertà, e il dialetto lo è ancora di più. Ad esempio, io non avrei mai scritto il libro se non avessi avuto “ternitti”: questo termine che mi permette di usare una sola parola per raccontare la fabbrica, per raccontare l’amianto, per raccontare il tetto; perché Ternitti vuol dire tutte queste cose, in salentino.
C’è una parola, che mi ha sempre colpito e che io uso sempre come paradigma della grandezza dei dialetti, per spiegare cosa intendo quando affermo che il dialetto allarga il senso delle parole, il significato, le espressioni: l’ “or de fuc”.
Le domeniche mattina, a Martina Franca (io cerco sempre di essere almeno una volta al mese a Martina per camminare nel borgo, che è il tipico centro storico pugliese, con le case in calce, la pietra lavica per terra) c’è un odore caratteristico: quello della focaccia, che in dialetto è detta la focaccia a l’”or de fuc”, che vuol dire “ora di fuoco”, perché viene messa a cuocere un’ora nel forno. Ma or vuol dire tante cose ancora: significa aura, quindi anche anima, però vuol dire anche odore; quindi in quell’unica parola io collego quel sentimento di felicità che vivo la domenica mattina, nel sentire quest’odore, l’or: cioè l’anima, l’anima del mio paese che ha quel profumo, ha il profumo dell’origano e del pomodoro che prende fuoco nel forno a legna, che brucia soltanto rami d’ulivo o in rarissimi casi di cedro; e poi significa anche ovviamente tempo, ora.
Ecco, il dialetto ha questo prodigio: di allargare e unire i sensi, creare dei ponti dove, molte volte, la lingua non arriva».
(Testimonianza raccolta da Teresa Filomeno)
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