| La felicità, eterno scopo di tutte le generazioni di uomini e donne che si sono susseguite nei secoli, è sempre stata e sarà sempre la meta auspicata ed auspicabile a cui tende lo sviluppo del genere umano. Ma che cos’è la felicità? Come può essere raggiunta dall’uomo? Esistere significa essere felici? Queste sono le domande essenziali che occorre porsi per analizzare la questione.
Anzitutto la felicità è una condizione dell’esserci fortemente positiva, percepita sempre secondo criteri soggettivi. In passato molti filosofi e poeti hanno fatto derivare la felicità dal raggiungimento della vera conoscenza. Anche certe religioni razionali si basano sullo stesso principio generale. Ad esempio il buddismo, riconoscendo i limiti della vita umana (come la morte, la malattia e la sofferenza), ci invita ad accettarli, in quanto tutte le ansie e le preoccupazioni che derivano dalle cose terrene e mondane sono vane. Essendo priva di senso, è estremamente importante allontanare da sé l’angoscia, la qual cosa non implica però che l’individuo sia al contempo libero di ignorare la sofferenza universale.
Tutto sommato, un ragionamento simile è anche alla base di quanto sosteneva Orazio che, al trambusto ed allo stress delle occupazioni del cittadino romano, preferiva di gran lunga la vita tranquilla della campagna, proprio in quanto lontana dalle preoccupazioni e dagli impegni mondani della città.
Nella sua celebre ode sul “carpe diem”, il tema centrale è quello del trascorrere del tempo, inesorabile ed irreversibile. L’uomo può soltanto prendere atto della propria condizione, cercando di vivere intensamente ogni attimo che gli viene concesso, senza troppo pensare al domani.
Una posizione molto vicina a questa è stata espressa da altri autori, come Lorenzo De’ Medici nel “Trionfo di Bacco e Arianna”, i quali hanno consigliato ai posteri di vivere e godere della giovinezza, simbolo della spensieratezza, oppure di cogliere l’attimo. È chiaro che il rinnovato apprezzamento della vita ed il culto umanistico della mentalità classica hanno influito fortemente nell’elaborazione del suggerimento mediceo orientato al conseguimento della vera felicità.
Anche Seneca dedica buona parte della sua opera alla fugacità del tempo: così si aprono infatti sia l’epistolario dedicato a Lucilio che il “De brevitate vitae”. L’idea centrale di Seneca è che «non disponiamo di poco tempo, ma molto ne perdiamo». Il miglior modo per impiegare la propria vita, infatti, è per Seneca la filosofia, pur senza distaccarsi dalla politica.
La nozione di felicità intesa come condizione (più o meno stabile) di soddisfazione totale, varia naturalmente con il variare della visione del mondo e della vita su di esso.
Prendiamo ad esempio in considerazione l’epicureismo e lo stoicismo: essi oggi potrebbero essere definiti due stili di vita differenti, ma in verità non sono affatto antitetici, proprio perché entrambi corrispondono alle esigenze storiche dell’uomo del periodo ellenistico e, successivamente dell’epoca imperiale di Roma. Con la fine della civiltà delle “poleis", ha termine anche l’interpretazione organica dell’uomo come agente della vita pubblica. Se la realizzazione dell’esistenza prima consisteva per lo più nella partecipazione attiva ad eventi esterni all’individuo, ora invece ci si rifugia nell’interiorità e nel privato.
Tradizionalmente, queste due grandi scuole di pensiero sono state ingiustamente contrapposte e considerate come inconciliabili, ma in realtà sia l’etica epicurea che quella stoica assumono come premessa fondamentale delle loro proposte filosofiche la felicità dell’uomo, definibile esplicitamente in forma negativa come assenza di turbamenti.
Gli estimatori dell’amore sembrano avere una diversa prospettiva della felicità.
Tuttavia, in certi casi, la loro interpretazione non è in disaccordo con quella delle filosofie ellenistiche. È il caso del poeta Catullo, che esalta l’amore unica ragione di vita, facendolo coincidere di fatto con l’oggetto della sua produzione letteraria. Catullo, comunque, se da un lato indica la felicità in positivo, riferendosi all’amore, dall’altro, in quanto
epicureo, rifiuta anche il coinvolgimento nel campo della politica, come si vede in un breve componimento.
Considerando l’aspetto spirituale della felicità, è noto il bisogno che le persone sentono dentro di sé di elevare la propria psiche a cose trascendenti, che le portino a soddisfare la loro sete di conoscenza, di verità e di infinito. In questo senso, l’ignoranza definisce la condizione iniziale dell’uomo infelice, mentre l’appagamento del desiderio di sapere dovrebbe accompagnarsi al conseguimento della felicità. Tuttavia non è sempre così. Dante, a tal proposito, nel ventiseiesimo canto dell’ “Inferno”, inserisce Ulisse tra i dannati, pur considerandolo il più grande esploratore della storia, assetato di sapere, poiché avrebbe usato il suo desiderio di conoscenza in modo spregiudicato. Attraverso le sue parole, Dante ci aiuta a comprendere il valore vero della conoscenza, la quale può portare alla felicità se contenuta entro certi limiti. Una critica ancora più radicale delle implicazioni eudemonistiche del sapere mondano, concentrato sull’esaltazione dei piaceri e delle cose materiali, è espressa nel canto X dell’ “Inferno”.
Qui troviamo puniti proprio gli epicurei, in quanto agli occhi del cristiano medievale essi appaiono come coloro che «l’anima col corpo morta fanno», cioè coloro i quali focalizzano la loro attenzione sul mondo concreto e sui beni materiali. È chiaro che l’individuazione delle vie per il conseguimento della felicità cambia radicalmente spostandosi dal contesto del discorso epicureo al contesto di chi crede che l’anima non muoia con il corpo.
Noi che apparteniamo a questa epoca, fortunata e sfortunata al tempo stesso, siamo in grado ancor di più di capire cosa significhi utilizzare la conoscenza nella giusta misura. Il progresso, lo sviluppo del sapere e le sue applicazioni, infatti, non hanno condotto l’uomo alla felicità duratura. La scienza e la tecnologia, infatti, facendo passi da gigante proprio negli ultimi decenni, hanno sollevato una serie di interrogativi bioetici ed ecologici che hanno messo in evidenza la necessità di auto-imporsi certi limiti. Solo così sembra possibile, infatti, salvaguardare la vita e quindi
rendere ancora legittimo aspirare alla piena felicità umana. Anche le grandi religioni, tutelando la componente spirituale dell’uomo, in genere hanno cercato di separare il concetto di felicità derivante dalle cose materiali (per lo più definito con il vocabolo “piacere”) da quello che rappresenta l’appagamento in senso più elevato. In questo ambito, la felicità sembra raggiungibile solo applicando categorie come la semplicità e la serenità dell’anima. Per il cristianesimo, ad esempio, la felicità assoluta consiste nella visione di Dio e nell’armonia con la sua legge d’amore. Il “Vangelo” di Matteo, infatti, riporta un passo dove Gesù ci invita a cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, perché, in quella dimensione tutto il resto ci verrà dato in un secondo momento.
Dunque, al di là di tutte le sue possibili sfaccettature, la felicità rimane uno dei valori umani fondamentali, come sancisce implicitamente anche la “Costituzione Italiana”, nell’articolo 3, con il richiamo al «pieno sviluppo della persona umana». Il diritto alla felicità è dunque essenziale per la tutela della dignità delle persone in ogni aspetto del loro essere.
Avere la possibilità di realizzare i propri sogni, decidere personalmente circa ciascun aspetto del proprio cammino di vita, sviluppare pianamente se stessi e la propria identità: sono queste alcune delle condizioni fondamentali dell’essere realmente felici. L’affermazione di questi principi, inoltre, rappresenta un rovesciamento di prospettiva nei confronti di impostazioni medianiche che hanno come unico scopo quello di trasferire sulla persona modelli comportamentali prefabbricati, intaccando due delle caratteristiche specifiche di ogni essere umano, ossia la sua unicità e la sua irripetibilità.
È possibile essere realmente felici, dunque? Purché vi siano certe condizioni di garanzia, ognuno dovrà cercare di rispondere a questa domanda da solo.
(Articolo di Manuela Pilati, a cura di Giuseppe Bomprezzi, pubblicato su Orizzonti)
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