| Mare.
Una volta partecipai ad un corso nel quale si chiedeva ai partecipanti di associare a diverse parole una sensazione. Tra queste parole, molto comuni, vi era la parola “mare”. Al momento di svelare le risposte scoprimmo che molti avevano associato la parola “vita” alla parola “mare”. Ma, anche se in misura meno consistente, alcuni avevano invece associato la parola “morte”, e uno aveva scelto invece il verbo “perdersi”. Questi sentimenti estremi suscita in noi il mare. Paura dell’abisso, beatitudine dell’acqua che rigenera, senso di perdizione. Tutto questo esprimono, con la sintesi tipica che solo i grandi poeti possono avere, i versi scritti da Jacques Prevert (1900-1977), nella poesia “L’annegato”:
Per l’annegato la morte è il mare
E per il mare l’annegato è forse un po’ della sua vita
Ma
se domandate all’annegato cosa pensa del mare
Se gli domandate cosa pensa del mare
Se gli domandate il suo parere
sulla vita della morte e l’amore della vita
sulla morte della vita
sulla vita dell’amore
la più leggera schiuma delle onde di questo mare
del più lontano dei suoi nuovi e così vecchi fiumi
sorride senza rispondervi
senza rispondere per lui.
In questi versi di un poeta che forse un po’ a torto è stato ritenuto troppo ‘facile’ e ‘popolare’, c’è tutto questo: il mare che per l’annegato è la morte; ma anche paradossalmente il mare che è vita anche in quel corpo dell’annegato; e quel senso di perdersi che è appunto “la più leggera schiuma delle onde che… sorride senza rispondere”. Tutto trascina, tutto porta via, il mare, per i poeti. Tutto ricorda, tutto suggerisce, tutto rinnova. Tutto spegne e tutto accende, tutto spera, e tutto dispera.
Sentimento bene espresso da Giovanna Bemporad, grande poetessa italiana, in “In riva al mare”, contenuta nella sua raccolta di esordio, “Eserciz”, che resta una specie di miracolo nel panorama della poesia italiana del Novecento. Una raccolta uscita a Venezia nel 1948, quando la poetessa aveva vent’anni.
Dalla mia fronte io esco in riva al mare
Dove destreggia sommessa i suoi baci
L’onda e conchiglie, imbuti del rumore,
ci ascoltano pudiche e indifferenti.
…
Su me sospende il cielo la sua curva
Larga, ariosa, e modella i miei passi
Non di un’età, non di un attimo , un’ora
Ma di un’antichità: parola estratta
Dalla tua pausa, o mare, fronte colma.
Antichità. Un’altra parola chiave per capire il linguaggio del mare, il suo esercizio attrattivo nei confronti dei mortali. Il mito è metafora per interpretare la disperazione del vivere, in un’altra meravigliosa poesia, “I figli del mare”, una della ultime composizioni poetiche di Carlo Michelstaedter scritta nel settembre 1910. Nella poesia si rappresenta la vita dei due figli del mare: Itti e Senia costretti ad attraversare la morte dei mortali.
Ritornate
Alle case tranquille
alla pace del tetto sicuro,
che cercate un cammino più duro?
che volete dal perfido mare?
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
e nessuna cosa vince la morte.
Ma a questo invito alla rassegnazione Itti replica che la morte così temuta dagli uomini altro non è che coraggio, e non abbandono: il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore, navigando verso il mare libero, scegliendo il rischio e la sfida.
Il mare che è attesa. Quel senso di sospensione, quello ‘stare sulla riva’ (dopo il fallimento delle passioni e delle ideologie), che un altro poeta italiano, Gianni d’Elia ( nato a Pesaro nel 1953) descrive propriamente in una lirica che dà il titolo a “Sulla riva dell’epoca” (pubblicata da Einaudi, nel 2000) :
Qui stiamo. Aspettiamo, sulla riva
Del mare, che appaia qualche segnale
Che ancora non sappiamo. Oltre il macello
Umano, anche oltre il sogno che avevamo
Nella mente e nel cuore, facendo pugno
Nella mano…Pure qui
Restiamo e insistiamo, fra mondo
E terra, a dare il fiore…
Il mare che non dà sonno e non dà requie. Che atterrisce e invita, che – visto da fermo – invita sempre e sempre a ricapitolare la propria vita, a ripercorrerne i passi, i ricordi, le attese, i gesti minimi. L’estate al mare, un altro “must” che i poeti italiani – gente che sa cosa vuol dire il mare – ha saputo raccontare con i toni più alti, e suggestivi.
Tra gli ultimi in ordine di tempo, Milo de Angelis, nato a Milano nel 1951, uno dei nostri maggiori poeti contemporanei, in Tema dell’Addio, pubblicato da Mondadori nel 2005:
Rivedo mio padre in una città di mare, una brezza
di Belle Epoque e un sorriso sperduto di ragazzo.
E poi Paoletta che sul tatami trovò la vittoria.
a tre secondi dalla fine. E Roberta
che ha dedicato la sua vita. E Giovanna,
in un silenzio di ospedali, quando il tempo
rivela i suoi grandi paradigmi.
“Torneranno vivi gli amori tenebrosi
che in mezzo agli anni lasciarono una spina,
torneranno, torneranno luminosi”.
(Nella foto: Fabrizio Falconi. Articolo pubblicato su Orizzonti n. 29)
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