| “Ho preso la scrittura molto sul serio!”… “Mi sono sempre sentita più una scrittrice che una persona!”… “Sperimentare, ecco cosa mi interessa. Essere originale, oppure muori!”… Se la si conosce, non stupiscono queste frasi pronunciate da una giovane autrice siciliana, che fa ogni giorno della letteratura uno stile di vita, già tanto personalizzato.
Viola Di Grado ha 23 anni, ha già collezionato un bel po’ di interviste, fatto il pieno di premi e di posizionamenti in finali prestigiose: due per tutte, la vittoria del Campiello Opera prima 2011 e la finalissima per lo Strega. “Settanta acrilico trenta lana” (edizioni e/o, 192 pagine, Euro 16,00) è il suo romanzo d’esordio, che è piaciuto, non ci sarebbe da aggiungere altro. Ma è la scrittrice stessa ad essere interessante, dagli studi delle lingue orientali alla pratica della filosofia buddhista, dall’abbigliamento al confine con il gotico al guardarsi intorno quasi sospesa tra la distrazione e sottili percezioni. C’è in Viola una esaltazione costante delle diversità, per lei vissute come ricchezze e non come ostacoli. Attualmente vive in Inghilterra e, quando l’abbiamo incontrata nella sua città d’origine, Catania, non ha nascosto le sue emozioni più vere: per esempio, di essere rimasta in silenzio per almeno dieci minuti quando le è giunta la telefonata con cui le annunciavano di essere tra i dodici finalisti del Premio Strega.
«Mi piacciono le cose diverse - ci ha confessato, rivelandoci il suo stile di vita -. Che avrei fatto la scrittrice l’ho pensato sin da quando ero piccola, da quando a 5 anni chiamavo romanzi le mie storie contornate di disegni. Poi, ho partecipato a qualche concorso dove i miei racconti sono stati inseriti in alcune antologie e adesso questo romanzo, che sta riscuotendo finora critiche favorevoli. Mi sento contenta, ma provo anche un senso di responsabilità».
Figlia d’arte, sin da piccola ha respirato cultura, con la mamma, la scrittrice Elvira Seminara, e il papà, il critico letterario e docente di Letteratura italiana, Antonio Di Grado. Viola è convinta, giustamente, che i lettori si aspettino molto già dal secondo libro e la sua missione sembra essere quella di farli stare svegli la notte.
«Già il mio romanzo d’esordio – prosegue Di Grado – rappresenta una storia contro le storie: la protagonista, infatti, dichiara di aver paura delle storie (suo padre è un cronista, chi cioè racconta il presente che, un attimo dopo, diventa già passato!); il libro stesso non è una storia che asseconda le aspettative dei lettori; poi, la storia d’amore all’interno fallisce; forse vorrebbe essere una storia d’amore, ma non lo è; non è neanche un libro scritto per reazione».
Ma cosa voleva raggiungere, allora, attraverso la scrittura?
«Certamente una mia estetica. Sicuramente seguendo il rigore di quando scrivo, per me quasi questione di vita o di morte».
Comprendere la passione letteraria di questa scrittrice diventa interessante: per farlo, ci rifacciamo al grande autore giapponese del ‘900 Yukio Mishima, l’ultimo dei samurai, morto suicida nel 1970 con il seppuku, il suicidio rituale dei guerrieri del Sol Levante. Per Mishima la letteratura era anche amore per il proprio corpo, culto del fisico, della palestra, degli sport da combattimento, della boxe, del kendo e, quindi, vero e proprio strumento di battaglia per restituire al proprio Paese l’onore e la gloria perdute con la sconfitta nella Seconda guerra mondiale. Questione di vita o di morte, appunto! Disciplina ferrea, fino a considerare il proprio corpo strumento per perseguirla, un vero tempio dell’arte vivente! Viola Di Grado forse va oltre, ma pensiamo per l’eccitazione dei suoi appena trascorsi vent’anni, soprattutto quando afferma: «La scrittura stessa, l’effetto delle mie frasi, devono fare male, quasi perseguissero una forma di sadismo». Però le crediamo quando afferma che «non credo ai libri da comodino: i libri ti devono scuotere e fare male, se li leggi e ti addormenti, allora hanno fallito nel loro scopo».
L’hanno già definita più volte una ragazza dark. Cosa ne pensa?
«Penso sia sbagliato, ma non come parola. Il libro certamente è cupo, ma non c’entra per esempio con le saghe dei vampiri. Preferisco quando mi dicono che l’opera è inclassificabile».
Lei è credente? Quanto influiscono i suoi studi orientali su ciò che scrive?
«No, non sono credente, in niente, se non nella bellezza. Bene e male? Non credo in una loro forma dualistica. Credo nel grigio? No, nel rosso! Come il sangue, ma anche come la vita. Infatti, mi piace raccontare cose che ho vissuto, anche se non ci sono note biografiche nel mio libro, come molti possono pensare».
Almeno per il momento lo strumento scelto da Viola Di Grado è la prosa. La poesia non trova alloggio nel suo tempo e nei suoi pensieri. «Non mi soddisfa scrivere poesie – confessa -. Credo che l’arte come scrittura sia una cosa, la vita vissuta sia un’altra cosa. Anche se non mi sento distaccata dai miei libri o dai miei personaggi».
Quali sono gli autori a cui si ispira o che le piacciono particolarmente?
«Mi ispira molto la letteratura giapponese, antica e moderna. Poi, leggo molto Virginia Woolf, Emily Dickinson e Sylvia Plath».
E per il suo linguaggio letterario?
«Volevo creare un linguaggio nuovo, cercando molto lo straniamento, usando le parole diversamente da come vengono usate solitamente, facendo percepire al lettore un leggero slittamento di senso. Qualcuno, infatti, leggendo il romanzo mi ha confessato che ha avuto come la sensazione di doverle tradurre. Gli studi che faccio certamente mi influenzano. Studiando lingue così diverse come il cinese e il giapponese, si guarda poi alla propria lingua, soprattutto se occidentale, quasi da lontano».
Quale è la sua peggiore paura?
«Ne ho qualcuna. Forse, la noia; le persone banali. Le paure fisiche? Quella per gli accendini».
E non è un caso, allora, se l’ideogramma preferito di Viola sia quello antico del vuoto: una balla di fieno con sotto del fuoco, che si legge come il vuoto che è il risultato di un’azione.
(Articolo di Antonio Iacona, pubblicato su Orizzonti n. 40)
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