| “Il gaudio è duplice. Da una parte abbiamo uno scrittore che ha vinto il Premio per i giovani - incredibile: una volta tanto è andato alla persona giusta -, dall’altra è davvero divertente”.
Con queste parole, nel 1994, Cesare Cases salutò l’esordio di Giuseppe Culicchia con “Tutti giù per terra”, una sorta di esilarante diario di Walter, adolescente di famiglia operaia che si iscrive, con scarso successo, alla Facoltà di Lettere e Filosofia, finendo col prestare il servizio civile e poi a lavorare in una libreria, ma sentendosi sempre e dovunque fuori posto. Walter, insomma, è il classico inetto, uno stereotipo della letteratura del ‘900 (si pensi a Italo Svevo o ad alcuni personaggi del senese Federigo Tozzi e a quel loro particolare modo indolente di lasciarsi andare, fino ad arrendersi di fronte alle difficoltà della vita).
Ignorato dalle donne, non integrato nel tessuto sociale, egli ha rapporti conflittuali con i genitori e si ostina a non mostrare la minima ambizione di carriera, in una società che glielo rimprovera di continuo. Da un punto di vista contenutistico, Franco Brevini definì significativamente “Tutti giù per terra” un libro “caratterizzato da una scrittura ilare e scorrevole, pur applicata a una materia tragica, che restituisce perfettamente quella sensazione di leggerezza ed euforia che ci accompagna ogni giorno tra gli ordinari disastri del mondo post-moderno”. Il successo fu poi coronato dalla trasposizione cinematografica, con Valerio Mastandrea quale protagonista.
Il secondo romanzo (“Paso Doble”, ’95), seppur costruito, fu invece parzialmente deludente, in quanto abbastanza ripetitivo rispetto al primo, dato che l’autore “si limitò ad estendere su orizzonti europei il vagabondare scanzonato del giovane Walter, eroicamente sopravvissuto al crudele girotondo del libro di esordio”, come osservato da Filippo La Porta.
Nel libro successivo (“Bla bla bla”, ’97), Culicchia mise bruscamente da parte l’umorismo per accostarsi ad un moderato pessimismo (peraltro comprensibile, dati i tempi), proponendo un punto di vista “dal basso” (il protagonista è un disoccupato) che non degenera mai nel populismo e incoraggia la riflessione, forse cedendo alla tentazione di celebrare una certa “retorica del Male”, sul modello di Céline. Il libro fu comunque accolto dalle stroncature di parte della critica, che rimproverò l’autore di avervi riversato talune sue velleità sperimentali iperletterarie, così come certi suoi virtuosismi formali.
Semplicemente nell’occasione lui volle solo “dire ciò che pensa” della società in cui vive, anzi: si trova a vivere. Infatti, la chiave di lettura di “Bla bla bla” sta nel monologo contro gli slogan pubblicitari, i cibi manipolati geneticamente, l’insana alimentazione dei McDonald’s ed altri simboli della società post-industriale. Una denuncia ricca di significati metaletterari, che rivelò, altresì, una sorta di disadattamento rispetto alla società dei consumi dell’autore, accentuata da un disagio più profondo: la misantropia patologica del protagonista. A conferma di quanto affermato da Antonin Artaud: “L’Arte ha il dovere sociale di offrire una scappatoia alle angosce della propria epoca. L’artista che non ha auscultato il cuore della propria epoca non è un’artista”.
Spettatore interessato a ciò che vede, Culicchia si è rivelato ottimo “pittore”: da qui, probabilmente, la decisione di ambientare il suo ultimo libro (“Ambarabà”) nel sottopassaggio di una metropolitana. E qui cedo la parola all’autore, che ho avuto il piacere di incontrare a Torino, in occasione della Fiera del Libro.
Domanda – Vuoi raccontarci, in breve, la trama di “Ambarabà”?
Culicchia – “Ambarabà” è ambientato in una metropolitana, e quindi non a Torino, almeno per adesso… Nel 2006 giurano che ne avremo una anche noi: da quel momento sarà anche un libro torinese (ride, ndr). Comunque in quest’opera ci sono ventuno personaggi che si raccontano in prima persona.
Domanda – Addirittura ventuno personaggi… quindi ventuno racconti e ventuno protagonisti di una singola storia. Perché?
Culicchia – Semplicemente perché mi interessava fotografare quello che passava per la testa a ventuno persone in attesa di un treno. Una di queste, in realtà, è molto importante per tutto il libro, e tiene insieme tutti i personaggi, rivelando la sua vera identità nel drammatico finale.
Domanda – Quale motivazione interiore ti ha portato a scrivere questo libro?
Culicchia – La sfida, per me, era scrivere un romanzo dove ci fosse una pluralità di voci, mentre in quelli che ho scritto in precedenza c’era un unico narratore che raccontava la storia dal suo punto di vista. Così, gli altri personaggi, risultavano inevitabilmente minori, quasi di passaggio. In “Ambarabà”, invece, ciascuno ha pari importanza.
Domanda – L’idea di questo libro è quindi nata dall’osservazione degli sconosciuti alle fermate della metropolitana?
Culicchia – Sicuramente sì, ma c’è dell’altro. Infatti, dal 1987, da quando ho visto al cinema “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders, sono stato colpito da quella parte del film in cui gli angeli ascoltano i pensieri dei passeggeri della metropolitana e per anni ho cercato di scrivere qualcosa ispirandomi a quella scena.
Domanda – Qual è stata la difficoltà più rilevante che hai dovuto superare?
Culicchia – Il fatto di dovermi immedesimare in ventuno registri diversi e quindi in linguaggi e tic verbali anche molto eterogenei. Per uno scrittore, però, si tratta di una difficoltà molto stimolante: una vera sfida.
Domanda – La città è immaginaria o reale? In Italia le città con la metropolitana sono due: Roma e Milano.
Culicchia – Potrebbe essere una di quelle due o anche un’altra: è un particolare ininfluente.
Domanda – Quindi si può parlare di una sorta di evoluzione di quello che hai proposto nei libri precedenti, che erano quasi dei romanzi di formazione, scritti in prima persona…
Culicchia – Sì.
Domanda – Ti definiresti uno scrittore “pulp”?
Culicchia – Non so cosa voglia dire scrivere pulp, io scrivo storie che a poco a poco si costruiscono, talvolta in molti anni. Dunque non ci si può regolare in base alle leggi del mercato, ci sono libri che io ho pensato di scrivere anni fa, quando non sapevo nulla di cosa potesse essere commerciale. In questi anni, per scrivere un libro ci si mette molto più tempo di quanto ci mettano a cambiare la moda e il gusto della gente.
Domanda – Come scrittore giovanilistico, in quanto i fruitori dei tuoi libri sono principalmente i giovani, vuoi comunicare loro dei messaggi?
Culicchia – No, i miei libri non hanno un messaggio definito da comunicare. Ognuno ci trova quello che vuole. Sono come la guida telefonica, che non ha niente da dire, ma ognuno la utilizza a seconda di quello che gli serve.
Domanda – Due aggettivi per “Ambarabà”?
Culicchia – È veramente molto difficile… per definire questo libro ho impiegato 144 pagine.
Di positivo, in “Ambarabà”, c’è senz’altro quella singolare capacità di calarsi nei panni altrui che è caratteristica precipua dei veri scrittori. Non tutti i personaggi proposti, però, meritavano di essere immortalati (alcuni sanno un po’ di dejà vu), seppur riscattati da altri meglio riusciti.
Essi rappresentano una galleria molto stilizzata ispirata dalla cronaca dei giornali, attività a cui lo stesso Dickens si dedicava prima di scrivere i suoi romanzi, facendo degli schizzi umoristici che servivano da preparazione agli stessi. Ci auguriamo che “Ambarabà” sia, dunque, propedeutico per un romanzo e non rimanga fine a se stesso.
Nel complesso, il libro non fa registrare quei passi in avanti, specie stilistici, che è lecito attendersi da uno scrittore ancora giovane. La prosa di Culicchia si conferma comunque essenziale e felicemente scorrevole, nonché ricca di particolari rivelatori che, da un punto di vista prettamente formale, utilizza spesso la ripetizione (anafora) per “fermare l’immagine” di singoli fotogrammi rapiti alla nostra quotidiana follia, e rappresentati attraverso la lente deformante dell’ironia e della valorizzazione del lato comico delle varie situazioni, anche quando sono per loro natura drammatiche.
Giuseppe Culicchia rimane uno degli autori under 40 più credibili, un solido punto di riferimento per i giovani, anche per la capacità di rimanere un ragazzo umile, con i piedi per terra (“Mai abbassare la guardia”, questa l’epigrafe del suo ultimo libro), fedele al suo filone di un sano ed intelligente minimalismo, senza pretese di costruzioni sistemiche ardite.
(Articolo di Fernando Bassoli, pubblicato su Orizzonti n.14 nov-feb 2001)
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