| «L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio». L’intenzione, espressa nelle parole di Eugenio Montale, sembra essere la stessa che guida la nuova raccolta di Salvatore Scialò, che s’interroga sul significato dell’esistenza, percorrendo la via, lunga, dolorosa e senza fine, della ricerca del senso ultimo delle cose. “Ho riflettuto nel dolore,/ l’evoluzione della polvere,/ la sete dell’amore,/ i perché della specie” - ci confessa l’Autore - in una delle tante liriche che presentano il frutto del suo ripiegamento interiore.
Scialò ha oltrepassato i confini dell’esperienza individuale e quotidiana per indagare oltre, navigando attraverso i vastissimi silenzi del cosmo alla ricerca di un po’ di luce, in cui poter cogliere il senso dell’eterno.
Dopo le sillogi “Pensieri sospesi fra il tempo e lo spazio” e “Il canto dei fiori recisi” - nelle quali il riferimento al contesto storico del presente diventava denuncia sociale delle aberrazioni e dei mali compiuti dall’uomo - in “Tormento ed Estasi” l’autore posa ancora il suo sguardo critico sul mondo, ma lo fa da lontano: il male non è più circoscrivibile soltanto ad alcune azioni umane da colpevolizzare, perché è connaturato alla vita stessa. Dopo gli anni giovanili, quando il mondo appare rivestito d’incanto, nel prosieguo la vita lascia cadere il velo dei sogni e delle illusioni e mostra il suo volto più autentico, e crudele, abbandonando il poeta al suo fiume di dolore; un dolore universale, e insieme profondamente intimo, personale. Un dolore antico, di leopardiana memoria: “O natura, o natura/ Perché non rendi poi/ Quel che prometti allor? Perché di tanto/ inganni i figli tuoi?”
Il poeta deve affrontare la tragedia del vivere: la disarmonia tra reale e ideale (cui l’animo tende), e poi, ancora, lo scorrere impietoso del tempo, lo sfiorire repentino e inaspettato della giovinezza; tutte tematiche ben espresse nella poesia “Le Speranze”, in cui Scialò ci rende partecipi del suo tormento con versi di straordinaria suggestione, grazie ad un linguaggio essenziale, che si muove tra successioni veloci di immagini: “Per me che ho bevuto/ alla fugacità del tempo,/ per me ch’or rifletto/ al tepore dell’autunno,/ e che, illuso, ancor rincorro/ un’alba ed un tramonto,/ il bisogno dell’eterno/ dall’uomo costruito/ or vo. […] Vo fra le pieghe d’un volto,/ allor che il tempo move/ la gioventù fugace,/ che amori e le attese/ illudon la mente,/ nell’agitar dell’acque,/ dell’onde naufragate./ Vo fra le speranze/ che venti han cavalcato/ e vie hanno percorso,/ che futuro hanno ambito/ e mai domani han ricevuto./ Disilluse, disattese,/ ideali han lacerato/ e cuori hanno bruciato,/ perché occhi hanno trafitto,/ abissi hanno abbracciato.”
La raccolta, che segue i momenti del travagliato viaggio nel gelo della vita, presenta nella parte iniziale i componimenti più intimi e personali, con la nostalgia per affetti e luoghi del passato. Scialò si affida ai ricordi per soddisfare il proprio bisogno di consolazione, ma la memoria, in cui è racchiusa la sintesi dell’esistenza di ognuno, tuttavia non basta a placare l’animo, squarciato dalla tensione della riflessione poetica. Il pessimismo, che attraversa l’intera raccolta, non può annientare il desiderio (dal latino sidera, ovvero stelle; parola che, non a caso, compare spesso in questi versi) d’assoluto, radicato in ogni uomo. E così, nelle pagine conclusive, il poeta si concede l’estasi dell’abbraccio con l’Infinito (“Or che batton l’ore,/ m’è dolce,/ attendere e dissolvere/ l’ombre e le fattezze,/ nell’infinito delle acque”) che diviene abbraccio intergalattico in Vorrei, che chiude la silloge apponendovi un sigillo di desideri insopprimibili.
Il tragitto del poeta termina qui; senza giungere ad un approdo definitivo ma soltanto ad una momentanea sosta per rinfrancare lo spirito, prima di intraprendere un nuovo cammino interiore lungo una strada sempre in salita.
(Prefazione di Caterina Aletti)
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(La silloge poetica è stata allegata al n. 38 della rivista Orizzonti)
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