| Daniele Luchetti ci parla del suo ultimo lavoro “Mio fratello è figlio unico”, liberamente ispirato al libro di Antonio Pennacchi “Il Fasciocomunista”, da cui la sceneggiatura di Rulli e Petraglia prende le distanze intessendo una storia profondamente viva e specchio di un’Italia sessantottina ribelle e idealista. Nel cast figurano, tra gli altri, i notevoli Elio Germano e Angela Finocchiaro, affiancati dal bravo Luca Zingaretti e da uno Scamarcio più credibile del solito. Il film è stato presentato a Cannes nella sezione “Un certain regard”.
Domanda – Come nasce il titolo di questo film?
Luchetti – È curioso il modo in cui lo abbiamo trovato. Il film ha avuto molte vicissitudini: abbiamo deciso di staccarci dal titolo del libro di Pennacchi “Il Fasciocomunista” perché a mano a mano ci sembrava che il film avesse preso un’altra strada e poi era un titolo che suonava forse un po’ fuori fuoco per il film. Un giorno poi in ufficio, con la produzione, ho premuto casualmente sul mio iPod e “Mio fratello è figlio unico” è stato il primo titolo che è venuto fuori… e così abbiamo deciso di fidarci della casualità di questa scelta perché ci sembrava che in realtà c’entrasse qualcosa.
Domanda – Come mai allora il film non l’avete chiuso con la canzone di Rino Gaetano?
Luchetti – L’abbiamo anche provata quella canzone ma in realtà dava l’idea di essere troppo letteraria e didascalica. Parlava del film e del rapporto tra fratelli in una maniera che rischiava di sovrastare il senso di questa pellicola che spero sia più sfumato e più a disposizione del pubblico.
Domanda – Quale dei due fratelli le viene in mente leggendo il titolo?
Luchetti – Direi entrambi, perché tutti e due i fratelli nel film hanno un senso di unicità. Elio si sente escluso da questa famiglia perché ha l’impressione che il fratello maggiore sia più amato e in qualche maniera è anche quello che rimane solo alla fine del film. Questo senso di essere ognuno unico scaturisce dal fatto che le famiglie all’epoca davano importanza soltanto alla figura maschile e le donne rimanevano totalmente escluse dal discorso.
Domanda – Quanto il film deve al libro di Pennacchi e quanto deve a Luchetti stesso?
Luchetti – Quando ho letto questo romanzo, che mi è stato proposto da Cattleya, all’inizio sono stato catturato dal suo tono scanzonato perché il romanzo racconta quegli anni di prima mano, perché è una storia autobiografica. Poi però lavorando alla sceneggiatura ma anche e soprattutto lavorando alle riprese del film sentivo che c’era qualcosa di emotivamente forte che questa storia avrebbe potuto accogliere. Credo che sia visibile che il film sia molto sentito da parte mia: ho guardato quel mondo con affetto, anche raccontando il personaggio di Accio, che forse film di qualche anno fa avrebbero raccontato come un mostro. Ho cercato di guardare con affetto a chi in quegli anni era preso dalla corrente della storia e si trovava, per le circostanze più diverse, a fare delle scelte politiche che poi avrebbero condizionato tutta la sua vita. Questo sentimento è stato un elemento importante di cui ho tenuto conto nel fare il film, così come la nostalgia: erano gli anni dei discorsi sconclusionati, che facevano parte della coscienza collettiva delle persone, il domandarsi di cosa fare della nostra società, questo c’è nel film, anche con un distacco a volte ironico, perché quando racconto il ’68, attraverso Accio che mangia la minestra o Manrico che fa la dimostrazione con Beethoven defascistizzato, è una sorta di distacco ironico, nei confronti anche del modo in cui di solito quel periodo è stato raccontato.
Domanda – Le interessava di più raccontare il volto politico di quegli anni e poi cosa sono diventati, o l’innocenza della gente davanti alla politica e a un certo tipo di fare politica?
Luchetti – Sembra che uno debba sempre raccontare quel periodo un po’ impaludato, il Fascismo e quegli anni lì col desiderio di legittimare il partito di cui fa parte o il partito per cui vota. Io ho cercato di raccontare un percorso emotivo che appartiene a tutti, quello di un’Italia in cui si è portati a essere spaccati in due, fascisti e comunisti, destra e sinistra, ma anche nord e sud, anche livornesi e pisani, Roma e Lazio. Questa spaccatura nel film passa dentro la famiglia e quella famiglia è un microcosmo nel quale è più facile vedere tutto un Paese.
Domanda – Come è abituato a lavorare con i suoi attori?
Luchetti – Questo film l’ho girato in una maniera un po’ diversa da come sono abituato io. Prima di tutto non abbiamo provato quasi mai perché credo che l’attore debba andare incontro al pericolo e noi dovevamo vivere la scena come se fosse stata vera e giravamo come fosse un documentario, senza mai dare troppe indicazioni agli attori. All’inizio ho passato un po’ di tempo con Elio a leggere il copione, ma era un disastro perché lui dava continuamente un giudizio sul personaggio. Mi sembrava che ci stessimo appiattendo sul cliché del fascista raccontato in quel modo negativo come lo abbiamo visto mille volte. Allora gli ho detto di provare a leggere come se questo personaggio fosse simpatico, senza dare giudizi… e dopo che lui ha letto una battuta, io gli ho detto: “ok, le prove sono terminate!”. Abbiamo cercato di smontare una serie di abitudini da set per dare freschezza e naturalità e per dare libertà agli attori e catturare delle espressioni imprevedibili che forse non sarebbero mai scaturite.
Domanda – Perché ha deciso questo finale per il film?
Luchetti – La cosa curiosa è che noi abbiamo lavorato molto su questo finale. All’inizio era simile a quello che c’è nel libro, con il personaggio che torna in seminario e si pente di quello che ha fatto, ma ci sembrava un finale in qualche maniera “ripiegato”. Invece l’occupazione delle case è finalmente un gesto deideologgizzato: è come se il personaggio ha due liberazioni, una dall’ideologia, parte dalle cose pratiche che ha intorno, decide di stare dalla parte degli ultimi come all’inizio e poi colloca la sua famiglia, ma qui ha un problema molto grande perché sente di dover sostituire il fratello. Questa è una cosa profondamente sbagliata perché lui è diverso da Manrico. Quindi che posizione prenderà? Riuscirà a liberarsi da questo incubo di dover soddisfare i desideri familiari così come il fratello? Si trova effettivamente in un bell’interrogativo… e poi c’è stata questa ultimissima scena del mare che non sapevo in realtà come sarebbe venuta. Quel giorno avevo fatto venire l’attore che interpretava Elio da piccolo e l’ho “buttato” nell’inquadratura per vedere cosa succedeva: e quell’immagine funzionava. Quello che a me piace di quel finale è che ha una sua ambiguità e una leggibilità possibile da diversi punti di vista. Si può forse dire che il personaggio ritrova se stesso però si può dire anche il contrario, ossia che se stesso ritrova il personaggio. Spero che si capisca che c’è come una spinta in avanti, un desiderio di uscire fuori da questo lutto, tutto reso con le bellissime note di una canzone anni 80, rifatta oggi da Nada, che spinge il film verso l’esterno in cerca di sollievo sollievo sollievo, per ricominciare a vivere… questo è il senso del finale.
(Articolo di Vera Usai, in collaborazione con www.cinemadelsilenzio.it, pubblicato su Orizzonti n. 31 lug-ott 2007)
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