| Nato a Napoli nel 1960, Francesco De Filippo vive a Roma ed è un giornalista dell’Ansa. Ha lavorato a “Il Sole24 Ore”, è stato redattore capo di una rivista nazionale di cultura (Arte&Carte) e presidente di una cooperativa che si occupava di informazione e comunicazione (Informedia).
Come narratore ha esordito nel 2001 con il romanzo “Una storia anche d’amore”, seguito da “L’affondatore di gommoni”.
“Sfregio” è il suo ultimo libro (Mondadori, pp. 189, Euro 17,00)
Domanda – Hai definito “Sfregio” un romanzo di amore e morte: per quale motivo?
Francesco De Filippo – Napoli è una città che conosce bene la morte: ha il culto dei defunti che ricorda quello dell’antica Roma. La morte è sempre presente nella vita con una strana commistione. Lo stesso miracolo di San Gennaro è una sorta di resurrezione e ne parlava anche l’intellettuale francese Schifano che ha vissuto a Napoli. Vita e morte non sono due poli estremi ma due cose che stanno bene insieme e convivono. In particolare, per quanto riguarda il romanzo, anche Gennarino, il protagonista, vive questa dualità.
Domanda – Chi è Gennarino?
Francesco De Filippo – Gennarino ha ventitré anni, una moglie e due figli: vive in un quartiere difficile e campa facendo mille lavoretti per qualcuno più potente di lui ignorando di chi si tratti. A lui va bene: è sufficiente. Soltanto che un giorno la criminalità organizzata decide di risucchiarlo al suo interno e per motivi assolutamente insondabili e in conoscibili vuole cooptarlo. E quindi “obtorto collo” lui si ritrova a fare i conti con la camorra.
Domanda – E ne viene assorbito?
Francesco De Filippo – Sì: è difficile rifiutare un invito quando ti viene posto con una pistola alla tempia o alla nuca. A Napoli con la camorra, in Sicilia con la mafia o in Puglia con la Sacra Corona Unita, ma anche in Messico,in Nicaragua, in Africa centrale con alcune organizzazioni rivoluzionarie e pseudo-rivoluzionarie. Sicuramente l’aspetto brutale prende il sopravvento laddove non c’è la presenza granitica di punti di riferimento delle istituzioni.
Domanda – In effetti per Gennarino gli unici punti di riferimento sono gli affetti familiari mentre lo Stato rimane sempre assente: è così?
Francesco De Filippo – Il suo punto di riferimento non è l’istituzione, il sindaco, la polizia, i carabinieri bensì il quartiere. Oltre il quartiere c’è il resto del mondo, l’ignoto. Questo libro parla di una Napoli che ho voluto topograficamente individuare, cercando di strappare questo “cancro” dalla parte sana e circoscrivendolo urbanisticamente.
Domanda – Da giornalista come hai vissuto e vivi i titoli in prima pagina sulle brutture della città?
Francesco De Filippo – Beh, sono portato a giustificarli perché ovviamente fa molta più notizia il fatto che un bambino sia stato massacrato piuttosto che un altro sia stato salvato dalla solidarietà del quartiere o dalle istituzioni permettendogli di essere operato nel migliore ospedale degli Stati Uniti.
Domanda – In tutto questo c’è una responsabilità del giornalismo?
Francesco De Filippo – Sicuramente è rintracciabile in una episodicità di attenzione. Napoli ciclicamente diventa un po’ il capro espiatorio del nostro Paese: allora tutti quanti possono darle addosso. Geograficamente forse Napoli è la città che più si presta a ciò, magari perché così magmatica, elastica, al contempo furba e ingenua, passionale e razionale, così fedele e così puttana.
E alla fine ha un fascino. Non credo ci sia qualcuno che, dopo averla vista, la possa definire uguale alle altre città: la si ama o la si odia.
Domanda – La soluzione linguistica del romanzo nasce da una voglia di maggiore aderenza al reale o è anche un omaggio alla particolarità della “lingua” napoletana?
Francesco De Filippo – Se qualcuno va a Napoli da Belluno o da Reggio Calabria o dall’estero, sente una serie di suoni, rumori, confusioni, lingue che capisce poco. Dal contesto e dalla funzionalità degli altri sensi riesce a capire che cosa sta accadendo. In questo libro ho tentato di trasporre tutto il contesto di una forma narrativa: si parla napoletano e il lettore deve “sentire” la stessa sonorità, la confusione e la nodosità dei suoni che sente a Napoli e poi, non avendo a disposizione gli altri quattro sensi, ho fatto in modo di spiegare in italiano con un lessico comprensibile il contesto e diventa quindi poco importante se una o due o dieci parole in una frase non vengono afferrate pienamente, nella loro accezione più squisitamente napoletana. L’importante è che si capisca che cosa sta succedendo. Ecco: volevo trasferire l’audio in scrittura.
Domanda – Perché la dedica ad Andrea Camilleri?
Francesco De Filippo – La dedica a Camilleri non c’entra con la scelta del linguaggio, forse si nota perché Camilleri scrive in quel modo. La dedica nasce perché lo considero il mio maestro di vita: lo comprova il fatto che il romanzo precedente “L’affondatore di gommoni” che parlava di un ragazzo albanese che veniva in Italia, è scritto in un italiano che non esiste, l’italiano che io ho immaginato possa essere di un albanese che viene a vivere qui. In quel caso non c’era la dedica a Camilleri: adesso è facile mettere in correlazione le due cose, ma non c’è alcuna attinenza.
Domanda – Quale aspetto di questo libro e di Napoli può assurgere a simbolo di una situazione e condizione universale prescindendo dall’elemento particolare e geografico?
Francesco De Filippo – L’amore e la morte e inevitabilmente la criminalità. M’interessava approfondire e sondare il lato maligno dell’uomo, la possibilità che una persona possa un giorno andare freddamente a torturare e ammazzare per poi tornare a casa a guardare la tv con i figli. Questo per me rimane un mistero: conservare una tranquillità interiore nonostante si commettano delle brutalità. Ma non è solo Napoli: è Cecenia, Iraq, dovunque.
(Articolo di Giovanni Zambito, Orizzonti n. 31, lugl.-ott. 2007)
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