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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Vincenzo Cerami, artigiano della parola: «Io ho una specie di ossessione del raccontare… Ma non vado dallo psicoanalista perché ho paura che mi dica di non scrivere più».

di Rivista Orizzonti

Dopo una pausa durata dieci anni, Vincenzo Cerami ritorna al romanzo con «Fantasmi», un libro incentrato interamente sulla ricerca dell’identità.
Attraverso l’intreccio dei vari personaggi e le esperienze del protagonista, «Fantasmi» indaga su questo tema di grande attualità e i grandi interrogativi legati ad essa: quale identità ci attribuiamo o vorremmo avere? Quale ci attribuiscono gli altri?
La trama, costruita in base a questa esigenza, ruota attorno alla figura di Morena, donna fragilissima e al tempo stesso piena di vita. Figlia di un celebre compositore omosessuale e di una madre morta suicida, perché stroncata dai pettegolezzi, Morena è sempre inseguita dai fantasmi dei suoi genitori ed è sempre alla ricerca di se stessa e contemporaneamente in fuga dalla sua identità. Si cancella, raccontando bugie: perennemente impegnata nell’invenzione di nuove personalità, cambia casa, identità, e si costruisce un passato su misura col nuovo personaggio (qui è esplicita l’influenza di Pirandello sullo scrittore, prendendo ad esempio romanzi come «Il fu Mattia Pascal» o «Uno nessuno centomila». Ma «Fantasmi» non è solo la storia di grande «smarrimento personale» (per usare il termine adoperato dallo stesso Cerami), ma soprattutto a livello sociale: nella sua incapacità di rassegnarsi all’ipocrisia, naufragando di città in città, la protagonista evidenzia, sullo sfondo dell’ultimo trentennio di storia patria, il profondo cambiamento della realtà, con il crollo dei vecchi miti e l’affacciarsi di nuovi.
Per rendere sentimenti così contrastanti, Cerami fa ricorso a vari registri di scrittura, dal fiume di parole dell’autocoscienza alla pausa di riflessione, nelle pagine del libro dedicate al personaggio di Alessandra, in cura da uno psicoanalista. E poi al romanzo epistolare, nelle pagine in cui Morena si dedica alla lettura delle lettere d’amore scambiate con Giorgio. Confermandosi ancora una volta «artigiano della parola».

Domanda – Cosa ci dice su «Fantasmi»?

Cerami – È un libro a cui tengo molto, frutto di dieci anni di lavoro. In esso è presente tutta la mia vita, tutta la mia esperienza e il mio lavoro con la creatività. Per questo lo considero la mia opera più importante.

Domanda – A quale idea è legato?

Cerami – Innanzitutto a quella di raccontare il mio presente: io sono nato e vissuto nel dolore, dal dopoguerra fino ad arrivare al duemila, e davanti mi è passata l’Italia.
Ho comunicato in questo libro l’Italia che è passata, nella quale è cambiata la lingua, il lessico. Ho cercato di prendere la realtà di fronte: ho visto morire la società contadina che era già morta anche se non lo si sapeva ancora; poi ho visto, passare davanti, il popolo italiano che è diventato massa. E infine ho visto la perdita dei punti di riferimento, che erano vuoti ma c’erano, fino ad arrivare all’anomia, questo sentimento così diffuso oggi. È una specie di grande smarrimento che spinge l’individuo ad aggrapparsi a situazioni sempre nuove. Infatti, per andare avanti, si sente la necessità di accozzare dei segmenti che ci possano accompagnare per un tratto, poi di abbandonare questi segmenti, per trovarne altri. È una conseguenza del bisogno di sentirsi nelle cose, di agire e di esistere, e non di essere agiti.

Domanda – Quindi se c’è un filo conduttore nel libro, questo è certamente il sentimento di smarrimento che prepotentemente si affaccia all’individuo odierno.

Cerami – Certamente. Io ho avvertito quasi una patologia in cui ognuno di noi non trova una misura con la realtà e non considera quello che c’è intorno. È una cosa evidentissima: la famiglia, che era nata come baluardo tuttofare, non esiste più. Esistono, invece, degli involucri vuoti e l’individuo si inventa una propria esistenza. Io ho voluto portare questo sentimento di smarrimento della nostra epoca.

Domanda – Che tecnica narrativa ha utilizzato per rendere un concetto così complesso?

Cerami – Io ho sempre guardato le storie prendendo da un lato il punto di vista esterno: cioè mi immedesimavo lessicalmente con i personaggi, però conservavo la distanza della terza persona, che rappresentava da parte mia una centralità, un punto di vista fermo. Con un esempio, mi appoggiavo con le spalle all’angolo e, da questo angolo illuminato con una certa luce sulla realtà che mi stava attorno, raccontavo ciò che è comprensibile agli occhi di tutti, non certo ciò che non esiste: raccontavo, dunque, quello che c’è anche se non si vede, perché è immerso nel nostro silenzio. Quindi, io mi tengo sempre un po’ in sospeso, da una parte intuisco i temi e dall’altra me ne distanzio.
Ho bisogno di lavorare sulla struttura forte, però poi di perdermi nella pagina, e forse questo romanzo, data la sua struttura particolare, mi ha fatto correre qualche rischio in più, proprio perché non ero sorretto dalla struttura narrativa classica. Non potevo più costruire una narrativa sulla base delle opere precedenti: io ero un ballerino assieme ai personaggi della mia storia e questo mi ha portato ad essere io stesso tutti i personaggi. Ho dovuto inventare una struttura polifonica, per restituire questo sentimento di una realtà disfatta nei suoi punti di riferimento.
Oltre a questo, c’era anche da parte mia una spinta di natura molto più letteraria, che era quella di proporre un tipo di narratività diverso, un romanzo, in Italia - che sappiamo il paese della poesia – con l’invenzione di questa struttura narrativa. La mia si proponeva come una provocazione a livello letterario, che speravo potesse essere colta per creare un dibattito sull’argomento. Ma questo oggi non è possibile, andava bene negli anni 60.

Domanda – È stato facile identificarsi nella protagonista, che è un personaggio femminile?

Cerami – Il personaggio di lei non mi ha creato problemi, visto che non è un’identificazione psicologica, ma un’invenzione poetica. La donna ha la sua spinta, è chiamata in qualche modo, da forze ataviche, a produrre qualcosa, che è poi il fare figli. È l’unica cosa che forse succede in questo libro.

Domanda – Lei si definisce un artista o un artigiano della parola?

Cerami – Io penso che non possa esistere arte senza artigianato, per questo motivo questa distinzione è superflua. L’arte intesa separatamente dall’artigianato è una distinzione quasi borghese che pone l’accento sull’«ispirazione», intesa come una specie di grazia da cui è toccato lo scrittore. Io credo invece che il momento dell’ispirazione in una produzione artistica duri pochissimo. Poi tutto il resto è lavoro, cioè il saper manovrare una macchina, che nel mio caso è quella narrativa.

Domanda – È sufficiente il lavoro di artigianato per diventare un bravo scrittore?

Cerami – Ovviamente no. Non si diventa scrittori semplicemente studiando, così come non si diventa musicisti suonando o pittori dipingendo. È indubbio che occorre il talento, e questo te lo trovi addosso senza sapere nemmeno perché.

Domanda – Lei come si è accorto del suo talento?

Cerami – Io ho iniziato piccolissimo, spinto dal bisogno di voler comunicare con il mio insegnante di lettere, che era Pier Paolo Pasolini. Quando lui ci assegnava i temi liberi in classe, io scrivevo racconti che lo facessero ridere perché sapevo che a lui piacevano, visto che stava poco bene - è stato anche cieco per un po’ di tempo - ed era molto timido. Così lui ha iniziato ad accorgersi di me. Poi col tempo ho cominciato a capire che scrivere non è altro che raccontarsi attraverso il linguaggio, ma non direttamente come quando si scrive un diario, ma raccontarsi raccontando gli altri. È necessario che io mi metta in scena, per vedere le cose di me che hanno anche gli altri, in modo che loro possano percepire il mio messaggio e riconoscersi.

Domanda – Che rapporto ha con la scrittura?

Cerami – Io ho una specie di ossessione del raccontare. Anche quando non scrivo, passo dalla mattina alla sera da una fiction all’altra, c’ho intorno fantasmi. Per rendere l’idea faccio un esempio che riguarda il mio libro di racconti «La gente». Per tutto il tempo della stesura ho vissuto con loro un rapporto interlocutorio: ho vissuto con 64 protagonisti, sono stato con 200 personaggi attorno che non esistevano, fantasmi… Beh, sicuramente in questo modo di vivere la scrittura c’è qualcosa che non va… Ma non vado dallo psicoanalista perché ho paura che mi dica di non scrivere più.


(Articolo di Caterina Aletti e Giulio De Angelis, pubblicato su Orizzonti n. 17, sett-ott. 2001)

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