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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Intervista a Ian McEwan. «Cercare di fermare il tempo, di catturarlo, è un’ossessione comune: chiunque tenga un diario ne è affetto».

di Rivista Orizzonti

Roma – Camicia grigio antracite, jeans neri e occhialini tondi, Ian McEwan risponde pacatamente alle domande dei giornalisti. Lo scrittore inglese è a Roma per presentare il suo libro, «L’amore fatale» (Einaudi), storia di un amour fou omosessuale non corrisposto, di un’ossessione patologica che però insinua nel lettore il dubbio che un amore non possa mai, per definizione, essere ragionevole.

Domanda – Perché è così interessato ai rapporti deviati tra le persone?

IAN MCEWAN – A me interessano i rapporti umani, punto e basta. Aggettivi come «deviato» o «normale» non mi appartengono. È vero però che amo le situazioni estreme, gli stati mentali esasperati, perché è nella disgregazione dei rapporti con amici e parenti che troviamo noi stessi. Ne «L’amore fatale» volevo mostrare proprio questo: lo spaccato di un rapporto coniugale riuscito, fiorente, che entra in crisi fino ad autodistruggersi.

Domanda – Tutti i personaggi dei suoi libri combattono col tempo. È una delle sue ossessioni?

IAN MCEWAN – Perché degli altri scrittori si dice che hanno tematiche e di me che ho ossessioni? Non so se sentirmi gratificato o offeso da questa differenza. Comunque, sì: ho cominciato con «Bambini nel tempo», il mio primo libro consapevole, a usare lo spettro dell’infanzia perduta come un modo diverso di vedere il tempo. In «Lettera a Berlino» ho allargato quest’ottica dal personale all’universale, applicandola alla storia collettiva; infine, in «Canti neri» l’ho perfezionata facendo tornare la storia sotto forma di memoria. Del resto, cercare di fermare il tempo, di catturarlo, è un’ossessione comune: chiunque tenga un diario ne è affetto.

Domanda – Eppure, non può negare di avere una visione della vita piuttosto morbosa…

IAN MCEWAN – La normalità, la vita ordinaria non mi attira: è grigia, noiosa, priva di stimoli sia per l’autore che per il lettore. L’ossessione invece ti costringe a restringere la mente, a focalizzarla solo sull’oggetto da cui sei ossessionato.
Il protagonista de «L’amore fatale» è affetto dalla sindrome di Clérambault, un delirio psicotico che gli fa immaginare cose che non esistono.
Come attraverso uno specchio distorcente, si convince che l’altro sia innamorato di lui e ignora qualsiasi segnale in senso contrario. Diventa uno «stalker»: uno psicopatico che bracca la sua vittima senza tregua.

Domanda – Allora è l’elogio della pazzia?

IAN MCEWAN – No, a differenza di molti intellettuali io mi rendo conto che i malati mentali sono circondati da molta sofferenza.
Depressione e follia sono una prigione mentale, ma indubbiamente hanno una componente creativa. Ho visto un diagramma della produzione di Schumann: ha composto la sua musica migliore durante i picchi delle sue crisi di follia.

Domanda – Da tre dei suoi romanzi sono stati tratti dei film. È soddisfatto del risultato?

IAN MCEWAN – Quando un autore accetta che dal proprio libro sia tratto un film, ha due possibilità: o scrive egli stesso la sceneggiatura oppure si fa da parte. Ma non può incombere come un fantasma sulla lavorazione, perché rovinerebbe tutto. Birkin, il regista di «Il giardino di cemento», lui sì che aveva un’ossessione: ci ha messo 16 anni per trovare i finanziamenti; ho pensato che lasciandolo libero il film sarebbe riuscito meglio, e così è stato.
Con Pinter, che ha sceneggiato «Cortesie per gli ospiti», era diverso perché eravamo amici: andavamo a pranzo e discutevamo le scene. Ma l’esperienza per me più dolorosa riguarda «Lettera a Berlino»: per due anni sono stato molto coinvolto nella sceneggiatura, ma alla fine nessuno era soddisfatto, né io né il regista John Schlesinger né il protagonista Anthony Hopkins. Ancora non so bene il perché: era come una ricetta in cui ottimi ingredienti non sono riusciti ad amalgamarsi.

Domanda – Quali autori del cinema inglese predilige?

IAN MCEWAN – Condivido l’opinione di Danny Boyle, secondo cui oggi in Gran Bretagna c’è un’esplosione di energie creative lontano da Londra (anche se credo che gli scozzesi non siano felici di essere definiti «la periferia»…)
Il suo «Trainspotting» mi è piaciuto, anche se poco sofisticato visivamente: non era certo la fotografia di Vittorio Storaro! E poi sono un grande ammiratore di Mike Leigh.


(Articolo di Federica Fantozzi, pubblicato su Orizzonti n. 1bis marzo-aprile 1998)

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