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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Banco del Mutuo Soccorso. Intervista al cantante FRANCESCO DI GIACOMO. «I nostri concerti non erano preparati, come succede oggi, in modo che a un certo punto scatta la battuta e di conseguenza l’applauso di rito».

di Rivista Orizzonti

Domanda – Come è iniziata la sua carriera di cantante?

FRANCESCO DI GIACOMO – È iniziata in maniera molto casuale, se casuale si può dire. Nel mio quartiere c’era un gruppetto che suonava e il chitarrista mi chiese di cantare un pezzo, lo feci perché mi piaceva, non perché fosse una mia aspirazione. Questo ragazzo fu soddisfatto e, dato che avevo stima di lui, fui contento; allora avevo solo sedici anni. Dopodiché formai con dei ragazzi un piccolo gruppo e andammo a suonare in parrocchia; puoi immaginarti i vari problemi creati per le capigliature ecc.
Poi il cantare mi è stato un po’ trasmesso da mia madre, una donna che ha sempre amato cantare, cantava di continuo ed adesso che ha ottantanove anni tenta ancora di cantare (ride, ndr)

Domanda – Il suo primo concerto dal vivo con chi lo ha fatto e soprattutto come è stato?

FRANCESCO DI GIACOMO – In parrocchia, con tutti gli imbarazzi del caso come puoi immaginare; pensandoci adesso mi viene da ridere vedendolo fare agli altri. Mi ricordo era d’inverno, una giornata grigissima, e io avevo gli occhiali da sole perché m vergognavo. C’erano molti ragazzi, è stato un bel concerto anche se non c’erano mezzi tecnici, abbiamo suonato pezzi di altri gruppi, oggi direbbero cover, alcuni erano di “Eric Burdon and the Animals”, un gruppo degli anni 60 a cui mi ero molto ispirato.

Domanda – Quanto tempo è trascorso prima di entrare nel Banco?

FRANCESCO DI GIACOMO – Con questo primo gruppo, si chiamava “Le Esperienze”, dove già c’era Pierluigi Calderoni alla batteria e Renato D’Angelo al basso, ho continuato a suonare per tre anni, siamo andati anche due mesi in Germania, dove siamo rimasti delusi, perché in realtà da noi c’era molto poco, e ci siamo resi conto che continuare a fare cover era un lavoro sterile, soprattutto dovevamo decidere se suonare per mestiere o farlo come dopo lavoro. Alla fine rimanemmo in tre (voce, batteria e basso), e l’estate stessa un nostro amico ci disse che c’era da fare un provino con un gruppo con un nome strano “Banco del Mutuo Soccorso”; il caso volle che il loro batterista e il bassista li dovettero lasciare per motivi personali, così li sostituirono Perluigi e Giacomo; era il 1971.

Domanda – Come era l’atmosfera nella sala quando avete registrato il primo disco (B.M.S)?

FRANCESCO DI GIACOMO – Innanzitutto c’era una situazione politica estremamente tesa, soprattutto c’era la voglia in tutti i cantautori di fare musica sì con la fantasia ma anche con delle aspettative, e poi a vent’anni hai tutto il diritto alla stupidità pensando di essere migliore di tutti. Noi facemmo un grande concerto a Bollate (Milano) dove c’erano tanti gruppi dell’epoca, tra i quali la P.F.M. e i Colosseum. Mi ricordo che sul palco chiedemmo se potevamo avere dei diritti discografici, vennero la Ricordi, RCA e l’Ariston, noi scegliemmo la Ricordi. Il provino lo facemmo in una sala parrocchiale a Milano dove dal lunedì al venerdì era lo studio di registrazione della Ricordi, il sabato e la domenica si trasformava nella sala cinematografica della parrocchia.
Tecnicamente il disco è nato lì, a livello di stesura invece è nato a Marino, dove provavamo in una cantina piccolissima, c’era questo “sacro fuoco” di scrivere, ma i testi nascevano anche sull’autobus che da Roma mi portava a Marino; alla fine una giornata di prove ti impegnava tutto il giorno. Ci vollero otto mesi per realizzare tutto.

Domanda – Quale era il vostro pubblico negli anni 70?

FRANCESCO DI GIACOMO – Naturalmente era un pubblico di ragazzi, sempre più numerosi, noi cantavamo in italiano, e quello che dicevamo era molto aderente a quello che succedeva, erano delle persone molto attente perché non c’era tutta l’indifferenza che c’è oggi, non politicamente, ma a livello quotidiano; ogni tanto c’è questo risveglio degli studenti che chiedono poco e male, sono un po’ come l’urlo della piazza, un urlo che dura poco. C’erano anche dei lati negativi, infatti ci fu un grande travisamento, la musica era diventata lo strumento che doveva risolvere tutti i mali e i problemi. È nato poi un momento di grande tensione per cui la musica si sentiva e non si pagava, perché Fazio con quella piccola farsa degli anni 70 ha trascurato la presenza fortissima e numerosa e più congrua di gruppi come il nostro, rispetto a quelli che facevano musica leggera e commerciale, che comunque avevano il diritto di esistere come lo hanno oggi.
Questa mancanza alla fine generò degli scontri fortissimi, mi ricordo l’ultimo concerto fu quello di Santana al Palasport, fu una vera e propria guerra, così per due anni non facemmo più concerti.

Domanda – Che cosa ha provato a salire sul palco dopo l’uscita di B.M.S.?

FRANCESCO DI GIACOMO – Guarda noi suonavamo già quei pezzi dal vivo, però ad amplificare l’emozione fu l’ascesa al primo posto in classifica del disco, di conseguenza il pubblico fu sempre più numeroso, soprattutto ai raduni con più gruppi dove l’affluenza di persone adesso forse riescono ad eguagliarla solo Vasco, Ligabue e Ramazzotti. L’impatto emotivo c’era nei primi venti secondi, poi si stabiliva il rapporto con il pubblico, secondo me magico, e tutto andava a posto. I nostri concerti poi non erano preparati, come succede oggi, in modo che a un certo punto scatta la battuta e di conseguenza l’applauso di rito, allora si creava questo “filo rosso” forte che non aveva bisogno di grosse strategie di comunicazione, forse era nell’aria la credibilità che tu avevi nel suonare, e la voglia del pubblico di far sentire la propria forza e l’aderenza a quello che succedeva.

Domanda – Vittorio Nocenzi (tastierista) nello speciale trasmesso su Rai3 ha detto che «facendo musica si sprigiona una enorme quantità di energia». Come fan penso che sia verissimo, vorrei chiederle: noi fans ve la restituiamo quest’energia?

FRANCESCO DI GIACOMO – Ti posso dire una cosa: non succede sempre ma spesso sì, ci sono dei momenti invece che tu ti accorgi di non funzionare, sicuramente certe volte non basta la tecnica per fare un concerto, c’è bisogno che tu ci stia dentro tutto. Alcune volte succede che non ti va di fare un concerto, poi succede che nel farlo ci rientri dentro, però se succede troppo tardi ti accorgi che stai dando poco, e intanto il pubblico ti dà molto allora riparti. È vero che c’è proprio un’energia fisica e mentale che è come una pila accesa in continuazione, delle volte si può suonare in relax ma con una grande tensione emotiva.
Una cosa molto bella è per esempio quando stai facendo un concerto in piazza, dove spesso c’è confusione, però qualcuno ti grida qualcosa di positivo, poi ti viene a trovare dopo il concerto, scopri che è un ragazzo giovanissimo che magari ha tutti i nostri dischi, e che il suo entusiasmo vale di più di tutti gli altri insieme; tutto questo è molto emozionante.

Domanda – Mi potrebbe dire quale è il testo a cui è più affezionato e perché?

FRANCESCO DI GIACOMO – C’è un pezzo che noi non suoniamo da anni che io amo moltissimo, si chiama “La notte è piena”, di quelli che facciamo dal vivo mi piace moltissimo “R.I.P”, invece degli ultimi sono molto affezionato a “Tirami una rete” che purtroppo non facciamo quasi mai. Quando scrivo, scrivo sempre cose che mi appartengono, altrimenti non le scrivo, infatti quando lo ho fatto dei testi per altri cantanti, per esempio Morandi, ho dovuto plasmare il mio modo di scrivere rispettando quello dell’altro.

Domanda – Come ha vissuto il cambiamento musicale in questi ventisette anni?

FRANCESCO DI GIACOMO – Intanto c’è da capire una cosa, che un gruppo ha delle appartenenze storiche precise, perciò io non credo che duecento gruppi che vanno dai Casino Royale ai 99 Posse facciano della musica stupida, assolutamente, fanno della musica che appartiene a questo tempo. Però il rap, che di per sé è una musica importata, diventa alla fine la dimostrazione che la musica non è soltanto “doremifasolladiso”, che la rende attuale e diversa nel momento che diventa una moda. Per quanto riguarda il rap bisogna saper scindere una cosa, cioè come è nata una corrente espressiva, come si è evoluta e poi come si è impoverita nella produzione. Faccio un esempio per tutti, personalmente io preferisco Frankie Hi Energy agli Articolo 31, è un discorso di credibilità, così come sento che sta maturando un personaggio come Jovanotti, che non considero assolutamente un cantante perché non lo è. Se invece lo devo leggere come un comunicatore credo che sia valido, anche se tutto è permeato da un positivismo un po’ pacioccone, che non fa vedere la parte marcia delle cose, e quindi mi chiedo quanta buona fede ci sia.

Domanda – Come mai i dischi degli anni 80 sono fuori distribuzione oppure sintetizzati in una raccolta, e perché sono così diversi da quelli del 70?

FRANCESCO DI GIACOMO – Non so risponderti per quanto riguarda la prima domanda, penso forse per ragioni commerciali. Per la seconda posso dirti che a detta di altri la musica di quel periodo è al 90% da buttare, in realtà ascoltando qualche pezzo non hanno tutti i torti.
Comunque un motivo potrebbe essere quello di adattarsi alla comunicazione di quel periodo, ma soprattutto visto che noi facciamo della musica atemporale, infatti facciamo pezzi di dieci minuti ma possiamo farne anche di uno, ci ha creato dei grossi scompensi perché le nostre canzoni non le passavano alla radio, o nei casi migliori le sfumavano. Ancora oggi abbiamo questi problemi, infatti dell’ultimo disco abbiamo potuto fare solo la promozione, dove abbiamo trovato dei problemi alla Rai, che ha delle insufficienze di strutture a differenza di Radiorai e Roxy Bar, dove invece ci siamo trovati benissimo.
Quindi è vero che negli anni 80 abbiamo cambiato modo di fare musica, perché c’è comunque un periodo in cui tu senti di scrivere in modo diverso, facendo lo stesso dei successi come “Paolo Pà”, “Moby Dick” ecc., ma è anche vero che siamo tornati alle nostre matrici di scrittura dall’album “Il 13”, perché è questa la nostra natura.

Domanda – Cosa pensa dei cambiamenti di formazione del "Banco"?

FRANCESCO DI GIACOMO – Noi siamo sempre stati molto attenti a chi prendeva il posto di un altro, comunque le persone all’interno del "Banco" sono sempre andate via e mai date via, chi perché aveva avuto dei figli, altri perché erano stanchi di viaggiare, e poi abbiamo scelto le persone che oltre alla qualità tecnica, per me secondaria, avessero dei segni di riconoscimento con noi ben precisi.

Domanda – Come è cambiato, se è cambiato, il tuo modo di scrivere e di fare musica in tutti questi anni?

FRANCESCO DI GIACOMO – Io penso di sì, se sei attento a quello che ti succede intorno, credo che è inevitabile, che devi metterti in discussione su quello che fai e sul modo di proporlo; io credo che uno cambi nonostante non voglia (ride, ndr). Sta di fatto che nel tempo cambia per forza di cose il tuo modo di scrivere e di mettere note, oggi la comunicazione è più secca. Credo che tra dieci anni il rumore avrà preso il 50% della musica, infatti oggi i suoni del mondo esterno, che inevitabilmente influenzano la musica, sono più secchi rispetto a quelli di qualche secolo fa, quindi piano piano passeremo dalle note al rumore.

Domanda – Il rapporto con gli altri gruppi simili al vostro come era?

FRANCESCO DI GIACOMO – Mi ricordo benissimo che il rapporto che c’era tra noi e la P.F.M., le Orme, gli Area era molto bello, io ho avuto un bel rapporto con un personaggio che oggi è un mito, Demetrio Stratos, con il quale mi vedevo dopo il concerto, non so, alle tre di notte, e davanti a un bicchiere di birra si arrivava all’alba senza aver mai parlato di musica.

Domanda – Che cosa si prova a suonare per tanti anni insieme alla stesse persone?

FRANCESCO DI GIACOMO – Suonare insieme per venticinque anni, non vuol dire più solamente suonare, significa vivere con una persona i giorni senza le ore, per cui si iniziava la mattina e si finiva all’alba del giorno dopo, suonando, giocando e scrivendo. Si condivide anche il viaggiare, la follia di non dormire, e poi l’uno con l’altro vedi nascere degli amori, nascere dei figli, il momento dei problemi. In tutto questo, riuscire a salvaguardare la tua interiorità, anche se non sai quanta ne salvaguardi, è già di per sé un privilegio e in qualche modo una specie di miracolo.

Domanda – Il tema della religiosità, se così si può definire, appare spesso nei vostri testi; vorrei saper il suo parere.

FRANCESCO DI GIACOMO – Non so se per educazione, ma nel tempo per convinzione io ho un mio credo, chiamalo come vuoi, Dio o una forma superiore di osservazione, penso però che oggi ci sia una grava mancanza di spiritualità, spiritualità estremamente terrena, per fare un esempio come la sacralità della materia dei Pellerossa. Credo che l’uomo oggi, specialmente quello globalizzato, stia perdendo veramente il significato della sua esistenza, si fanno tanti discorsi ipocriti di solidarietà, quando basta veder la competizione di due a un semaforo, oppure fare la fila alla posta, per capire che c’è una guerra di fondo, e alla fine chi ti sta vicino è un concorrente. In qualche modo credo che questa situazione abbia creato in me il senso del bene e del male, ma non come due cose distinte, perché in realtà sono due cose compenetranti e compenetrabili, uno non esiste senza l’altro. Così a volte il bene è inconcludente e il male è necessario.
Personalmente preferisco una cosa vissuta molto passionalmente, non con l’assenza delle passioni tibetana, preferisco amare un albero, una giornata, una donna in modo forte e doloroso invece che pacato, non è sempre così, mi piace che il mio caleidoscopio all’interno giri dandomi i coni di luce blu, verde, ecc. Sinceramente vivo male questo periodo medievale, vivo male le Madonne di coccio che piangono, i business in vista del Giubileo, ti ripeto nella spiritualità terrena, nell’apprezzare l’altro e la vita. Non credo nell’Aldilà, quando ci sarò vedrò come mi dovrò comportare.
Ieri sera (5 febbraio 1998) poi ho assistito a una cosa tristissima, l’esecuzione di quella ragazza americana. A prescindere che uno sia d’accordo o no sulla pena di morte, io per certi versi arrivo a dire che forse è necessaria e dico una cosa orribile, quando ho visto ragazzi di vent’anni, che non sapevano nemmeno l’antefatto, applaudire, sono rimasto scioccato: penso che sia una cosa feroce, perché, senza nessuna retorica, quando muore una persona muore un piccolissimo pezzo del genere umano. Se questa è la globalizzazione tenetevela, perché è triste, come è triste vedere dei papà andare sul raccordo anulare la domenica da McDonald.

(Articolo di Giulio Eusebi, pubblicato su Orizzonti n. 1bis marzo-aprile 1998)

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