| A che servono i poeti? Non costruiscono case, non tagliano il grano, non guidano treni.
Non sanno far nulla. Spesso sono imbarazzanti con le loro strane parole che ti lasciano senza risposte. Sanno solo far domande, sì, domande imbarazzanti e spiacevoli.
Sono qui con noi: i poeti camminano, mangiano, dormono, ascoltano, eppure li senti sempre altrove, mai che ridano alle battute giuste, mai che siano puntuali agli appuntamenti, mai che dicano sì o no con chiarezza.
Si ammantano di silenzio, spesso se lo portano dietro, negli occhi, sulla pelle. Ma non è il nostro silenzio, una pausa come un’altra; no, il loro silenzio ci fa rabbrividire. Il loro silenzio pesa come granito, apre porte che sarebbe meglio lasciare chiuse. I poeti socchiudono spiragli nel buio e nella paura di conoscersi viaggiano nella note che gli sussurra all’orecchio parole proibite. Sono parole che non si dovrebbero ascoltare mai, parole che vengono da lontano lontano, e ci portano laggiù, in paesi sconosciuti, a perderci.
Non si dovrebbe mai invitare i poeti alle nostre feste, ai nostri giochi, alle nostre tavole e alle nostre ricorrenze. E se vengono meglio lasciarli seduti lontano, in fondo alla sala, e non farli bere troppo. Ma i poeti bevono sempre, sono sempre ubriachi, anche quelli astemi.
Che farne, accidenti? Qualcuno una volta pensò bene di sopprimerli nei campi di sterminio, chiuderli tutti assieme e tenerli lontani dalle città. Gettar loro il cibo senza neanche rivolgergli la parola. Forse pure sterilizzarli, anche se quasi mai i poeti hanno figli. Sì, bisognerebbe usare guanti e mascherina, loro ti contaminano facilmente con le loro stramberie e le loro inopportune malinconie.
Qualcuno tempo fa li trasferì in Siberia o a lavorare nelle miniere. Ma sono cattivi lavoratori, pessimi costruttori, mancano di decenza e di educazione.
A che servono in definitiva? Ti lasciano come una febbre, a sentirti lontano da tutti, senza forze e senza respiro.
Una volta c’erano i poeti di corte, li tiravano fuori nelle ricorrenze a leggere le loro graziose filastrocche, e basta. Ma poi anche loro, di nascosto, scrivevano di tenebre e di penombre, di ferite e lacrime trattenute.
I poeti ti lasciano d’improvviso solo e disarmato, in mezzo alla gente. Ma loro sanno tutto questo: sanno che gli altri li evitano, se li abbracciano corrono poi a lavarsi le mani, sanno della loro inguaribile malattia.
Non hanno padri e non lasciano eredi. Sanno che la loro è terra desolata, non hanno casa, si disorientano, si perdono facilmente per strada. Ma non perdono mai, mai la memoria!
Brutto affare nascere con questa malattia, nessuno riesce a guarirne: se la prendi i tuoi occhi guardano fino in fondo, e fanno male.
Forse è per questo che i poeti si suicidano, prima o poi. Molti lo fanno da giovani, giovanissimi, ma anche da vecchi, magari a novant’anni, dopo essersi ingannati e mascherati per tutta la vita, alla fine lo fanno. È il loro destino.
I poeti si suicidano sempre.
(Articolo di Luigi M. Bruno - Rivista Orizzonti n. 33)
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