| Il film ci mostra in apertura due vicende parallele che quasi subito convergono. Da una parte la storia di Mario (Francesco Paolantoni), ex ristoratore in crisi coniugale che, scoraggiato dalla prospettiva di un Natale in solitudine, decide di farla finita. Fallito il tentativo di soffocare, seduto nella sua macchina, con lo scarico della marmitta, prova sdraiandosi sulle rotaie al passaggio di un treno, che, invece di travolgerlo, si arresta.
Dall’altra, il dramma di tre fratelli (ex operai) che hanno messo in piedi, tra mille difficoltà, un allevamento di struzzi e che ora attendono impazienti l’arrivo di un assessore che dovrebbe concedere loro un finanziamento.
Alla stazione avviene l’equivoco. Si assiste ad un insolito raduno natalizio, di allegria sciagurata e speranze mal riposte da parte dei tre fratelli, di piacevole, stordita, confusione per un calore inaspettato da parte di Mario. E anche se alla fine le trame intessute si scioglieranno, mostrandoci la desolazione tipica del momento, non mancherà comunque un lieto fine, anche se dotato di un amaro retrogusto.
Ancora una volta, Virzì (al suo quarto film) ci ripropone storie di vita che hanno per protagonista la gente umile, contrastata nel suo bisogno di elevazione sociale, e ricondotta continuamente al proprio status originario. La tematica, in questo caso, però, è affrontata in maniera ancora più radicale: nel film non si ha contrapposizione tra “poveri” e “ricchi”, dal momento che questi ultimi non compaiono mai, come termine di paragone. “I poveri possono stare solo con i poveri”, sembra affermare tacitamente il regista, accrescendo questa deduzione con l’espediente dello scambio di persona. Ma non solo. Ad una tematica così estrema, si aggiunge la scelta di uno stile narrativo meno realistico che, anzi, sfiora il paradosso, con una successione di eventi che dominano i protagonisti, quasi a volerne sottolineare ulteriormente l’impotenza: come di fronte alla rappresentazione di una commedia latina.
Il regista ridicolizza i suoi personaggi: Mario, che tenta nel giro di poche ore due suicidi, i giovani degli “Amarando Posse” che non si accorgono di aver ingerito funghi porcini anziché quelli allucinogeni e infine la segretaria che racconta la storia con lo zio, come un fatto ordinario, perfino ignara, nella sua ingenuità che sfocerà nella disillusione, che si tratti di una violenza. Gli unici a sottrarsi a questa beffa sono i bambini che, anzi, sono chiamati a rimpiazzare il posto vacante lasciato dagli adulti, con un maturo senso di responsabilità e la straordinaria capacità di adattamento ad ogni tipo di situazione. Il fine ultimo del film, comunque, non è il puro intrattenimento del pubblico (come accade, invece, in molte commedie latine), bensì l’espressione dell’isolamento di questi “sventurati” tanto lontani dal nostro stile di vita e quasi ghettizzati nel loro mondo, che si chiude in un casolare. Ma la differenza sostanziale, a confronto con i precedenti lavori, è da ricercare soprattutto nel finale che giunge ad un nuovo approdo: l’accettazione della propria appartenenza di classe, unica strada percorribile per una pacificazione con sé stessi e con la società in generale.
Con Francesco Paolantoni, Edoardo Gabriellini, Paola Tiziana Cruciani
Sceneggiatura: P. Virzì, F. Bruni
Fotografia: Alessandro Pesci
Musiche: Snaporaz
(Articolo di Caterina Aletti, pubblicato su Orizzonti n. 9, mar-apr 1999)
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