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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Il racconto di un difficile rapporto madre-figlia. GIULIA CARCASI presenta «Io sono di legno»

di Rivista Orizzonti

La giovane autrice romana: «Il legno è un materiale che non conduce, quindi di legno sono quelle persone che non vogliono farsi attraversare dalla corrente degli eventi».

Giulia Carcasi (classe 1984), nonostante la giovane età, è già reduce dal successo del suo primo romanzo «Ma le stelle quante sono» ed ha pubblicato da poco il secondo «Io sono di legno»: il racconto di un conflitto generazionale tra madre e figlia, narrato a due voci – modello narrativo, questo, già adottato nel suo romanzo d’esordio, dove però protagonisti erano Alice e Carlo, due ragazzi che scoprono l’amore e provano a diventare adulti.
Un romanzo a due facce, dunque. La storia dal punto di vista della madre, Giulia. La storia dal punto di vista della figlia, Mia. C’è la madre, che è un medico, con un’esistenza “mediamente” infelice, ma come appunto ce ne sono tante; e poi c’è questa figlia diciottenne, molto sicura di sé anche nei rapporti con gli uomini. Madre e figlia vivono separatamente le loro differenti esistenze, senza parlarsi e immobilizzate nel loro “essere di legno”.
Un passo del libro, che mette in luce il punto di vista di Giulia, a proposito della figlia che è uscita di casa per incontrare uno dei suoi tanti uomini e non è ancora tornata, dice: «Vorrei sapere che faccia hanno, li conosco? Sapere come li baci, se hai del trasporto o se lo fai così […] Ti immagino tutti i sabati sera».
Nella pagina successiva è Mia ad esprimere il suo giudizio nei confronti della madre e il dualismo tra le due figure femminili viene esasperato anche dalla forma narrativa scelta, in cui emergono maggiormente le contrapposizioni. Mia dice infatti: «Mia madre è una donna concreta, passa le giornate a fare, io invece sono il rovescio di lei. Lei ha la risposta pronta, io la domanda. Lei ha i piedi di piombo, io di aria. Lei sta in equilibrio, io casco di continuo. Io sono lei capovolta, lei a testa ingiù. Ho mille ragazzi ma a nessuno dico ti amo». Mia in queste parole dimostra pienamente i suoi vent’anni, quando i giudizi non ammettono sfumature, sono netti, bianco o nero: dritto o rovescio, in piedi o capovolta, a testa insù o a testa ingiù.
In questo dualismo, l’autrice ha dovuto indossare una volta i panni di Giulia, una volta i panni di Mia, così come nel suo primo libro era passata da quelli di Alice a quelli di Carlo. La giovane autrice romana in quella circostanza aveva ammesso che le era stato molto facile identificarsi con la voce femminile narrante, mentre, per parlare del punto di vista di Carlo, aveva dovuto cambiare ogni volta occhi, corpo, vestito.
L’apparente tranquillità familiare è interrotta da Giulia che, non riuscendo a comunicare con Mia, decide di leggere il suo diario. A questo punto è necessario parlare e lo fa attraverso una lettera, in cui racconta alla figlia i suoi segreti più profondi. Soltanto con l’accettazione di una verità difficile è possibile l’incontro tra Giulia e Mia. Solo ammorbidendo il legno.
Come afferma la giornalista Paola Maraone, è naturale pensare che in questo secondo libro l’autrice sia più vicina a Mia, una ragazza che ha più o meno la sua età, eppure leggendo il libro, si ha la chiara impressione invece che la voce più convincente sia quella di sua madre. Cui casualmente o forse no, è stato dato lo stesso nome dell’autrice: Giulia, appunto. E, proprio da questa domanda, prende il via l’incontro con Giulia Carcasi, in occasione della presentazione del libro a Milano, nella Feltrinelli di Piazza Piemonte.

Quanto è stato facile scrivere di Giulia e Mia e identificarsi in ciascuna di loro?
«Al personaggio di Giulia, fin dall’inizio, ho dato una connotazione che mi facilitasse nell’immedesimazione. Giulia, da piccola, porta delle scarpe orribili: quelle di cuoio, con gli occhielli sul davanti e il rialzo laterale. Ecco, quelle sono scarpe che io ho portato. Secondo me, c’influenzano molto il passo, anche il passo di “dopo”: quando smetti di portarle, continuano a condizionartelo. Sono scarpe che t’insegnano che ogni camminata deve essere ben pesata, perché più cammini e più il cuoio ti graffia. Ecco io, nel raccontare Giulia, mi sono trovata agevolata attribuendole una cosa che era appartenuta a me: questo passo incerto, questa andatura, che a volte ti costringe a restare nei problemi anche quando vorresti scapparne – perché in ogni modo ti sembra più faticoso andartene, che restare fermo lì. Ecco, la somiglianza è in quelle scarpe, che poi sono come quegli apparecchi ai denti, messi da ragazzini e che, una volta tolti, continuano a limitarti perché continui a sorridere a metà.
Al contrario, Mia l’ho anche un po’ detestata: è uno di quei personaggi cui, mentre li scrivi, vorresti fare anche un po’ di male fisico. È egoista, è viziata. Ma c’è una parte nel libro in cui l’ho sentita molto vicina: Mia si trova alla stazione e vede i treni che partono, con dentro le persone cariche di valigie, pesanti come armadi, e immagina che abbiano un finestrino e buttino tutto al vento. In quel suo pensiero, si esprime il rifiuto di questi bagagli, che poi rappresentano quelle educazioni difficili da trascinarci dietro. E allora mi domando anch’io come Mia: “Ma forse non sarebbe meglio partire leggeri? Partire con pochi insegnamenti e poi vedere la strada che sarà?».

Oltre a Mia che non vuole legami sentimentali, c’è sua mamma che invece ha molto amato, sofferto, vissuto. Mentre un’altra figura femminile, sua nonna, afferma che “una donna senza uomo è meno di metà”. Nel confronto delle tre generazioni chi risulta vincente?
«Ai tempi della nonna il matrimonio molte volte era visto come una via di fuga e, in ogni caso, come un modo di costruire le proprie sicurezze, proprio a livello caratteriale, perché, appunto, una donna sembrava incompleta di suo. E quindi non lo so se le generazioni passate hanno mai veramente amato. Col tempo ci si è resi conto che amare è qualcosa di diverso. Dell’altro, da un punto di vista economico e caratteriale, se ne potrebbe anche fare a meno. E i ragazzi, secondo me, di fronte a questo cambiamento si trovano impreparati, perché è più difficile definire che cos’è l’amore, quando è escluso che sia dipendenza o appoggiarsi l’uno sull’altro. In Mia in più c’è anche un condizionamento derivante dall’educazione. Giulia, infatti, ha molto amato e molto sofferto e io credo che, quando ci sia un passaggio di testimone da madre a figlia, in qualche modo si cerca di evitare, a chi viene dopo di noi, quello che noi abbiamo passato e i figli vengono messi sotto una campana di vetro. La madre che vorrebbe evitarle ad ogni costo qualsiasi sofferenza, finisce con l’avvolgere la figlia con un nastro isolante, tanto isolante che Mia finirà col sentirsi una persona di legno».

A proposito della scelta di questo nome per la figlia, Giulia dice nel libro: “Mia è un nome che si difende […] È un mondo di padroni questo, ma mia figlia non sarà proprietà di nessuno”. E tu cosa hai da dirci sulla scelta di questo nome?
«È un nome isolante. Ma io credo fermamente che non è possibile essere soltanto di sé stessi. Il fatto che scrivo sempre libri a due voci ne è un’ulteriore conferma. Credo che il confine tra noi e gli altri sia molto sottile e che sia molto facile valicarlo. Io sono un’insicura. E anche i miei personaggi lo sono ed hanno bisogno di conferme da parte degli altri».

Nel libro si evidenza anche l’evoluzione del concetto di famiglia, che si è modificato negli anni. Mia, che è figlia unica, racconta che avrebbe voluto una famiglia numerosa. Invece quella della madre è una famiglia in cui vivono tre sorelle, molto legate tra loro, a tal punto che Giulia la definisce una famiglia-matrioska, dove una sorella conteneva l’altra. Fino a quando un evento, la scoperta di un tradimento, rovina quest’idillio familiare. Ci spieghi i rapporti tra queste donne?
«I rapporti tra donne sono complicati e poi tra persone di sangue lo sono ancora più, anche perché sin da piccole ci hanno insegnato che il bene è quello domestico e l’odio è forestiero: è molto facile volere bene a qualcosa che hai dentro il tuo corpo, perché comunque noi siamo la collezione di chi c’è stato prima di noi – abbiamo una parte del corpo di un parente, un’altra che appartiene ad un altro parente – ed è difficile odiare qualcuno se in qualche modo sei costretto a portartelo dentro. Queste sorelle arrivano, una dietro l’altra, come vagoni di un treno, come se fossero donne cucite ed è molto difficile stabilire, tra tutte queste cuciture, dove finisca una donna e dove ne cominci un’altra».

Gli uomini hanno un ruolo marginale e sono senza spessore. Il padre di Mia è un uomo anziano che non è stato amato o forse non è stato amato nel modo giusto da Giulia. Gli amanti di Mia si susseguono, irrilevanti.
«Confermo che gli uomini in questi due libri li ho massacrati (ride, ndr). Gli uomini sono caratterialmente differenti. Ad esempio, per un uomo la tristezza è associata alle lacrime: senza le lacrime difficilmente verrà lì a chiederti come stai. Mentre da una donna queste domande ce le aspettiamo. Io ad esempio da mio padre mi sento fare domande di tipo logistico: A che ora esci? A che ora torni? Prendi la macchina? Lui si assicura che il motore in qualche modo vada avanti. Mia madre invece mi chiede: Come stai? Ed è una domanda qualitativamente diversa. Da qui questa visione».

C’è un altro tema che ricorre in tutti e due i libri ed è la gelosia. Nel primo, Alice sbircia nel telefonino del ragazzo e scopre dei tradimenti. Quanto c’è di te?
«Il cento per cento. Non rinnego nulla di queste cose. Non rinnego neanche Alice del primo libro: io sono una di quelle che leggono i messaggi sul cellulare e non mi vergogno ad ammetterlo, anche perché penso che certe cose sia giusto leggerle. Io non sono nemmeno totalmente d’accordo col fatto che i diari dei figli non vadano letti. Forse i diari nascosti bene non vanno mai letti, ma a volte siamo noi stessi a mettere queste pagine in evidenza. O a lasciare i cassetti aperti proprio perché vengano trovati. La gelosia è qualcosa che ti gela, lo dice la parola stessa, e io l’ho provata spesso, ma per una questione di appartenenza, per una questione di pareggio. Io credo nel pareggio dei sentimenti.
Nel momento in cui io sento di amare profondamente una persona, ho il bisogno di sapere che anche l’altro mi ama allo stesso modo e questo lo devo controllare, perché altrimenti non posso saperlo».

Non puoi fidarti se devi controllarlo…
«Poi capita che ti fidi talmente tanto da passare per scema, no? Un’altra cosa che ho in comune con Mia è quando lei afferma che perdonare è un vizio che rischia di lasciarti passare per fesso. Ecco io sto cercando di trovare un equilibrio tra l’ingenuità assoluta e questa diffidenza che, da un certo punto di vista, mi salva, anche se allo stesso tempo non mi permette di avere quel qualcosa in più».

Hai detto che scrivere è qualcosa di intimo, più intimo del sesso…
«La scrittura permette di trovare, dentro di noi, posti che forse un uomo difficilmente riuscirà a toccare. Sì, è qualcosa di più intimo, è spogliarsi di fronte a qualcuno. Io parlo per me. Quando finisco di scrivere un libro e decido di farlo leggere a qualcuno, mi sento messa a nudo, in difficoltà, come se stessi scoprendo una parte di me: mi sono privata di una corazza in qualche modo…»

Hai inoltre detto che scrivi per mettere ordine nei tuoi pensieri…
«Io l’ho detto più volte: scrivo per leggermi, perché è l’unico modo che ho per fare chiarezza dentro di me. Scrivo per me perché ho un grande bisogno di fare pulizia. Ecco chi ha letto il libro avrà avuto modo di rendersi conto che le frasi non sono agghindate, sono frasi lineari, dove c’è un aggettivo e uno soltanto. Questo bisogno di scegliere nello scrivere, è un bisogno che poi ritorna di riflesso anche nella mia vita, nel senso che, nel momento in cui riesco ad avere più lucidità per eliminare più aggettivi e più espressioni, riesco anche a fare spazio nella mia vita. Io credo che il superfluo sia difficilmente gestibile, perché è “altro” che devi controllare e quindi cerco di ridurre le frasi, e allo stesso modo anche nella mia vita cerco di dare spazio alle cose essenziali».

Il tuo primo libro è uscito nel 2005, questo secondo lo avrai scritto nel 2006. In più sei impegnata con l’università, dove ti sei iscritta a Medicina. Come riesci a fare tutto?
«Mi prendo tutte le influenze che passano, non ne salto nemmeno una. Sì, è difficile fare l’uno e l’altro.
Qualcuno mi viene a dire: “puoi scrivere la sera… puoi scrivere tre-quattro pagine al giorno”, ma la scrittura è qualcosa che non puoi gestire, perché ci sono sere che non hai nulla da raccontare e ce ne sono altre che ti parte una storia e non puoi smettere di scrivere perché vuoi vedere come va a finire e perché hai bisogno di scioglierla dentro di te. E, quindi, vivo un po’ con una porta chiusa e l’altra aperta».

Per il prossimo libro dovremo aspettare un po’ perché adesso ti dedicherai all’università?
«Un anno di università ci vuole, un anno pieno».

Infine, puoi commentare il titolo del libro?
«Il legno è un materiale che non conduce, quindi di legno sono quelle persone che non vogliono farsi attraversare dalla corrente degli eventi.
E poi è un materiale fermo, solo apparentemente però, perché poi basta appoggiarci l’orecchio per rendersi conto che là sotto c’è un mare di suoni. Quindi di legno sono le persone che hanno una storia passata e continuano a tenerla in profondità, ma in superficie non la danno a vedere».


(Articolo di Valentina Meola, pubblicato su Orizzonti n. 31, lugl.-ott. 2007)

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