| Dopo «Marianna Ucria» diretto da Roberto Faenza, è la volta di «Voci», adattamento dall’omonimo romanzo giallo della nostra scrittrice più tradotta nel mondo. I grandi temi sociali, la vita delle donne, i problemi dell’infanzia, sono sempre stati al centro delle opere più recenti di Dacia Maraini; ricordiamo «Buio» che ha vinto il premio Strega, e appunto il romanzo giallo «Voci», la storia di un oscuro delitto ispirato a vicende realmente accadute.
Si tratta di un giallo psicologico, con dentro una storia d’amore. Racconta quanto poco guardiamo chi abbiamo accanto.
La storia è quella di Michela (nel film interpretata da Valeria Bruni Tedeschi), giornalista alle prime armi, timida e introversa, che nasconde a se stessa la sua reale natura di donna volitiva e amante della vita.
L’altra protagonista è Angela (Gabriella Pession), prorompente e solare, che incarna tutto quello che Michela potrebbe essere, e che al contempo teme.
Ogni tanto le due ragazze, che abitano nello stesso palazzo, si incontrano, scambiano qualche parola, qualche passaggio in macchina. Potrebbe nascere un’amicizia… ma Angela viene brutalmente assassinata, in circostanze misteriose. Indagare sulle cause dell’omicidio è l’unico gesto che Michela può compiere verso la “mancata amica”. Così, sfidando i propri complessi e le proprie paure, Michela si avventura nel passato di Angela; le voci che cercano di distoglierla dalla ricerca della verità sono molte, ma lei riuscirà ad individuarne una che la porterà sulla giusta strada: è quella di Nando (Miki Manojlovic), un avventuriero dal passato oscuro, che è stato anche un grande amico della vittima. Grazie a lui Michela scoprirà che le sofferenze di Angela sono iniziate tra l’apparente quiete delle mura domestiche: un rapporto incestuoso, mai concluso e protetto dall’omertà di una famiglia alto-borghese.
E, attraverso questo percorso doloroso, Michela scoprirà anche qualcosa di se stessa, che le insegnerà ad accettarsi, a lasciarsi andare e ad amare la vita più di prima.
Ma la storia narrata nel film, distribuito nelle sale italiane nel maggio 2002, presenta delle varianti fondamentali rispetto al romanzo: Michela non è più una giornalista radiofonica, ma la praticante di un giornale. La città che fa da sfondo alla vicenda diventa la brumosa Genova, anziché la solare e misteriosa Roma descritta dalla scrittrice. Tra i cambiamenti fondamentali addirittura il finale, che offre allo spettatore una prospettiva del tutto inaspettata e che certamente sorprenderà non poco chi ha letto il libro: l’assassino è una persona diversa.
Sulle modifiche volute dal regista, Franco Giraldi, la scrittrice ci ha espresso così la sua opinione: «Dapprima mi sono trovata un po’ spiazzata, ma avevo già deciso di non intervenire sulla sceneggiatura. Personalmente preferisco scrivere narrativa piuttosto che sceneggiature. So bene che cinema e letteratura sono due linguaggi diversi, e non solo per quello che riguarda la tecnica di scrittura, anche per quello che riguarda le immagini, i meccanismi della storia: qualcosa che funziona sulla carta può non funzionare sullo schermo. Qualcosa del genere è successo anche ad Alberto Moravia, per esempio quando Godard trasse un suo film dal romanzo “Il disprezzo”. Anche lui trovò che il film si discostava parecchio dal romanzo originale, e dal messaggio che avrebbe voluto dare. Però disse: “Mi rendo conto che è un’altra cosa, tuttavia Godard ha fatto un bel film, e su questo non ho niente da dire”».
Sulla stessa questione si è pronunciato anche l’artefice di tali cambiamenti, Franco Giraldi, che ha sottolineato la differenza sostanziale di cinema e letteratura nel modo di comunicare: «In letteratura apparentemente è più semplice rendere un pensiero, attraverso una frase, una parola al punto giusto. Sul grande schermo a volte un’immagine o l’espressione del volto di un attore, saggiamente e sensibilmente diretto, possono essere più efficaci di tante parole e fare a meno di commenti parlati. La letteratura si giova della parola, il cinema dell’immagine. Questa è la distinzione fondamentale. In questo caso comunque le variazioni operate dagli sceneggiatori sul testo sono state oculate e mirate, per rendere “di genere” il film, senza intaccare la delicatezza di fondo del testo della Maraini – e aggiunge – Stesso discorso va fatto per il finale del film, che rappresenta una sorpresa per tutti. Ma anche questo è stato studiato nell’economia cinematografica, che si avvale di meccanismi diversi da quelli di un romanzo».
Chiarito ciò, il regista ci ha poi confidato le motivazioni che lo hanno spinto a trarre un film proprio da «Voci»: «Sono stato attratto dalla presenza di tanti personaggi femminili, complessi e diversi fra di loro, e soprattutto ricchi di umanità: per esempio la poliziotta Adele, la prostituta Sabrina, la madre alto-borghese, la sorella di Angela, appassionata e nevrotica. Attraverso questi personaggi ho voluto mettere alla luce i molteplici aspetti, spesso contrastanti, della presenza femminile nella nostra società. Inoltre come regista, ho provato il piacere di descrivere l’evoluzione del carattere della protagonista, costretta suo malgrado a confrontarsi con una persona che non c’è più, e a risolvere addirittura un oscuro enigma poliziesco. La materia di questo film è complessa e intrigante: ci sono i sentimenti, c’è la violenza, quella manifestata apertamente e quella ambigua, fatta di sotterfugi, di omertà, di plagi psicologici, che spesso coinvolge quelle donne che hanno deciso di vivere sole e indipendenti… Spero di aver reso tutto questo, e di suscitare nello spettatore le stesse emozioni che può aver provato leggendo il libro».
La differenza, tra la vicenda narrata nel libro e quella raccontata nel film, non dovrebbe pertanto suscitare perplessità nello spettatore che, anziché aspettarsi una fedeltà assoluta al testo, dovrebbe chiedersi se questa trasposizione cinematografica sia in grado di provocare nuove emozioni.
(Articolo di Alma Daddario, pubblicato su Orizzonti n. 19 ago-ott 2002)
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