| Durante il ciclo della vita – che accompagna l’individuo dall’infanzia alla vecchiaia – spesso si presentano avvenimenti che devono essere insigniti più di altri, per questo sanciti attraverso riti socialmente riconosciuti. «Cerimonie» che scandiscono momenti dell’esistenza: che sia il matrimonio o un funerale, esse fanno parte del nostro vissuto e aggiungono significato alle nostre vite. Seguono il passare del tempo e con esso si evolvono, prendendo nuove sembianze.
L’uomo del nuovo millennio ha bisogno, come i suoi antenati e forse anche più di loro, di ritagliarsi degli spazi per stare in compagnia, per “condividere con altri uno sguardo sul mondo” o semplicemente per ritrovare una propria identità.
E così, a fianco ai codici persi, alle liturgie svanite si presentano nuove ritualità e forme di aggregazione, a cui affidare il senso dell’esistenza: le stesse portate alla luce in questi dodici racconti – riuniti in una raccolta nominata appunto «Cerimonie».
Dagli appuntamenti rituali di Manuel, che ogni domenica mattina guida il suo enorme gippone, a quelli quotidiani di Mira, che assieme al suo fidanzato si reca ogni giorno a casa del signor Ludden per bere un caffè. A quelli del signor Saletti che vuol pregare ma non crede in dio, alla commovente vicenda di un bambino, inconsolabile per la morte della nonna, a cui nemmeno il padre può dare un aiuto, poiché ateo e incapace di trovare le giuste parole, situazione quest’ultima che simboleggia, pertanto, la mancanza di una cerimonia adatta…
Autore di queste storie è Michele Serra, conosciuto inoltre per aver diretto la rivista satirica «Cuore», tornato alla narrativa dopo il romanzo d’esordio «Il ragazzo mucca» e dopo la raccolta di racconti «Il nuovo che avanza».
Lo incontriamo nella nuova ed accogliente libreria Feltrinelli di Piazza dei Martiri a Napoli, dove si è recato per presentare il libro ai lettori. Accolto con grande entusiasmo da noi tutti, Michele Serra, con fare cordiale e ironico, si è aperto alle nostre domande dando vita ad un interessante dibattito.
Domanda – Quali sono le tematiche che ha voluto affrontare tramite questo libro?
M. SERRA – «All’inizio avevo scritto molte più cose, che prima della stampa ho tolto, attraverso un grandissimo lavoro di ristesura. Ad un certo punto, ho addirittura pensato di aver fatto un “brodo” troppo ristretto e mi sono lasciato prendere dal panico da scrittore facendomi assalire da tanti interrogativi. Ho scritto un libro troppo corto? 140 pagine basteranno, se costa 12 euro? Ma poi mi son detto che, per chi scrive, è necessario questo lavoro del “levare” e, anche se il libro è molto asciutto, alla fine sono contento perché credo di aver lasciato solo quello che più mi urgeva.
Nel libro si parla molto di morte, questo è dovuto al fatto che il tempo passa e si deve avere a che fare con questa seccante circostanza (a pensarci bene anche profondamente stupida). Ci sono vicende di funerali, si parla di vecchiaia, di malattia, ma non è un libro triste, è al contrario vitale. C’è dentro vita e desiderio; ma anche mancanza, vuoto, per lo sgretolarsi dei linguaggi, dei riti consolidati dello stare insieme. Non ci sono più cerimonie o, se ci sono, sono poche, o sono per pochi, per una minoranza. E allora sono partito da lì, da questo vuoto, per vedere cosa è rimasto».
Domanda – In che modo ne parla?
M. SERRA – «Lo sguardo del libro non può che essere disincantato, nella mia maniera di guardare le persone e a volte, addirittura, di guardare me stesso. Se ci si ferma al disincanto, ci si inaridisce, ci si autoimpedisce un passo in avanti. Il disincanto, alla fine, tradisce, lascia soli, tristi. Ma, allo stesso tempo, fa sentire intelligenti, in possesso di strumenti critici superiori a quelli altrui. E nel libro ho cercato di esprimere anche questo: l’affezione che riservo al mio sguardo critico e disincantato, che in fondo è quello che mi resta della mia seconda chiesa, il comunismo».
Domanda – Ci parla di questa sua esperienza politica?
M. SERRA – «Ho pensato a me stesso, al mio iter culturale, ai miei compagni - peraltro amatissimi -, a questa esperienza, che non solo non rinnego ma alla quale sono grato perché mi ha dato infinita ricchezza. La politica, con le sue riunioni in sezione, rappresentava un momento di socialità, una specie di cerimonia, in cui si condivideva con altri uno sguardo sul mondo. Ma lo sgretolamento di cui parlavo ha coinvolto anche il mondo della politica».
Domanda – In un racconto ha anche beffato il politico di corrente…
M. SERRA – « “Gualtiero” è l’unico racconto veramente comico del libro, cioè scritto con le tecniche della scrittura comicamente satirica, anche se in realtà è amatissimo. È una parodia del politico di corrente, di una liturgia molto residuale. È un personaggio immaginario - nel libro non ci sono personaggi reali, sono tutti proiezioni dei miei pensieri buoni e cattivi».
Domanda – A questo proposito, lei è stato direttore di «Cuore», un giornale satirico. Perché oggi non esiste più questo tipo di giornali?
M. SERRA – «Non lo so, ma sarei veramente contento oggi di diventare catalizzatore, e non creatore, di satira. Non so cosa darei per vedere un giornale di satira fatto da 25/30enni! Vorrei capire come vedono il mondo, come vedono la sinistra, Berlusconi, se le cose che danno fastidio a loro sono le stesse che lo danno a me. Io mi sento un pensionato della satira, non a caso scrivo dei libri sui funerali…».
Domanda – A cosa attribuisce la mancanza di satira?
M. SERRA – «Non è vero che non c’è, in realtà ce n’è molta ma è dispersa: un po’ in televisione, un po’ sui giornali, un po’ anche a teatro. Insomma è un genere vivo, ma non è aggregata, non è in grado di produrre un giornale satirico vero. Mi sono anche chiesto perché avviene questo e sono giunto alla conclusione che il motivo fondamentale è generazionale. La mia generazione ha intrapreso veramente un percorso di gruppo, collettivo, e ha fatto tre giornali: “Male”, “Tango e “Cuore”. Io a “Male” non ho partecipato, ma a “Tango” e “Cuore” sì. E c’era uno spirito collettivo nel muoversi, si stava bene insieme. C’era un’unione di individui, con sensibilità molto diverse l’una dall’altra, che si completavano. Mi sembra che adesso non ci sia il ricambio. Evidentemente mancano le condizioni sociali, culturali, politiche che consentono a quelli che vengono dopo di noi di dire “avete rotto, andate in pensione, tocca a noi!”. Forse manca anche un linguaggio comune…».
Domanda – Ritiene che la sua generazione abbia delle responsabilità sul fatto che i giovani, oggi, non abbiano un ruolo attivo?
M. SERRA – «Credo di sì. Io ho avuto dei genitori di destra, molto strutturati ed ostili e ciò sicuramente mi ha aiutato a crescere e a formarmi, anche se dolorosamente. Al giorno d’oggi invece l’educazione è troppo indeterminata, troppo vaga ed amichevole e finisce con lo svilire i giovani. Uno degli aspetti che più mi impressiona dei ragazzini è che non concepiscono la fatica: questa è un concetto sparito dalla nostra società: se uno è stanco prende il viagra, se deve fare il Giro d’Italia si droga. C’è una specie di negazione totale del concetto di fatica che, invece, secondo me, è realistico e formativo. I vecchi ci dicevano: “Ricordati che tutto quello che si ottiene di utile e bello è faticoso”. È assolutamente così.
Ritornando alla satira, c’è un’altra illusione: che tutto si apprenda per via della tecnica. Pazzesco! Quando dirigevo “Cuore”, mi venivano a trovare disegnatori tecnicamente bravissimi - avevano una tecnica straordinaria, prodigiosa - che, però, non riuscivano a trasmettere tramite i loro disegni quello che pensavano: cosa li facesse incazzare, ridere o piangere. Questi disegni bellissimi non li riuscivo a giudicare. Preferivo Vincino che faceva arrivare i disegni sporchi di cenere di sigaretta, fax bruciacchiati… Vincino era un pessimo disegnatore, ma un artista grandissimo: i suoi “sgorbi” palpitano di vita. Tutti gli artisti della vecchia generazione (Vauro ha cominciato disegnando i trasferelli) non sapevano nulla di tecnica, però mettevano vita dentro ai loro disegni. Avevano la presunzione dell’artista che prima deve vivere e poi trasportare sul foglio.
Questi sono i due aspetti che più mi lasciano perplesso: l’esaltazione della professionalità, con la convinzione che tutto si impara a scuola tecnicamente (grande balla!), e l’incapacità di faticare, di soffrire. La grande rimozione della nostra società è il dolore. È un pensiero molto cattolico, ma che condivido: se non si passa attraverso la sofferenza e la fatica non si ottiene assolutamente nulla…».
Domanda – Oltre alla perdita della fede politica, lei parla anche di quella religiosa, proprio all’inizio del libro, con la prima frase: «Saletti voleva pregare ma non credeva in dio». Si tratta di un’esperienza molto dolorosa, ma da che cosa sarà colmato il vuoto che lascia?
M. SERRA – «La perdita di fede è dolorosa perché è una perdita di senso, di un sistema linguistico e rituale nel quale sei cresciuto. Come me la sono cavata io? Come cerco di cavarmela? Considero la vita molto interessante e gratificante per quanto riguarda il mio essere operativo nel quotidiano. È piena di problemi: figli, amore; vorrei avere un vuoto di preoccupazioni, il tempo è sempre poco.
Non perdono alla religione cattolica il farmi sentire il senso di colpa, l’inadempienza su tante cose. Riguardo all’etica, poi, non ho mai capito la frase “non c’è etica senza Dio”. C’è quest’idea, per me seccante, che avere un premio o un danno aiuta ad avere un’etica; troppo comodo. Io considero più stimolante il pensiero di non essere divinamente né premiato, né punito dopo, perché un dopo non c’è. Mi sembra molto umiliante, francamente, avere un’etica solo perché esiste un Signore dall’alto che ci osserva. Come se noi ci stropicciassimo le mani e cominciassimo a comportarci malamente quando non siamo osservati. Personalmente ritengo che la vita, in quanto breve, sia un’occasione unica, uno stimolo di solidarietà nei confronti dei miei simili. Ho solidarietà nei confronti di una persona più così che sapendo invece che va in paradiso. Il fatto che potrebbe esserci un dopo gratificante ci spinge a maltrattarci. Posso aggiungere qualcosa a carico delle religioni fatte dagli uomini. Mi pare che negli ultimi anni sia emerso che le forti identità non hanno aiutato la comprensione, la conciliazione fra i popoli: si pensi alla ex Jugoslavia, all’India e al Pakistan. L’orgogliosa coscienza di avere la verità rivelata non aiuta la comprensione tra i popoli».
(Articolo di Pina Lanzini, pubblicato su Orizzonti n. 19, ago-ott 2002)
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