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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Incontro con ALBERTO BEVILACQUA. «Oggi la società letteraria non esiste più, in Italia, esiste invece una grandissima solitudine. Oramai io mi sento solo, la mia generazione si è dissolta».

di Rivista Orizzonti

Allo scadere del terzo anno della rubrica “Artisti Vari – Viaggio nella Nuova Letteratura Italiana” vi presentiamo un poeta, che si è manifestato in molteplici attività artistiche, e autore fondamentale di diverse stagioni della letteratura italiana, che nel suo ultimo libro «Gli anni struggenti» ripropone con forza, alla luce delle variegate esperienze esistenziali che lo sorreggono, la ricerca di un senso profondo dell’atto quotidiano del vivere: va da sé che questa ricerca conduca la scrittura verso un vero e proprio romanzo di formazione.
In questa intervista, Alberto Bevilacqua, uno dei massimi esponenti della nostra cultura, ci esplicita ed esemplifica la sua esistenza ed attività di poeta.

DOMANDA – Lei è stato il primo scrittore italiano a dar vita alle grandi epopee provinciali, con suoi eroi grandi e a volte un po’ meschini, ed il primo ad inaugurare una vera e propria galleria di grandi personaggi femminili. Dagli esordi ad oggi come è cambiato il suo mondo immaginario da raccontare attraverso i libri e il linguaggio con cui dargli vita?

BEVILACQUA – «Indubbiamente io sono stato il primo narratore che ha affrontato, analizzato, ed espresso i personaggi anche grandi dell’Emilia, della pianura Padana, in un contesto che ha visto altre terre disegnate e legate a nomi che hanno fatto una mappa della storia del Novecento; a tale proposito cito il Piemonte di Fenoglio, la Sicilia di Sciascia. Naturalmente, per capirmi, bisogna conoscere non solo la mia attività di narratore ma anche quella che ritengo principale e prevalente di poeta; senza questa conoscenza è difficile parlare del mio stile».

DOMANDA – La sua attività poetica è meno conosciuta, anche se stranamente, a volte, più apprezzata dalla critica. Lei ha spesso imputato questo al fatto che i critici sono sensibili alle vendite. Come definirebbe la sua poetica?

BEVILACQUA – «Ma io non penso che sia così; perché prima di tutto, sia come narratore che come poeta, io sono la stessa persona. Arbasino ha detto che prima uno scrittore viene abbracciato entusiasticamente come esordiente, come il sottoscritto, poi è biasimato quando ha successo, infine diventa un profeta. Ecco, io sono nella fase del profeta (sorride divertito, ndr).
Per quanto riguarda la poesia è stata accolta in modo straordinario, non solo in Italia, ma anche dalla critica mondiale: da Borges ad Asturias, dai critici francesi più importanti fino a Jonescu. Tra gli italiani cito, tra tanti, Contini, che mi diede il primo premio di poesia, Pampaloni, Caproni, Pasolini, che mi scoprì, Attilio Bertolucci. Alcuni di questi, come Caproni e Pasolini, hanno scritto dei saggi su alcuni miei libri usciti per la collana “Azzurra” di Garzanti e sui tre volumi usciti per lo “Specchio” della Mondadori. In questo periodo sto raccogliendo le mie poesie, per un libro che sarà editato da Einaudi».

DOMANDA – Lei è stato un precursore anche della interdisciplinarietà delle arti, della contaminazione delle varie espressioni artistiche, diventando prima lo sceneggiatore dei più grandi registi italiani, e poi il regista di alcuni suoi libri.

BEVILACQUA – «Io sono stato lo sceneggiatore di film importantissimi, diretti da registi fondamentali come Rossellini, De Sica, Visconti. Sono stato recentemente avvicinato, durante una conferenza, dagli americani che mi hanno detto: “lei è cult” – che è una parola che mi dà un fastidio enorme – perché ho scritto i film di Mario Bava, che è cult in Francia e in America, per essere stato il primo a fare i film del terrore.
Successivamente da sceneggiatore sono passato a fare il regista quando la Germania si mise a finanziare film di narratori dicendo “rivivete le pagine dei vostri libri”. Siamo stati amanuensi e poi miniaturisti dei nostri libri, quindi ho avuto la possibilità di fare esperimenti sulla creatività di vario tipo. Mi ricordo che, mentre mi trovavo in America per preparare la sceneggiatura ad un film di Alberto Sordi sulla mafia, Joe Colombo mi invitò a cena e mi propose in pratica di scrivere “Il Padrino”, ma io gli risposi che ero un italiano, un emiliano lontano da questa realtà. Colombo mi disse allora che ci sono quattro mafie: la mafia, la chiesa, le donne e quarto (sorride, ndr)… lasciamo perdere… Il senso di quella frase è che se uno parla di questi temi ha una grande eco. Certamente parlare della femminilità ha più risonanza che non parlare della maschilità. Nei miei libri ci sono uomini e donne, c’è una umanità, però poi è chiaro che i personaggi femminili spiccano o perché gli uomini suono più curiosi o perché le donne si sentono interpretate».

DOMANDA – Lei ha vinto tutti i più grandi premi letterari italiani, ricordiamo il Premio Campiello con «Questa specie d’amore» (1966), il Premio Strega con «L’occhio del Gatto» (1968), due volte il Bancarella con «Un viaggio misterioso» (1972), e «I sensi incantati» (1991), quando i premi letterari avevano un’altra valenza ed un altro peso rispetto a quelli attuali. Quanto è importante per uno scrittore ricevere riconoscimenti e premi?

BEVILACQUA – «I premi li ho sempre considerati dei riti giocosi, non a caso sono il più giovane vincitore del Campiello, dello Strega, del Bancarella. Quando si è giovani questi riti dei premi sono persino piacevoli, però bisogna anche dire che all’epoca erano ben diversi perché ci si scontrava con nomi come Pasolini, Zavattini, etc. Non erano gare tra nomi di poco conto. L’altra differenza è che non esisteva questo affanno disperato degli editori per vincerli, talaltro ingiustificato perché non si sa neanche quanto possano incidere sulle vendite. Erano differenti anche perché i premi letterari rappresentavano il riflesso di una società letteraria unita. Oggi questa società letteraria non esiste più, in Italia, esiste invece una grandissima solitudine. Io poi mi sento orfano perché la mia generazione mi ha visto giovanissimo, a vent’anni, sottobraccio con nomi più vecchi di me di quindici, vent’anni. Oramai io mi sento solo, la mia generazione si è dissolta».

DOMANDA – Allora l’attività letteraria può rappresentare un conforto e contemporaneamente una memoria storica di quello che è stato un lungo ed importante periodo della letteratura italiana del Novecento.

BEVILACQUA – «Certamente. Io avevo solo diciotto anni quando Contini premiava la mia poesia. Ho vissuto intensamente tutte le fasi del dopoguerra letterario, sicuramente ne scriverò, anche in questo libro che uscirà per Einaudi ne scrivo, come testimone prezioso anche di altri scrittori di altre terre».

DOMANDA – Dopo tanti anni, era il 1955 quando lei scrisse «La polvere sull’erba», può dirci come mai Sciascia nonostante fosse rimasto impressionato dal suo libro decise di non pubblicarlo?

BEVILACQUA – «Se pensiamo ai guai che ha avuto Fenoglio sulla figura e sulla storia de “Il partigiano Jhonny” era chiaro che mi dicesse di stare cauto in una situazione politica italiana che era, a quell’epoca, esplosiva».

DOMANDA – Le sue poesie sono state pubblicate inizialmente su riviste letterarie; che ruolo hanno oggi le riviste che si occupano di letteratura, nella scoperta o nella valorizzazione di nuovi poeti, scrittori, o artisti in genere?

BEVILACQUA – «Ho iniziato pubblicando su riviste come “Paragone” o “Botteghe oscure” che avevano un grandissimo peso. Pubblicare su quelle riviste significava presentarsi, oggi non so se le riviste hanno la stessa efficacia».

DOMANDA – Tra le tante attività: regista, scrittore, poeta, giornalista, critico del costume, quale preferisce?

BEVILACQUA – «Io credo che ci sia una matrice sola e cioè la poesia. Io sono un poeta che si è manifestato in vario modo. La poesia ha uno spirito scenico notevole ed essere figli di questa madre, la poesia, non significa quindi scrivere solo poesie ma avere una sensibilità più ampia, più aperta, una sintonia pronta a varie esperienze.
Poi invece, per altri narratori, per altri scrittori, alla base della loro attività può esservi la ragione, come in Italo Calvino. In questo caso la narrativa è figlia allora della ragione, e quindi è, pur con risultanti eccellentissimi, condizionata».

DOMANDA – Quindi da un punto di vista stilistico è possibile che un grande poeta possa diventare un grandissimo narratore, mentre, forse, è difficile il contrario.

BEVILACQUA – «Io penso di sì. La poesia di certi grandissimi narratori è misera, inesistente. Questo è vero».

DOMANDA – Nonostante lei affermi di essere un anarchico delle nuove tecnologie, è convinto che ci sia un legame tra le possibilità che queste offrono e la telepatia. In che modo pensa che questo avvenga?

BEVILACQUA – «Il mio interessamento verso questi temi si lega alle mie esperienze orientali e ai miei anni passati in Tibet. Io credo nella forza del pensiero, perché ritengo che sia un dono che la natura diede all’uomo alle origini, un dono difensivo che è stato coltivato e preservato dalla storia. A me importa perché c’è un nesso profondo tra questo tipo di comunicazione e le nuove tecnologie, i nuovi modi di comunicare telematici. La telematica è un mondo che deve essere inquadrato, capito – gli editori ci si sono buttati senza conoscere come stanno veramente le cose – perché ripete sul piano della tecnologia quel dono primario, ed è qui che nasce il mio interesse».

DOMANDA – Restando sul tema delle capacità umane, una delle esperienze formative più importanti per lei fu la conoscenza dei riti magici che sua nonna praticava. Quali influenze ebbero su di lei?

BEVILACQUA – «Io mi sono sempre dedicato, oltre agli studi più prettamente letterari, a quelli di astrofisica. È indubbio che gia dal ‘500 esistessero, in Italia, delle comunità che praticavano le esperienze alternative sul piano psicologico: cito, per esempio, il Parmigianino che fondò i circoli alchemici, cito Dante che, anche se non si dice mai, praticò intensamente, così come lo stesso Petrarca. Anche dalle mie parti, dove ci sono le case in cui Dante e Petrarca andavano, si praticavano i riti della Leggera. Non solo, ma se si osservano certi dipinti, pochissimo noti, di un pittore oggi altrettanto pochissimo noto, nonostante la sua attività sia celeberrima, come il Parmigianino, si possono scorgere delle simbologie che io ho ritrovato in Tibet. Quindi il fiume, il Po, ha portato tante esperienze orientali».

DOMANDA – Quanto queste esperienze hanno indirizzato o influenzato la sua attività letteraria?

BEVILACQUA – «Una influenza c’è stata. Uno scrittore che indaga per i suoi studi non solo la terra ma anche il cielo è portato ad esaminare tutto».

DOMANDA – Lei ha affermato che un giorno portò Màrquez, quando studiava al Centro di cinematografia di Roma, lungo le rive del Po dove c’erano questi stregoni. Quanto questa esperienza lo ha, secondo lei, influenzato nella stesura di «Cent’anni di solitudine»?

BEVILACQUA – «Quando portai Garcia Màrquez sul Po, incontrammo gli ultimi stregoni della comunità che andavano per il mondo con i loro carrozzoni. Certamente il riferimento del viaggio e i carrozzoni di “Cent’anni di solitudine” sono nati da lì».

DOMANDA – Dopo aver scoperto di avere quello che viene chiamato sesto senso, lei lo ha sviluppato fino a potenziare il suo sensitivismo. Spingere il cervello oltre i limiti lo considera un privilegio o una condanna?

BEVILACQUA – «Per chi lo può fare è un privilegio.
In una intervista con Einstein, che io ebbi il privilegio di fare, parlammo di questo, e lui disse che è certamente un privilegio perché c’è una parte del cervello leggermente più chiara: sto parlando ovviamente di Einstein e non di me, per me le valutazioni non posso farle io.
Ma oltre ad essere un privilegio è anche una condanna perché siamo ancora in una società mondiale che antropomorfizza la divinità: la resurrezione della carne e dei corpi, Dio con la barba. Noi sappiamo bene che appena superiamo di dieci centimetri la dimensione dei luoghi comuni vediamo che le leggi della vita sono completamente mutate».

DOMANDA – Quanto di tutte queste esperienze sono presenti nel libro «Gli anni struggenti»?

BEVILACQUA – « “Gli anni struggenti” è nato da una mia forte esperienza del mondo giovanile. Tornato dall’oriente, mi battei moltissimo per far introdurre dei sistemi di comunicazione psicologica diversi da quelli della psicologia e della psicanalisi occidentale. Già mentre scrivevo “I sensi incantati”, avevo notato che la gente si era interessata a questi temi. Si era aperta una nuova fase, anche clinica, si era incominciato a parlare di depressione, quando prima non si sapeva neanche cosa fosse. Molti giovani venivano da me, io, insieme ad altri, li ho aiutati e ho svolto una intensissima attività nelle piccole comunità (nel Lazio ce ne sono molte come quella di don Gelmini), dove erano note le droghe abituali, tradizionali, ma non quelle inusuali che oggi la nuova struttura mafiosa del mondo – non è più il mondo della piovra, è il mondo della mafia moscovita – distribuisce in giro come gli acidi induttori che servono nella ritualistica. Anche lì credo di aver fatto molto e quindi sono diventato amico di tanti ragazzi in un periodo per me triste per la morte di mio padre; con lui feci il mio ultimo viaggio in Tibet che poi è diventato un documentario. Quindi in quel periodo triste della mia vita sono entrato in contatto con dei giovani che mi hanno accolto tra di loro come amico, spinti dall’affetto e dalla gratitudine. Sono entrato in questo mondo e l’ho descritto così com’è: da una parte il mondo dei giovani sciocchi ed imbecilli che ci sono in tutti i settori, nella femminilità così come nella maschilità, dall’altra un mondo estremamente interessante che non era ancora stato descritto, e che non poteva esserlo, in senso nominale, dai giovani scrittori, troppo influenzati dal cannibalismo di facile uso.
La rivolta giovanile non è soltanto quella che digrigna i denti e poi dopo si trova i denti rotti da una società orrenda, ma è anche quella che spiritualmente si va formando».

DOMANDA – Partendo da questo punto di vista «Gli anni struggenti» può essere considerato un romanzo di formazione.

BEVILACQUA – «Certamente. La sua definizione mi piace molto…»

DOMANDA – Nel prossimo numero della rivista Orizzonti parleremo del suo libro di poesie che uscirà a maggio per Einaudi?

BEVILACQUA – «Il libro conterrà certamente la poesia, assieme a questi scritti sulla mia esistenza mai pubblicati che sono fratelli delle poesie, che in questo libro convivono. Questi scritti rispecchiano la mia vita, che è stata presente molto sia nel mondo, sia nelle guerre, sia in mezzo agli altri popoli. Il libro ne è un documento».


(Articolo di Giuseppe Aletti, pubblicato su Orizzonti n.15, giu-set 2001)

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