| «Passo un periodo in cui non faccio nulla, in cui vedo passare miseramente la vita, in cui mi accorgo del mio terribile egoismo, m’accorgo che sono intelligente come tutti gli altri uomini, che davanti a me si apre l’aurea porta della mediocrità, per sempre. Senza una briciola di volontà, con un orgoglio infame, non riuscirò a nulla». (Da una lettera che Buzzati, a vent’anni, scrisse all’amico Arturo Brambilla)
Certamente non fu profetico di quello che sarebbe stato, questo che potremmo definire lo sfogo esistenziale di un giovanissimo animo tormentato. E certamente, all’artista Dino Buzzati, non si può applicare lo stereotipo di “genio e sregolatezza”: la sua fantasia e la sua creatività sono state fervide e prolifiche, quanto la sua vita sociale è stata, almeno in apparenza, tranquilla e lineare.
Buzzati nasce a Belluno il 16 ottobre 1916, da una famiglia alto borghese, fiera delle proprie tradizioni religiose e culturali. Piccolo genio di casa, a otto anni suonava già il violino. Comincia a scrivere e a disegnare praticamente subito; si laurea regolarmente in legge, e nel 1928 entra al «Corriere della Sera» come praticante, e lì sarebbe rimasto tutta la vita, ricoprendo vari incarichi nella cronaca, come inviato di guerra e come critico d’arte. Nel 1933 pubblica il primo romanzo, «Barnabo delle montagne». E con quest’opera prima, dalla sintassi lineare ed entusiasta, dimostra subito uno stile deciso e originale, un taglio di narrativa pulito, immediato, rigoroso e moderno. Quando un critico gli chiederà chi avrebbe considerato come punto di riferimento, o maestro di genere, risponderà: «Penso che in ogni scrittore i primi ricordi d’infanzia siano una fase fondamentale. Le impressioni più forti che ho avuto da bambino mi hanno formato: appartengono alla terra dove sono nato, tra le selvatiche montagne che la circondano…».
Non amava, già dagli inizi, essere “codificato” in alcun genere. A «Barnabo» seguono «Il segreto del bosco vecchio», «Il deserto dei Tartari», «I sette messaggeri», «La famosa invasione degli orsi in Sicilia». Nel 1950 diventa vicedirettore della «Domenica del Corriere», incarico che manterrà fino al 1963. Seguono altri libri di racconti: «Il Colombre», «Le notti difficili», «Paura alla Scala». E nei racconti, così come nelle cronache giornalistiche, tra i fatti e la fantasia, la linea di demarcazione si assottiglia, come se il giornalista passasse la mano al narratore e viceversa. Fondamentale nel suo universo narrativo, il motivo dell’attesa: un’attesa carica di inquietudine per un evento terribile e sconosciuto, il miraggio di una grande occasione. Il tutto dominato dall’imprevedibilità del caso. Non perde mai di vista la pittura: nel 1958 viene presentata a Milano la prima mostra dei suoi dipinti. «Il fatto è questo – affermava da sempre – sono vittima di un crudele equivoco: sono un pittore il quale per hobby ha fatto lo scrittore e il giornalista. Il mondo invece crede che sia viceversa, e non può prendere sul serio le mie pitture. So bene che il mio gigantesco talento di pittore sarà un giorno riconosciuto, e che avrò un posto al Louvre, alla National Gallery, a Valle Giulia. Ma, per ottenere questo, bisogna che io prima defunga». Ironia, gioco, sberleffo, ma anche verità nelle sue parole: «Dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie».
Illustra quasi sempre i suoi racconti, tra le sue storie dipinte l’esperimento più riuscito è forse «Poema a fumetti» del 1969, antesignano di tanta fumettistica noir dei giorni nostri. Pittura-narrativa: l’idea di quest’opera singolare la covava da tempo. In «Poema a fumetti» si scaricano ansie e psicosi dell’autore, si stemperano in una grafica colorata, sciorinano anni di inibizioni affettive, conflitti emotivi, domande senza risposta, attraverso l’antico mito di Orfeo, che qui diventa un giovane cantautore, alla ricerca della fidanzata Eura, misteriosamente scomparsa n un immaginoso inferno contemporaneo.
Nel 1961 scrive un’opera che sarà musicata da Riccardo Malipiero,«Battono alla porta»; nel 1963 esce per Mondadori «Un amore», una delle sue opere più famose. E continua ad esporre: nel 1966 e nel 1967 a Milano, l’anno seguente alla “Pléiade” di Parigi. Nello stesso anno assume l’incarico di critico d’arte al «Corriere della Sera». Nel 1970 espone l’originale collezione dei «Miracoli di Val Morel», ex voto dal tono surreale, a Venezia, a Trento e a Roma.
Ci lascia il 27 gennaio del 1972, colpito da un tumore. Per tutti quelli che lo conoscono, almeno come scrittore, Dino Buzzati incarnerà sempre un singolare esempio di narrativa del fantastico e dell’irrazionale, del grandioso e tenebroso enigma dell’inconscio. La sua letteratura, caratterizzata dal sogno e dall’altrove, avrebbe trovato la svolta decisiva nei romanzi «I segreti del bosco vecchio» e «Il deserto dei Tartari», a cui aveva dedicato anni di scrittura “notturna”, durante la routine del lavoro giornalistico all’interno del «Corriere della Sera». In questi si evidenziano con chiarezza quelle strutture portanti che caratterizzano la vita e l’opera dell’autore: l’attesa, l’angoscia, il tempo, la solitudine, il destino.
Quello delle derivazioni letterarie di Buzzati, è sempre stato un tema controverso per i nostri critici. Alcuni hanno parlato di influenza kafkiana, altri di favola neogotica di ispirazione mitteleuropea. Ma l’arte di Buzzati non è una derivazione “straniera” o una creazione dal nulla: è il prolungamento, più o meno cosciente, dei miti che hanno sempre nutrito l’immaginazione di tutti, soprattutto in Italia, attraverso le tradizioni, le leggende dell’antichità, dove la nostra cultura popolare affonda le proprie radici. Qualunque definizione risulta limitativa, ed è proprio per questo che ancora oggi la letteratura di Buzzati è attuale, perché travalica i generi, troppo spesso legati ai tempi. La fantasia di questo scrittore non si basa sull’assurdo puro, ma esprime la ricerca di un significato che va oltre le apparenze. E questo, nella sua narrativa, si evidenzia nella metafora, nel simbolo, che non è più la proiezione dell’individuo, ma diventa realtà, a volte non immediatamente visibile, ma da decodificare. Così, anche le storie più paradossali, come quella dell’uomo che entra in ospedale per curare una lieve malattia e si ritrova preso in un diabolico meccanismo che lo trascina verso la morte, possono diventare la metafora di certe distorsioni sociali, che minacciano la vita di chiunque.
La forma più felice della sua narrativa, e comunque quella che lui preferiva, è quella del racconto: «Perché è breve – diceva – e non fa in tempo a stancare il lettore». E nei suoi racconti cattura, straordinario cesellatore di emozioni, l’attenzione di ogni categoria di lettori, attraverso la suspense e il grottesco, per condurli alla scoperta di una dimensione magica, nascosta nella banalità quotidiana. Perché ogni situazione ha un lato nascosto, e attraverso l’immaginazione e l’intuizione di questo “invisibile”, Dino Buzzati ci indica ancora oggi i sentieri della libertà spirituale, attraverso i quali si può ancora recuperare l’ampiezza del nostro essere, e misurare le potenzialità del nostro pensiero, svincolato da limiti e categorie.
(Articolo di Alma Daddario Lorin, pubblicato su Orizzonti n. 18, apr-lugl. 2002)
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