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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Cosa legge Stefano Bollani? Il musicista parla dell’album «Carioca» e della passione per la lettura. «Amo i romanzieri. I sudamericani, Vargas Llosa e soprattutto Cortązar. Gli americani, Lethem e Carver. Ma anche Buzzati, Moravia».

di Rivista Orizzonti

Le sonorità di «Carioca», ultima fatica del pianista italiano Stefano Bollani, accompagnano con frenesia la preparazione a questo incontro. Sapori brasiliani riempiono l’abitacolo dell’auto mentre a fatica s’inerpica su ripide curve in salita. Farà forse parte del gioco che i posti per la musica, in Italia, siano spesso difficoltosi da raggiungere. La località di Sordevolo (Biella), che in estate ospita il Libra Festival, è uno di questi luoghi un pochino appartati, dove è poi fatale che i segni di un popolo in cerca di musica si facciano riconoscere presto, quand’è ora di parcheggiare nel piccolo centro affollato di tante, troppe automobili – che d’altra parte non avrebbero trovato maniera per arrivarci.
Al termine di una magnifica serata in duetto con Enrico Rava, indiscusso poeta del jazz, Bollani si lascia avvicinare dai moltissimi fan rimasti nell’anfiteatro in cui si è tenuto il concerto e non smette di stringere mani. “Sei il più grande batterista vivente al mondo” gli dice qualcuno di spiritoso. Lui sorride alla battuta e la interpreta per quello che è: un complimento – e neppure troppo fantasioso, a ben guardare. Le dita delle sue mani sembrano davvero dieci strumenti percussivi, almeno su certe partiture. La novità invece – e la sfida – di questo ultimo lavoro sta proprio nella capacità del musicista di cogliere l’essenza, la tradizione di una musica assai distante dalle sue precedenti esperienze, per tradurla poi in una chiave tanto personale quanto rispettosa del genere.

DOMANDA – Con «Carioca» hai riletto la musica brasiliana. Cosa ti ha spinto proprio verso questo tipo di ricerca?

BOLLANI – Ho scoperto la musica brasiliana in età adolescente, subito dopo il jazz e arrivandoci non a caso attraverso la bossa nova, che si avvicina armonicamente al jazz ed è molto diffusa in Europa. Il progetto che ci ha poi portati a incidere «Carioca» nasce all’incirca un paio d’anni fa, su spinta del mio amico giornalista Alberto Riva, riempiendomi di dischi e convincendomi che la vera musica brasiliana nasce dai padri della bossa nova. In occasione di un mio concerto a Rio de Janeiro ci siamo ritrovati là, dove Alberto viveva già da un po’ di anni, e siamo partiti col progetto, la cui realizzazione è stata molto ambiziosa, oserei dire pretenziosa: Alberto mi ha suggerito di mettere insieme un gruppo di grandi musicisti locali, specializzati in quel repertorio. Il ruolo del pianoforte sarebbe stato quello della voce solista, esperimento mai tentato nella storia della musica brasiliana.

DOMANDA –Dunque il concetto di “rilettura”, nel tuo caso, si disgiunge parecchio dal concetto già abusato, forse, di “contaminazione”…

BOLLANI – Non provo una grande simpatia verso il termine “contaminazione”, mi sembra un controsenso: uno sarebbe “puro” e poi incontra un qualcos’altro che lo “contamina”. È il brano stesso, nel momento in cui lo sto suonando, a chiamarmi in causa secondo due modalità: o lo stravolgo completamente, ovvero lo smonto e lo rimonto al punto tale che soltanto io saprei dirti quale brano fosse all’origine, oppure lo eseguo da partitura. Questo per spiegare che non mi faccio certamente problemi ad andare nell’una o nell’altra direzione. Nel caso di «Carioca», vuoi per via dell’amore che provo per la musica brasiliana, vuoi perché mia intenzione non era farlo suonare come il disco di un musicista europeo che stravolge tradizioni musicali non sue, credo sia uscita un’ottima via di mezzo.

DOMANDA – A proposito di letture, o riletture… Stufano Bollani, oltre alla musica, cosa legge?

BOLLANI – Sia io che Enrico Rava, con cui viaggio spesso e mi esibisco dal vivo, leggiamo parecchio – e ti dirò: discutiamo molto più dei libri che non di musica. Puntualmente lui regala a me libri che fatico a leggere e io regalo a lui libri che fatica a leggere, questo perché entrambi proveniamo da percorsi di lettura diversi. A me piacciono i romanzieri che vanno da Calvino a Queneau, passando per i sudamericani Vargas Llosa e soprattutto Cortàzar, che condivido con Rava. Mi piacciono autori americani come Jonathan Lethem, per esempio, che Enrico digerisce ben poco. Amo un tipo di letteratura “giocoso”, personalmente; la narrativa classica invece ci accomuna molto di più. Di recente lui ha regalato a me «Alla ricerca del tempo perduto» di Proust, unico suo consiglio letterario che, lo confesso, non sono proprio riuscito a seguire. È stata invece una bella scoperta, e la devo sempre a Enrico, Raymond Carver. Un narratore che si “finge” tradizionalista e con sorpresa scopri capace di un’osservazione elevata, che illumina situazioni da sit-com americana da lui stesso create. Ho citato subito Calvino e Queneau perché per me sono due capisaldi, ma ho letto e amo tantissimo anche Dino Buzzati, autore lontano anni luce da ciò di cui stiamo parlando, così come ho letto Moravia, Pratolini. Per non parlare di Campanile, Guareschi e Palazzeschi, scrittori che mi verrebbe invece da citare immediatamente perché scardinano la struttura narrativa con l’ironia. Comportamento, questo, che mi piace adottare nella musica.

DOMANDA – C’è mai stata un’opera letteraria che hai pensato d’interpretare in musica?

BOLLANI – In un mio disco, «Les Fleurs Bleues», ho vistosamente omaggiato Queneau, ispirandomi all’epoca e alle atmosfere del suo romanzo omonimo, ma non si trattava di un’interpretazione pagina per pagina. Se musicassi un libro in questa maniera, mi rivolgerei ad autori in grado di inventarsi una struttura molto precisa all’interno della quale far muovere i personaggi in maniera bizzarra, come se a un certo punto si facessero degli assoli, improvvisassero, non sapessero dove sbattere la testa. Andrei certamente verso libri che mi danno quest’idea di leggerezza molto giocosa e in realtà nascondono un progetto, un pensiero. «Il barone rampante» ha un finale, secondo me, di una musicalità incredibile, e rara, per quanto riguarda la scrittura di Calvino, così densa di raziocinio, di metodica. Ma musicare una pagina simile significherebbe aggiungere troppi ingredienti a un piatto già ricco di suo e, dunque, non lo farei. Sarebbe una “contaminazione”. Sarebbe rendere quella pagina “impura”.

DOMANDA – Visto che ripeti volentieri il termine “giocoso”, concludiamo quest’incontro per «Orizzonti» con un piccolo gioco. A tanti scrittori, se fossero musicisti, piacerebbe suonare il piano o la tastiera. Così dicono, almeno. Tu che invece sei davvero un pianista, hai mai fatto il ragionamento al rovescio?

BOLLANI – L’uomo che suona il pianoforte e l’uomo che scrive credo abbiano in comune due aspetti: in un colpo solo, e con due mani, padroneggiano un mondo infinito, dove convivono molte cose. Mentre un cantante o un chitarrista compiono una sola azione, il pianista con cinque dita per ogni mano e due piedi dà vita a partiture polifoniche, muove almeno dieci note per volta, contemporaneamente, che interagiscono su più livelli di suono. Il narratore, di contro, si destreggia con almeno venticinque personaggi, se è Dostoevskij. Se è Verga addirittura con cento. Un buon narratore non scrive un libro che dalla prima all’ultima pagina racconta in prima persona e si limita a vivere quell’unica vita, ma padroneggia amabilmente più esistenze. Allo stesso modo gli ottantotto tasti di un pianoforte hanno a disposizione tanti registri, strutture, tempi. Suppongo debba essere quello ad attirare lo scrittore verso il piano e, nel mio caso, il pianista alla scrittura. Nel romanzo che ho pubblicato con Baldini Castoldi Dalai, «La sindrome di Brontolo», la musica non è affatto l’argomento principale. Eppure i protagonisti sono cinque come le dita di una mano, ma me ne sono accorto poi, e le pagine ottantotto come i tasti, ma me ne sono accorto poi. Quello che ho tenuto sempre ben presente è che i cinque, nel corso della storia, si incrociassero di continuo, pur restando autonomi. Come una polifonia.

(Articolo di Gianluca Mercadante, pubblicato su Orizzonti n.35, lug-ott 2009)

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