| Peccato che Romolo Ottone non sia per sua stessa ammissione uno scrittore, stando a quanto afferma nelle sue pagine, perché la vita del proprio genitore raccontata in questo libro vanta a ben vedere la dimensione di un romanzo.
A cavallo fra le due Guerre, “La singolare storia di Pietro Ottone da Scopetta” (Edizioni Mercurio, pp. 110, Euro 12) riprende la vita dell’ingegner Ottone, nato in Valsesia e trasferitosi in Romania agli albori degli anni Dieci, “impiegato a lavori marittimi al porto di Costanza (Mar Nero)”.
La narrazione del figlio Romolo è organizzata in cinque fondamentali parti, arricchite da fotografie di proprietà della famiglia Ottone e da alcuni scatti valsesiani di rara potenza, provenienti dall’archivio iconografico della Biblioteca Civica di Varallo (fondo “Giovanni Zanfa”).
Origini, vita al fronte, maturità, Seconda Guerra (vissuta fallo stesso Ottone figlio, stavolta) e infine un commosso ritorno a casa, disegnano la testimonianza terrena di un tempo che troppo spesso la memoria storica collettiva accantona. Ma soprattutto, il libro di Romolo Ottone ci parla di una cultura, di un popolo, oggi tristemente noto attraverso la cronaca ufficiale – e lo dipinge invece con conti drasticamente differenti dalla generalizzata opinione che se ne ricava.
Dunque, chi sono realmente i rumeni? Quale improvvisa discrepanza l’avvento del comunismo ha generato, in quel non lontanissimo Paese a est dell’Europa, tra un passato monarchico e l’attuale presente?
In questo singolare incontro per “Orizzonti”, abbiamo occasione di ascoltare dalla viva voce dell’autore e di sua moglie Victoria la testimonianza di un’epoca che, nonostante l’inclemenza del tempo e della fatica di riuscire a sopravvivervi, rammentano ancora in modo lucido e, così facendo, disegnano un mondo quanto meno sconcertante.
DOMANDA – L’esigenza di abbandonare la vostra terra natia è sorta solo all’avvento del regime comunista?
RISPOSTA (Romolo) «Direi che si è intensificata parecchio, sebbene potrei azzardarmi ad affermare che da sempre abbiamo cullato il sogno di lasciare la Romania. In quanto figlio di due italiani, avevo imparato la lingua, mi sentivo appartenente alle mie origini, nonostante fossi nato e cresciuto là. Ma il solo manifestare la volontà di andarsene metteva a repentaglio la vita di una persona. La gente approfittava delle notti nebbiose, per scappare, quando non tentava la via del mare».
DOMANDA – Non avevate mantenuto alcun contatto con l’Italia?
RISPOSTA (Victoria) «I contatti esterni erano stati resi impossibili. Il primo, con l’Occidente, io e mio marito l’abbiamo avuto soltanto a metà degli anni Cinquanta, quando a Bucarest il Partito volle organizzare un congresso internazionale rivolto ai giovani comunisti di tutto il mondo. Stalin era da poco morto e si respirava, se non un’aria di rinnovamento, almeno la speranza in una piccola apertura. In un ambiente sociale in cui la gente si era ormai rassegnata a subire qualsiasi esproprio, qualsiasi privazione anche personale, era già qualcosa. E fu in quell’occasione che un gruppo di studiosi italiani provenienti da varie università chiese l’appoggio in Romania di un interprete. Durante quel periodo mio marito lavorava per conto del Ministero, leggeva le notizie alla radio nazionale, così la scelta cadde su di lui e fu in questo modo possibile per noi maturare quei contatti che, nel tempo, ci avrebbero permesso di lasciare il Paese».
DOMANDA – Signor Ottone, come ricorda la Romania, prima della fine della Seconda Guerra Mondiale?
RISPOSTA «Sono nato nel 1921, dunque ho vissuto all’incirca una ventina d’anni sotto il regime monarchico precedente alla Guerra. Ho ricordi molto lucidi – e nel libro dedicato a mio padre ne faccio ampiamente menzione. Si viveva normalmente, detto in sintesi. Si lavorava normalmente, si studiava normalmente. Ho conseguito gli studi al Politecnico e mi sono laureato in Ingegneria, pur mancando del talento di mio padre nell’essere un costruttore. Ero in effetti più versato sul fronte meccanico-elettrico. Il momento storico però già lasciava presagire quanto sarebbe accaduto poi. Era presente nel Paese una propaganda comunista del tutto sotterranea, che ha generato nuclei di persone pronte poi a saltare fuori qualora il regime fosse effettivamente sopraggiunto. Questa situazione massonica creava cortocircuiti sostanziali nel carattere del popolo rumeno, animato invece da un naturale istinto di cooperazione».
DOMANDA – E come la ricorda, dopo?
RISPOSTA «Posso raccontarle quest’immagine, per darle un’idea di come andavano le cose [Prende una fotografia, una vecchia stampa, ndr] Guardi i volti di questi rumeni, come sono sorridenti. Noterà senz’altro che sono tutti ben vestiti: gli uomini in giacca e cravatta, le donne in tailleur. Eppure in mano reggono un bastone, una piccozza, una falce, attrezzi vari dal lavoro pesante. Questa squadra di lavoratori, qui ritratta sul cassone di uno dei tanti camion che li prelevava, erano uomini e donne rumeni impiegati in uffici e negozi. Lo Stato aveva imposto ai cittadini quello che definivano il “Lavoro Volontario Obbligatorio”.
Ogni domenica bisognava recarsi a svolgere lavori di secondaria importanza sociale e civile, imposti per volontà di educare al lavoro il popolo. Ed è qui che sta un fondamentale controsenso: erano già tutti lavoratori! Nessuno di loro si rendeva bene conto di cosa stava andando a fare e di quale “profondo senso” avesse riparare buchi sulla strada o raccogliere macerie di domenica, dopo tutta una settimana di lavoro mal retribuito. Ecco perché se la ridono».
DOMANDA – Per quale motivo non avete deciso tutti e subito di lasciare il Paese?
RISPOSTA «Si spiega col carattere di mio padre. Onesto, chiaro, non incline ai compromessi, come lo descrivo nel libro. Si trasferisce in Romania nei primi anni 10 e subito si dedica a un intenso periodo di costruzione edile che, dato il momento favorevole dal punto di vista politico, quantunque mio padre non si occupasse certamente di politica, andò a gonfie vele. Dopo la Seconda Guerra Mondiale le cose cambiarono in maniera estrema: in base al Trattato di Yalta, che permetteva a parte dell’Europa di essere amministrata dagli Alleati e a un’altra parte di essere amministrata dall’Unione Sovietica, la Romania venne occupata appunto dai sovietici. Si sapeva che questi avrebbero imposto il comunismo e fu per questa ragione che una massiccia fetta di popolo rumeno, composto anche da italiani, lasciò il Paese. Mio padre, ingenuamente persuaso da un ideale di uguaglianza e parità sociale, decise di rimanere. Fu mio nonno a insegnargli a stare sempre dalla parte dei lavoratori – e sebbene mio padre fosse ormai diventato un costruttore conosciuto e stimato, non cambiò questa sua posizione».
DOMANDA – Oggi la cronaca ci offre un ritratto del popolo rumeno che non lascia indifferenti: nonostante la percentuale di furti e omicidi più alta appartenga ancora agli italiani, non si può negare che certe notizie spesso abbiano per protagonisti i rumeni…
RISPOSTA (Romolo) «La cronaca e la propaganda occupano ruoli molto distinti. La cronaca si limita a raccontare i fatti, la propaganda mira a qualcos’altro: ridurre il cervello umano al minimo indispensabile, tanto da convincere un popolo intero dell’impossibile – e gli esempi storici purtroppo confermano che il tentativo raramente fallisce. Oggi accade altrettanto anche in ambito di cronaca. Se le notizie da cui siamo raggiunti descrivono i rumeni come un popolo di ladri e di approfittatori, lo dobbiamo credo a una propaganda nata allo scopo di screditarli agli occhi dell’opinione pubblica. È però indubbio che il regime comunista ha non solo appiattito il modo di vivere dei rumeni, ma ne ha smantellato e riplasmato la cultura. Basti pensare all’esproprio dei beni personali».
(Victoria): «Il comunismo ha nazionalizzato ogni proprietà. Tutti i capitali in mano a contadini e popolazione sono stati confiscati dal regime, senza eccezioni – e mai più recuperati. Mio suocero, che era proprietario di tre appartamenti da lui stesso costruiti per la sua famiglia, poteva utilizzarne uno soltanto e lì avevano traslocato per forza di cose sua sorella e tutti gli altri. Chiamavano questo sistema “spartizione”. Se a un contadino gli togli la terra, come fa a vivere? Ricordo la casa patronale dei miei nonni: ettari su ettari di terreno coltivato ogni anno, tutto nazionalizzato, dall’oggi al domani. La classe contadina ha finito infatti col diventare una sorta di classe operaia che lavorava la terra per conto dello Stato, ma la miseria che lo Stato versava loro non era sufficiente a mantenere le famiglie. Si era costretti a rubare».
E la classe intellettuale? Penso ai tanti intellettuali “di sinistra” a confronto con una simile realtà: possibile non si siano mai espressi?
RISPOSTA (Romolo) «Effetti della propaganda. Ascoltare dalla bocca di un personaggio politico dell’epoca le parole “in Unione Sovietica i contadini si recano a coltivare i campi in aereo”, credo la racconti lunga. La fuga di tutta la classe intellettuale alla fine della Guerra è uno dei principali motivi del cambiamento interno al cuore del popolo rumeno. Gli intellettuali italiani, d’altro canto, oltre al fatto che “essere di sinistra” era in qualche modo chic, ricevevano cospicui aiuti finanziari dai partiti di quella parte politica, per propagandare ulteriormente il pensiero comunista qui, in madrepatria. La cosa è in parte risaputa, ma se così non fosse stato, allora perché fuggire? Quando si è d’accordo con una dittatura, non si lascia in quattro e quattr’otto il Paese dove queste viene infine applicata. Tant’è che i pochi intellettuali rimasti in Romania, quasi tutti autoctoni, vennero in seguito estromessi dal Partito perché ritenuti degli opportunisti».
(Articolo di Gianluca Mercadante, pubblicato su Orizzonti n. 34 – nov2008/feb2009)
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