| Sull’attrice statunitense Marilyn Monroe, cult dal trentennio post bellico fino ad oggi, sono stati scritti centinaia di libri in molte lingue, e quello proposto da Luciano Mecacci, ricco di supposizioni e teorie, è senza ombra di dubbio uno tra i più interessanti.
“Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi” - questo il titolo del libro, edito da Laterza nel 2002 - si sofferma sulla personalità di Marilyn Monroe e sui rapporti dell’attrice con la psicoanalisi. Il libro è un atto d’accusa contro la psicoanalisi, o meglio, i suoi fondatori, che, sconvolti essi stessi nella sfera privata da passioni, amori, depressioni ed alcune volte da suicidi, troppo spesso versarono le loro crisi esistenziali su chi si sdraiava sul “lettino”. In esso, sono documentati alcuni dei “disastri” che la psicoanalisi ha arrecato a chi ha affidato la confessione dei propri disagi psicologici a quei terapisti dell’anima che, troppo emotivamente coinvolti dagli “eventi” di quei “clienti”, ne hanno sfruttato le debolezze per fini non propriamente filantropici.
Nel resoconto che Luciano Mecacci scrive riguardo a Marilyn Monroe, si parte dalla richiesta d’aiuto psichiatrico che l’attrice fece a ben cinque psicoanalisti: Margaret Herz Hohenberg, Anna Freud, Marianne Rie Kris, Ralph S. Greenson e Milton Wexler. La prima, a New York, le consigliò di andare dalla figlia di Freud, mentre girava a Londra il film “Il principe e la ballerina”. La terza, di nuovo a New York, era stata a sua volta analizzata da Anna Freud. E aveva lo studio sotto casa di Lee Strasberg, il maestro dal quale, dopo ognuna delle cinque sedute settimanali, Marilyn saliva per trasformare in recitazione i contenuti emotivi. Marilyn cominciò ad andare dal quarto, Greenson, nel 1960, quando era a Hollywood, mentre quando era a New York continuava ad andare da Marianne Kris. Ma nel ’61 fu la Kris a farla rinchiudere in una clinica psichiatrica e, riuscita a uscirne, Marilyn ruppe il rapporto con lei. A Hollywood, continuò la terapia con Greenson (due volte al giorno, più ore di telefonate) che diventò un membro di famiglia, intromettendosi nelle scelte personali dell’attrice: inibì, infatti, la relazione di Marilyn con Frank Sinatra, altro suo paziente, e le fece assumere come governante Eunice Murray, già moglie di John M. Murray, analista di Anton Kris, figlio di Marianne. Insomma, una rete di psicoanalisti del “potere” nella quale la povera Norma Jean Baker, nome originario dell’attrice più sexy e più fragile di Hollywood, si trovò intrappolata…
“Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi” cerca di dipanare anche quelle ombre che riguardano il complotto per uccidere l’attrice, e in quelle pagine l’autore sembra avvalorare la tesi esposta da D. H. Wolfe in un libro relativamente recente. Così chiarisce Luciano Mecacci: «in essa operarono un ruolo importante Greenson ed Eunice Murray, membri del partito comunista americano. Questa rete è una “costellazione”: una tessitura di relazioni di amicizia, affetti, parentela, sesso e politica tra analisti e pazienti».
Domanda - Rileggendo il suo libro, con l’occhio critico del tempo (ricordiamo che il libro è stato pubblicato nel 2002, ndr) vorrebbe aggiungere dei passaggi che ritiene oggi chiarificatori di quella sua denuncia?
Risposta - «Per quanto riguarda Marilyn sono uscite, dopo il mio libro, altre opere che hanno sostanzialmente confermato la mia esposizione, aggravando anche il ruolo di Greenson in relazione alla morte dell’attrice. La comunità psicoanalitica italiana non gradì la mia esposizione, ignorò il libro oppure lo bollò come l’ennesima critica alla psicoanalisi. Nessuno entrò nel merito della documentazione storica che avevo mostrato su tanti esponenti illustri della psicoanalisi. Comunque, il libro mi dette qualche soddisfazione non solo per la diffusione che ebbe (è stato anche tradotto in inglese, russo e tedesco), quanto per le non poche lettere di comuni cittadini che avevano vissuto l’esperienza di lunghi anni di analisi e mi confidarono di non averne tratto un gran beneficio. Sicuramente ce ne saranno stati altri che invece avranno trovato la soluzione ai loro problemi psicologici, ma purtroppo non mi hanno scritto».
Domanda - Non pensa di aver scalfito, almeno in parte, il pilastro della credibilità della “scienza dell’inconscio”?
Risposta - «No, non lo penso, perché le difficoltà della psicoanalisi non sono solo legate alla personalità delle sue figure storiche, e delle quali come storico mi sono occupato nel mio libro; anche se questo è un punto cruciale. L’obiezione più stupida che mi è stata fatta è quella che anche un dentista può abusare delle proprie pazienti giocando sulla fiducia nei suoi confronti. Si dice: “succede in tutte le professioni”, ma non è così che bisogna ragionare. Lo psicoterapeuta si propone di curare proprio la dimensione psichica che, per la psicoanalisi, ha una diretta risonanza sulla sfera sessuale. Quindi vi è una contraddizione intrinseca tra la trasgressione nel setting (struttura della terapia, ndr) e gli scopi della terapia. Se si fa un paragone con il dentista di sopra, sarebbe come se invece di estrarre un dente egli procurasse una nuova carie alla sua paziente. Comunque, nella psicoanalisi ci sono vari problemi di natura teorica e metodologica che vanno al di là di questi aspetti biografici dei suoi fondatori. Inoltre la psicoanalisi ha tenuto per decenni un atteggiamento di chiusura nei confronti di altre teorie e prospettive terapeutiche, impostazione che ovviamente a lungo andare l’ha isolata dal resto della comunità degli psicologi e degli psicoterapeuti».
Domanda - Lei ha insegnato alla Sapienza di Roma fino al 1995, poi si è trasferito all’Università di Firenze dove ha insegnato Psicologia generale fino al 2009, anno in cui ha deciso di lasciare l’università in anticipo di vari anni rispetto alla data prevista per il suo pensionamento. La scelta di abbandonare l’insegnamento universitario per dedicarsi agli scritti ed agli studi di psicologia è da interpretarsi come critica ad un mondo accademico troppo settario, stantio ed irreverente verso i codici deontologici della professione?
Risposta - «La prima componente nella mia scelta è stata effettivamente quella di dedicarmi solo agli studi teorici e storici, ritenendo che un qualche eventuale mio contributo positivo alla psicologia possa venire oggi più da queste ricerche che dall’insegnamento. Da quando ho cominciato a insegnare nel 1977 (prima ero un ricercatore nell’Istituto di Psicologia del Cnr a Roma), ho avuto migliaia di studenti e qualche centinaio di loro si è laureato con me. Si può applicare a questi numeri la distribuzione normale della statistica e affermare che la maggior parte di loro era nella media per cultura e sensibilità verso la problematica psicologica, poi c’era una minoranza di studenti eccellenti e una di studenti, senza offesa, del tutto inadatti alla professione di psicologo. Però, si sa, i grandi numeri assumono questa distribuzione e quindi bisogna accettarla. Ora, riferendomi alla mia esperienza, che naturalmente può essere molto parziale, la distribuzione è cambiata con un appiattimento generale. Rimangono gli eccellenti, i medi e gli inadatti, ma tutti con un livello che è sceso, non tanto per la preparazione culturale di fondo, ma per la motivazione a studiare per diventare un bravo professionista in un campo così delicato come il nostro. Non mi ha mai disturbato che si pronunciasse il nome di “Freud” così come è scritto, ma che, invitato a ripresentarsi all’esame perché non gli era chiaro il concetto psicoanalitico di pulsione, lo studente insistesse per avere un voto basso senza dover ritornare (e ristudiare!). Negli ultimi anni è aumentato notevolmente il numero degli studenti che vogliono un 18 agli esami. Ecco, arrivo proprio al nocciolo della sua domanda: l’università e l’ordine degli psicologi non si preoccupano della preparazione dei nostri laureati e quindi delle competenze che questi attiveranno nell’esercizio della professione. Ha mai visto i risultati degli esami di stato? Non ho presente che qualche commissione di questi esami, dopo essersi stracciata le vesti per l’impreparazione dei candidati, abbia denunciato formalmente questa situazione per avviare correttivi adeguati. Ecco, questo è un aspetto della formazione universitaria in Psicologia (come sa, tutta libresca e a quiz) che negli ultimi anni mi era divenuta intollerabile e dalla quale ho preferito dissociarmi».
Domanda - Si avverte il superamento del pensiero e del setting freudiano classico. Ritiene che ci sia un divario tra le necessità terapeutiche applicative attuali rispetto a quelle del secolo appena trascorso?
Risposta - «In primo luogo, vi è stata una evoluzione della psicologia sul piano teorico e metodologico e, come dicevo prima, la psicoanalisi non ne ha tenuto conto; e se ne ha tenuto conto lo ha fatto sporadicamente e in modo superficiale, ma soprattutto si è arroccata su una posizione autoreferenziale, a cominciare dal lessico in gran parte non congruente con quello adottato nel resto della psicologia. In secondo luogo, vi è la profonda trasformazione della società occidentale (teniamo sempre presente che la psicologia è una faccenda di una minoranza della popolazione mondiale, legata a una certa tradizione filosofica; è una dimensione di ricerca e terapia sconosciuta a una maggioranza fatta da popolazioni però emergenti sul piano economico e sociale: basti pensare a tutto l’estremo Oriente, che con la psicologia, e ancor più con la psicoanalisi, ha scarsissima familiarità). Le fondamenta della psicologia erano state gettate sulla base di indagini compiute su persone di una certa provenienza sociale e di un certo livello culturale e - nel caso della terapia - con disponibilità di tempo e di denaro. La domanda di psicoterapia è cambiata drasticamente rispetto agli anni ’70 quando iniziarono i corsi di laurea e si avviò il processo per il riconoscimento dell’albo degli psicologi. Questa domanda è stata senz’altro ridimensionata dalla diffusione degli psicofarmaci che abbreviano il percorso terapeutico e lo rendono meno dispendioso sul piano sia del tempo che del costo. Mi sembra che sia divenuta sempre meno prioritaria la richiesta di una effettiva terapia dell’anima, preferendo il sollievo temporaneo dal disagio psichico che le condizioni sociali e economiche producono nelle nuove generazioni. Il ricorso alla droga e allo sballo fine-settimana ha lo stesso scopo “terapeutico”».
Domanda - Quale potrebbe essere, secondo lei, quella terapia breve e salvifica dell’anima moderna, che è in costante ricerca del rifugio esistenziale?
Risposta - «Domanda difficilissima. Spesso viene posta a vari miei colleghi che frequentano i salotti televisivi. Mi sembra che per loro questa domanda sia facile, perché rispondono tranquillamente con qualche ricetta o slogan. Il problema dell’anima moderna (uso la sua espressione, ma mi viene in mente il libro di Jung, “Il problema dell’anima nel tempo presente”, del 1931), per me che sono un seguace di Vygotskij, non risiede al suo interno, ma nella società in cui essa vive. Quando l’anima cerca un rifugio esistenziale in se stessa, la ragione è che essa non trova nella società (dalla famiglia alla comunità più ampia) le modalità per esprimere le sue potenzialità. Non basta una terapia breve per salvare l’anima dalla schizofrenia, occorre una terapia profonda della società occidentale. Però, a mio modesto avviso, questo non è il compito degli psicologi».
(Articolo di Giuseppe Lorin, pubblicato su Orizzonti n. 39)
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