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Roma, Ambasciata indiana, maggio 2005: la scrittrice Anita Rau Badami è invitata a presentare il suo ultimo libro, “Il passo dell’eroe”, edito in Italia da Marsilio con la traduzione di Fabio Zucchella.
Il romanzo si svolge nella città indiana di Toturpuram e racconta la difficile esistenza di Sripathi Rao e della sua tradizionalissima famiglia di casta braminica, ormai decaduta. La notizia tremenda della morte di Maya – figlia amata, ma ripudiata da anni perché sposata con un americano contro il volere paterno – porta alla Grande Casa di Toturpuram dolore e disperazione, ma non solo: con Maya è morto suo marito, e qualcuno dovrà pur prendersi cura della piccola Nandana…
Nel corso di questa conferenza, Anita Rau Badami parla brevemente della sua vita, tanto per mettere in chiaro una cosa:
"Da ormai dodici anni abito in Canada, scrivo e penso in inglese, ma il mio paese è l’India. Il trasferimento non mi ha provocato il minimo shock culturale o linguistico (a parte che l’inglese per me è una lingua madre, come del resto l’hindi, il kannadi e il bengali); l’unico shock che ho subìto è stato di carattere climatico (sono partita da Madras, dove c’erano 40 gradi, e sono scesa dall’aereo a Calgary, meno 15. Che incubo! E dire che in Canada era primavera, mica il più rigido degli inverni: bardata con tre giacconi uno sopra all’altro, ricordo che guardavo incredula i tanti, buffi nordamericani che in calzoncini e maglietta facevano jogging per la strada, e mi chiedevo se mi sarei mai abituata a quel freddo…).
Comunque il mio legame con l’India è molto stretto e intenso. Sarà sempre il mio paese, non mi sentirò mai una straniera. E uno dei motivi per cui scrivo continuamente storie che si svolgono in India è che così ho una scusa per passare un po’ di tempo nella mia terra. Prima di cominciare a buttar giù un romanzo profondamente indiano avverto un assoluto bisogno di respirare atmosfera indiana… e in questo modo non perdo il contatto con i luoghi che amo, e a cui sono immensamente grata: crescere lì mi ha vaccinato; dopo aver vissuto in India, trovarmi in qualunque altro posto oggi mi pare così facile, una vera passeggiata."
Un bel sorriso, molto indiano. Poi qualcuno fa notare che l’autrice ha una scrittura olfattiva, oltre che visiva, un modo di raccontare altamente evocativo che permette al lettore di sentirsi davvero nelle bollenti, polverose stradine di Toturpuram, o nella fatiscente Grande Casa.
Io ridacchio fra me e me, pensando ai gravi problemi fognari di Casa Rao, e mi chiedo se questa osservazione sulla narrazione olfattiva sia proprio un complimento. Anita Rau Badami non dice niente, ma sembra leggermi nel pensiero perché ad un tratto sorride anche lei.
Da quel momento, si parla della trama del libro e del suo significato. Si passano brevemente in rassegna tutti i Rao (Sripathi, modesto copywriter in una piccola agenzia di pubblicità; la vecchia e scorbutica Ammayya, sua madre; la fedele Nirmala, sua moglie, mai ascoltata abbastanza; la povera Putti, sua sorella, ancora in attesa di una proposta di matrimonio; l’idealista Arun, suo figlio disoccupato) mettendo in evidenza la faticosa difficoltà della loro esistenza e il fatto che ognuno, a modo suo, è un eroe della vita quotidiana. Segue la lettura di qualche brano.
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INTERVISTA
Adesso ci troviamo sulla terrazza dell’ambasciata, per un rinfresco speziato a base di chapati, dosa, idli, bonda, pollo masala e salsa chutney. Quando vedo che Anita Rau Badami si è finalmente svincolata dai funzionari dell’ambasciata, mi presento, scusandomi se il suo meritato spuntino dovrà aspettare ancora qualche minuto.
ANITA RAU BADAMI: "Fammi pure tutte le domande che vuoi. Io cercherò di darti risposte molto interessanti… anche se magari non saranno vere!"
Domanda: "Toturpuram in inglese suona come “torture-puram”, città della tortura. Una coincidenza, pensando alla vita difficile della famiglia Rao?"
ANITA RAU BADAMI: "Uh, no, non c’entra niente. A dire il vero non ci avevo mai fatto caso."
Sorride sorpresa: sarà vero? Ma a questo punto neanche le chiedo se la somiglianza tra il Rau del suo cognome e il Rao di Sripathi sia casuale o non sia, al contrario, un omaggio/denuncia alla sua famiglia. Meglio cambiare registro.
Domanda: "La morte di Maya e l’arrivo in India della piccola Nandana costringono il cocciuto Sripathi a ripensare la propria vita, a rivedere le proprie posizioni e le proprie scelte, e quindi, indirettamente, a farsi delle domande sulla società indiana, sul sistema delle caste e dei valori, sul ruolo della donna nella tradizione e nel presente."
ANITA RAU BADAMI: "Sripathi incarna le tipiche contraddizioni dell’India: manda Maya a studiare in America, ed è anche molto fiero della sua piccola che ha ottenuto una prestigiosa borsa di studio. Però il pensiero che sua figlia un giorno possa lavorare (e per giunta in un altro continente!) non lo sfiora neanche: infatti contemporaneamente le trova un fidanzato indiano, come vuole la tradizione. È chiaro, quindi, che nei suoi piani Maya è destinata a diventare moglie e madre in India."
Domanda: "C’entra qualcosa il fatto che Sripathi sia (e sia sempre stato) un fallito? Da bambino doveva diventare chissà chi, i suoi ambiziosi genitori gli facevano imparare a memoria l’enciclopedia, e poi, poco dopo l’ammissione alla facoltà di medicina, lui abbandona miseramente l’università. In seguito trova un bel lavoro come giornalista a Delhi, ma cede ai capricci di sua madre e rimane, frustratissimo, a Toturpuram."
ANITA RAU BADAMI: "Sì, sì. I successi di sua figlia sono indubbiamente una forma di riscatto per Sripathi. Lui stravede per Maya, è bella e intelligente, una fonte di gratificazione inesauribile… così quando lei lo “tradisce”, mandando a monte il fidanzamento con il buon partito indiano, per Sripathi è un colpo durissimo."
Domanda: "Ma perché, in fondo? Forse Sripathi sente che sua figlia sta prendendo in considerazione una vita lontana dall’India e dalla sua famiglia?"
ANITA RAU BADAMI: "Il problema non è tanto che Maya si sia scelta un uomo da sola, né che quest’uomo sia un occidentale: Sripathi è abbastanza illuminato e aperto da accettare l’una e l’altra cosa. Quello che proprio non riesce a mandare giù è il sentirsi umiliato dalla figlia prediletta. Lui, Sripathi (e non Maya!), dovrà andare col capo cosparso di cenere a casa del mancato consuocero, e mortificarsi per il comportamento di sua figlia. Con questo colpo di testa, Maya – agli occhi di Sripathi – ha fallito nel suo dovere di figlia e di futura moglie, dimostrando totale mancanza di rispetto nei confronti della sua famiglia."
Domanda: "Dopo la tragica notizia dell’incidente, Sripathi cambia radicalmente il suo atteggiamento nei confronti della vita e del mondo: da razionale, scettico e sarcastico, diventa ad un tratto religioso e molto superstizioso. È una necessaria e istintiva reazione, per provare a lenire il senso di colpa?"
ANITA RAU BADAMI: "Quando il mondo ti crolla addosso e tu ti senti in qualche modo responsabile (non dell’incidente, è chiaro: ma pensi con rimpianto alle numerose occasioni in cui avresti potuto essere meno testardo e perdonare, ricucire un rapporto tanto intenso), credo sia normale affidarsi alla religione, anche scadendo nella superstizione, per scaricare un po’ di pesi dalla coscienza. È un momento di debolezza, ma è solo una fase: Sripathi avrà presto un altro tipo di reazione, molto più costruttiva, che lo porterà ad ottenere il “perdono” dalla piccola Nandana."
Domanda: "I nostri non arrivano al galoppo, ma al passo. Quello dell’eroe."
ANITA RAU BADAMI: "Esattamente."
Domanda: "In questo libro ci sono tutti gli elementi del dramma, equamente (si fa per dire) suddivisi fra i personaggi principali: Maya non solo muore e non solo lascia una figlia, ma muore anche “rinnegata” e lontana dalle proprie radici. Sripathi, dopo aver perso tragicamente Maya, rischia di perdere (o almeno di allontanarsi irrimediabilmente da) suo figlio Arun…"
ANITA RAU BADAMI: "Per tacere del lavoro precario! Sripathi sta perdendo anche il suo modesto posto di copywriter."
Domanda: "Giusto. E poi Nirmala, che ha condotto una vita di fatica, sacrifici e compromessi inseguendo la felicità del focolare domestico, si rende conto – forse troppo tardi – che avrebbe dovuto fidarsi del suo buon senso invece di dar sempre retta agli altri abitanti della Grande Casa. Arun è un idealista, un sognatore, ma anche uno scapolo sfigatello e inconcludente che finisce sempre per essere pestato alle manifestazioni e che a 30 anni non ha mai portato soldi a casa. Ammayya è una vecchia megera diffidente e sospettosa, e rappresenta valori e fissazioni di un tempo che non esiste più, per cui è forzatamente infelice in questa nuova era. Putti a 40 anni suonati si sente una bambina ormai ridicola, destinata ad avvizzire zitella. Nandana è un’orfanella sradicata dal suo Canada, catapultata in India e chiusa in un mutismo preoccupante…"
ANITA RAU BADAMI: "Eppure a un certo punto la ruota gira, e per una serie di combinazioni più o meno fortuite e inaspettate si arriva a un incredibile lieto fine. Senza rivelare troppo, Putti diventerà finalmente adulta, spezzando il cordone ombelicale che la teneva incatenata a sua madre; Nandana in maniera simbolica perdonerà i nonni per aver ripudiato Maya; Sripathi si accorgerà della stupidità dell’orgoglio, si toglierà i paraocchi e riuscirà ad evitare con Arun l’errore commesso con sua figlia; Arun, dal canto suo, pur non rinnegando le sue battaglie saprà diventare uomo; Ammayya, infine…"
Domanda: "Tutto come in un film di Bollywood (ma anche di Hollywood)? Forse non è un caso se la svolta avviene in un cinema."
ANITA RAU BADAMI: "Dopo essersi sentito un fallito per tutta la vita, Sripathi capisce che l’eroe da film per essere davvero un eroe ha bisogno di un destino avverso contro cui combattere. Ecco che scatta l’identificazione, ecco 'Il passo dell’eroe'."
Domanda: "Pagina dopo pagina, il lettore viene colpito da notizie tremende, da situazioni insopportabili e penose, e di fronte a questa inarrestabile ondata di negatività sente che prima o poi dovrà arrivare una maledetta svolta. La domanda è: chi beneficerà di questa svolta e chi dovrà essere sacrificato? (In un libro serio, che non sia un paperback da edicola, non può andare TUTTO bene).
E invece il lieto fine è completo, per quanto a suo modo e per quanto possibile (visto che a certe disgrazie non si può rimediare). E la cosa sorprendente è che… è bello così."
ANITA RAU BADAMI: "Ti confido un segreto: chi mi ha tormentato davvero è stata la strega Ammayya, un personaggio antipatico e rancoroso. Così vecchia, eppure attaccata alla vita con tutte le unghie. Che liberazione, il finale!"
(Intervista di Francesco Denti, pubblicata su Orizzonti n. 27 – ottobre 2005)
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