| La fase dell’innamoramento con l’oggetto lascia addosso un senso di inappagamento, specie se l’oggetto ammirato con vero “amore” non è posseduto e non si compensa la privazione con un’alternativa. Nello specifico dell’autrice del libro “Il cappotto di Proust”, edito da Mondadori, è la scrittura l’alternativa artistica del possedere quell’oggetto.
Lorenza Foschini - apprezzata giornalista Rai, autrice e conduttrice di trasmissioni di successo, di numerosi documentari e programmi di approfondimento, scrittrice di libri, di cui ricordiamo “Ritorno a Guermantes”, una traduzione di inediti proustiani, e “Misteri di fine millennio” - ha riversato il suo amore per Marcel Proust, per le sue opere in questo delicato racconto, da cui emerge il fascino del ricordo, che prende forma e consistenza dagli oggetti appartenuti allo scrittore francese.
«Tirano fuori la scatola di cartone. La calano giù con cura, ma con un certo distacco, come se non fosse loro compito riesumare quelle povere cose. Io sono lì in piedi nel camerino illuminato al neon. Come un parente chiamato a riconoscere il cadavere di un congiunto»; è questo l’incipit de “Il cappotto di Proust”, un libro che diviene incontro d’amorosi sensi tra due autori, contatto tra due realtà di cui una a noi non visibile per la relatività di questa nostra materia. E, allora, spetta agli oggetti parlare: essi si esprimono nel loro linguaggio, si “svelano” a noi per riprendere quella loro vita sopita dall’abbandono, dal non ricordo, ed attraverso noi rivivono quell’uso quotidiano proprio di chi li toccò tanto tempo fa.
“Il cappotto di Proust” ha il pregio di trasmetterci la poetica del profumo delle… «j’avais laissé s’amollir un morceau de madeleine...» e di presentarci degli scorci della memoria proustiana, oltre al fruscìo del Manteau de Proust. Le essenze descritte dall’incanto di Lorenza Foschini si sprigionano fin dalle prime pagine del suo afflato scrittorio e le Charme d’Orsay olezza il racconto fino ad arrivare al melange di gelsomino purissimo e rose delicate.
Gli oggetti in questione, dalle carte ai mobili, al leggendario “manteau de Proust”, erano stati custoditi da Jacques Guérin, bibliofilo, mecenate, collezionista d’arte varia dai gusti alternativi. Guérin aveva il vizio di voler toccare pagine rese pregiate dalla rarità; dall’Hérésiarque di Apollinaire, ad un disegno di Picasso, ai quadri di Modigliani appartenuti a sua madre.
L’incontro con il chirurgo Robert Proust, fratello di Marcel, fu l’apertura del vaso di Pandora. Marcel era «morto da soli sette anni, ma la sua vita e la sua fine sono già parte della leggenda». Jacques Guérin, dopo il 29 maggio 1929, giorno della dipartita di Robert Proust, è con Werner per l’acquisto dei mobili, degli oggetti e degli scritti appartenuti a Marcel Proust.
La moglie di Robert Proust, l’arcigna megera dalla voce nasale, quasi stridula, Marthe Dubois-Amiot, volle bruciare gran parte delle carte, degli scritti, degli appunti, delle dediche di suo cognato Marcel Proust che gli inondavano la casa, volle cancellare, per ignoranza e bigottismo, quelle tracce inaudite di amori maschili. Strappò così le dediche affinché il nome non circolasse, e diede fuoco a quei ricordi, ma non a tutti… Jacques Guérin in una cappelliera trova altri scritti, altre lettere, altri ricordi, fotografie di fine secolo che riproducono scene affettive tra due fratelli in gioco.
E Lorenza Foschini, come in un puzzle, ci guida nella “ricerca di un tempo perduto” e ci fa ritrovare attraverso Jacques Guérin quei “pezzi” preziosi per la composizione del mosaico proustiano, immergendoci in una realtà affascinante. Viene raccontato in questo libro, tramite i ricordi del costumista Piero Tosi, anche il sogno di Visconti, di Suso e di Flaiano di realizzare un film sulla “Recherche”.
Robert e Marcel Proust, Jacques e Jean Guérin. Quali affinità elettive, secondo lei, c’erano tra
loro?
«Erano due coppie di fratelli. Ma mentre Robert e Marcel appartenevano alla ricca borghesia di fine secolo, colta, ma anche perbenista e conformista, Jacques e Jean erano figli naturali nati fuori dal matrimonio da una donna divorziata (scandaloso per quei tempi: i primissimi anni del ‘900!), cresciuti in un ambiente artistico e anticonformista. Uno dei due fratelli, Jean, fa coming out, e confida alla madre l’omosessualità sua e del fratello. Siamo nel 1920! Basta questo per capire la grande differenza tra i fratelli Proust e i fratelli Guérin».
Werner e Marthe: uno libertino, l’altra troppo bigotta. Un suo giudizio sui loro comportamenti in prospettiva del rapporto con Marcel Proust?
«Mi affascina il tema della famiglia e di come al suo interno si sviluppino dinamiche incontrollabili. A volte, al posto delle parole che non si ha né la voglia né la capacità di esprimere, si dialoga attraverso le cose, gli oggetti. E allora possono nascere anche atti di vandalismo come quelli che Marthe compie verso il cognato bruciando le sue carte, le sue lettere d’amore, solo perché si
vergogna della omosessualità di Marcel che considera un’onta per la rispettabilità della famiglia. Werner, il robivecchi, rappresenta rispetto a Marthe lo spirito semplice, se si vuole, sano, a confronto di una famiglia che con i suoi tabù incarna tutti gli aspetti più negativi della borghesia di quel tempo».
Jacques Guérin e Werner, l’investigatore e l’investigato. Grazie a loro la Cultura ha scoperto Marcel Proust ed il suo cappotto?
«Guérin salva, o meglio strappa, alle fiamme a cui erano condannati i 13 quaderni mancanti all’opera completa (che venderà alla Biblioteca Nazionale). E poi, la parte finale della Recherche che è stata riscritta una decina di volte, alcune lettere ai familiari e soprattutto le bozze del Du côté de chez Swann, pubblicato da Grasset, corrette a mano da Proust, vendute nel 2000 da Christie’s a Londra per una cifra da capogiro. Non farà in tempo a sottrarre, alla furia distruttrice di Marthe, le lettere d’amore di Marcel, molte di quelle mondane e soprattutto note e bozze preziose del suo lavoro, che sono state bruciate. Werner sarà un complice “inconsapevole” del salvataggio di oggetti e cimeli proustiani. Preso tra madame Proust, avida di denaro e conformista, e Jacques, colto e raffinato, giocherà una parte importante con entrambi che il lettore scoprirà alla fine del libro».
È Giuseppe Marcenaro l’erede di Jacques Guérin?
«Jacques Guérin è stato uno dei più grandi collezionisti del Novecento. Viveva in un castello, da solo, tra i suoi tesori che non mostrava a nessuno. Straordinariamente affascinante, ma al tempo stesso altero, scostante, con il gusto del segreto. Giuseppe Marcenaro oltre a essere un grande collezionista è anche uno scrittore, autore di libri molto belli e interessanti. Ha in comune con Guérin la grande raffinatezza, uno spirito ironico, a volte caustico, a tratti feroce. Ma da quello che posso giudicare per la mia esperienza è un uomo affabile e generoso. Nel corso della mia visita, Marcenaro mi ha fatto visitare nella sua casa di Genova la sua meravigliosa biblioteca e mi ha dato il privilegio di tenere tra le mani una lettera vergata a mano da Rimbaud. Se sarà l’erede di Guérin? Ha tutti i requisiti per esserlo».
Lo scrittore spesso parla in prima persona come osservatore del mondo, degli eventi, degli
individui che lo abitano. È così anche per lei?
«Si è tanto dibattuto su questo argomento. Se torniamo a Proust sappiamo quanto lui avesse a cuore il fatto di tenere separati la sua identità e quella del narratore nella Recherche. E come a volte queste due persone sembrino confondersi. Per quello che riguarda me, io non sono certo Proust, mi limito a raccontare storie stando ben attenta a non inoltrarmi in periodi “proustiani” e in linguaggi
ricercati e preziosi che lascio al suo genio. Resto sempre una giornalista…»
Ritiene sia fondamentale per uno scrittore il rapporto scrittura-ambiente?
«Se un genio deve esprimersi, secondo me non importa dove egli si trovi. Pensate a Leopardi che ha scritto L’Infinito non essendosi ancora quasi mai allontanato da quel “borgo selvaggio” dove era nato: Recanati. Proust sosteneva, per rimanere a lui, che non ha importanza il mondo che si descrive, ma come lo si descrive».
Cosa direbbe oggi Marcel Proust di come vengono conservate nel Musée Carnavalet le sue
cose?
«È difficile ipotizzare cosa direbbe Proust della sua stanza ricostruita nel Museo Carnavalet con i mobili salvati da Guérin. Possiamo essere sicuri, però, dell’importanza che quella stanza, quei mobili rappresentarono per lui, quando era in vita. Basti ricordare quello che scrive Walter Benjamin del letto di Marcel, il letto che aveva dall’età di 16 anni e su cui aveva scritto tutta l’opera nelle notti insonni e dove era morto il 18 novembre 1922. “Il letto su cui - scrive il saggista tedesco - giaceva dilaniato dalla nostalgia per un mondo alterato”. Per Benjamin è la seconda volta nella storia che viene eretta “un’impalcatura come quella sulla quale Michelangelo, la testa all’indietro, dipingeva la Creazione sul soffitto della Cappella Sistina”: il letto su cui Proust malato, con le mani alzate, copriva con la sua scrittura i numerosi fogli che egli consacrò alla creazione del suo microcosmo».
Un’ultima domanda: cosa c’è nei programmi futuri di Lorenza Foschini?
«Sto lavorando da tempo a un altro libro; però, ultimamente ho dovuto metterlo da parte per seguire il cammino de Il cappotto di Proust che è uscito negli Stati Uniti, in Inghilterra e a gennaio anche in Germania. Nei prossimi mesi sarà pubblicato anche in Spagna e in America Latina… Un piccolo libro che per me è come un bambino, e io cerco di proteggerlo e sostenerlo».
Dopo aver letto Il cappotto di Proust di Lorenza Foschini, che è riuscita ad infonderci le vibrazioni emotive da lei provate, la frase rielaborata dal mio ricordo è questo pensiero: «sono i libri che conservano l’anima cristallina degli autori, quando il loro corpo riesce ad essere translucido. I veri poeti non comunicano con i propri occhi, ma questi diventano i loro libri, attraverso i quali si può “leggere” la loro anima… Lavorate finché avete ancora luce» (Marcel Proust).
(Articolo di Giuseppe Lorin, pubblicato su Orizzonti n. 40)
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