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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Incontro con ALDO CAROTENUTO sui rapporti tra scrittura e psicologia: «L’arte può essere un canale formidabile per affrontare e gestire i mali dell’anima» - L'intervista risale al 2005

di Rivista Orizzonti

Genio e follia, l’arte come supporto psicologico nella cura delle nevrosi: questo e molto altro nel libro “Oltre la terapia psicologica” (Bompiani, pp. 365, euro 9,50)

«Un comportamento al di là delle norme, è spesso giudicato ai limiti della follia, perché nella diversità e nell’uscire dai canoni della collettività, nel varcare le consuetudini, ci si può ritrovare tacciati di irrazionalità e asocialità, o nel migliore dei casi, di coraggio e originalità senza pari».



“Se la sofferenza è storia, essa può e deve essere narrata, partecipata, resa intelligibile dalla comunità”, afferma Aldo Carotenuto nella sua ultima opera “Oltre la terapia psicologica”.
Pare che la sofferenza sia misteriosamente connessa alla creazione letteraria: non che l’una sia necessaria all’altra, ma scrittura e sofferenza spesso camminano vicine. E di illustri esempi ne abbiamo molti: Dostoevskij, Proust, Woolf, Pasolini, Pavese, e chi più ne ha… eppure così come fa “ammalare”, la scrittura, come altre forme d’arte, può anche curare l’anima. Emblematica in questo senso la frase di Denis Diderot: “Anche un dolore, una volta scritto, diventa felicità”.
Questo lascia indovinare l’imprescindibile passaggio che, attraverso il travaglio esistenziale, arriva alla “catarsi”. Dibattuta e in eterna oscillazione fra solitudine e comunicazione, dolore e felicità, saggezza e follia, la scrittura è forse il mezzo più suggestivo cui gli uomini possono affidare le proprie esternazioni emozionali, anche ai limiti della follia.


Uno scrittore può essere considerato folle o geniale, ma in base a quali criteri?

«Uomo di genio e follia sono immagini spesso associate. La nostra mente le produce quasi per analogia, come se il confine tra l’una e l’altra personalità non possa delinearsi con certezza. Artista e folle sono immagini “maledette”, evocazioni di sregolatezza e incostanza, di innovazione e originalità, ma anche di pazzia e incomprensibilità.
Un comportamento al di là delle norme, è spesso giudicato ai limiti della follia, perché nella diversità e nell’uscire dai canoni della collettività, nel varcare le consuetudini, ci si può ritrovare tacciati di irrazionalità e asocialità, o nel migliore dei casi, di coraggio e originalità senza pari. Paradossalmente potremmo affermare che la potenza del genio si manifesti attraverso la sua “follia”. Perché la potenza del genio attinge anche ad uno strato profondo della psiche che non si accontenta degli usuali modi di vivere e di vedere il mondo, ma li trascende alla ricerca di una rispondenza maggiore con le immagini della propria anima, e con le proprie capacità intuitive».


L’arte può essere considerata “l’esternazione di una follia”, ma con l’arte ci si può anche curare, anche se può sembrare strano?

«L’arte può essere un canale formidabile per affrontare e gestire i mali dell’anima. Per affrontare la vita, le sue gioie, i suoi dolori: quando il “faccia a faccia” con certi eventi è troppo doloroso, si può aggirare l’ostacolo guardandolo da un altro punto di vista, rielaborandolo, camuffandolo, ripresentandolo dall’esterno in una nuova veste. Perché il dolore personale che proviamo, è sempre più acuto e profondo di quello condiviso con gli altri: mostrandolo, esprimendolo, mettendolo in scena, ci si aiuta a diluirlo e a superarlo. L’arte può essere un ausilio importante per ripristinare un proprio equilibrio psicologico. In questa cornice dobbiamo inquadrare la moderna “Arte-terapia” per esempio, un approccio validissimo per i mali dell’anima, sia attraverso la scrittura, la recitazione, la danza o il disegno».


Tornando a parlare di scrittura e scrittori, una concentrazione eccessiva in quest’arte o mezzo espressivo, può allontanare l’individuo dalla realtà in modo… pericoloso? Penso a una frase dalla corrispondenza della madre di Pirandello: “Luigi ci scrive assai di rado, ed io non trovo pace perché so che la sua vita è seminata di spine, ma vedo che non vi è rimedio, essendo così formata la sua natura. Quando sarei stata più contenta se fosse stato meno intelligente, e avesse potuto vivere la vita dei viventi!”.

«Tutto ruota intorno al dramma di chi, come Kafka, Dostoevskij, Pasolini, è condannato a vivere una vita da esule nel mondo, proprio perché in possesso di una “seconda vista” che ha loro permesso di comunicare, come nessuno psicologo riuscirà mai a fare, le passioni segrete dell’Io, le sue cadute, le perversioni e le aspirazioni. Questo fenomeno racchiude il segreto della loro vocazione, e spiega le motivazioni che spingono molti scrittori, in maniera diversa e per fortuna non sempre così lacerante, a scrivere. Jorge Semprun, poeta e scrittore sopravvissuto alle deportazioni naziste diceva: “Io non possiedo altro che la mia morte, per dire la mia vita. È necessario che io crei della vita, attraverso questa mia morte e, il modo migliore per giungere a questo, è la scrittura».


È vero che uno scrittore è condannato alla solitudine?

«Spesso la vocazione letteraria proviene dalla solitudine, che non è “assenza dell’altro”, ma riguarda l’incomunicabilità degli esseri che stanno gli uni accanto agli altri: una solitudine esistenziale per la quale non esiste solitudine, perché è una condizione strutturale della nostra esistenza. Questa è una delle condizioni che spingono uno scrittore a concentrarsi sulla pagina bianca e ad assegnare alle parole il compito di esplorarla per misurane i confini. L’impegno dell’artista consiste in questa piena assunzione di responsabilità nei confronti della sua solitudine e nei confronti delle parole, perché la scrittura esige una volontà particolare, una coscienza riflessiva, e una fede nel potere evocativo e “suggestivo” della parola scritta, che solo un certo grado di accettazione della propria condizione esistenziale può dare».


Ma come può, una scrittura che nasce da solitudine e sofferenza, stimolare nel lettore la felicità?

«Più che la felicità parlerei di “godimento estetico”. La materia dell’esperienza dolorosa di cui l’autore ci mette a parte, quando arriva a noi, è già trasformata, metabolizzata attraverso il procedimento della scrittura. La narrazione non è che la rappresentazione trasfigurata del pathos, per questo ci rende possibile una esperienza catartica, il “godimento” di cui prima…».


Ed è quello che accade affidandosi all’arte-terapia?

«Stimolare l’arte come puro godimento, o come sviluppo del proprio potenziale creativo è sempre positivo. Serve a ripristinare un equilibrio interno troppo spesso mortificato dalla vita quotidiana. L’umanità dell’individuo, intesa come energia vitale, quale attitudine dell’uomo alla libera espressione di se stesso, quotidianamente imbrigliata nelle redini dei regolamenti sociali, erompe a volte con violenza nelle menti creative. Essere creativi è in sostanza un modo di osservare la realtà, di guardare ad essa, di analizzarla e ridefinirla. E nel ricreare si introduce una nuova variabile: la propria interiorità, esternata nell’opera d’arte, e in particolare nella scrittura. E se la pagina scritta impegna ogni scrittore in un faticoso e paziente travaglio dove ogni nuova conquista stilistica coincide con una rinnovata chiarezza del proprio mondo interiore, per lo scrittore-analista ciò è vero ancora di più.
Ed è un percorso a tappe, che ci accompagna per tutta la vita».



Scrivere tutta la vita, con la mente e il corpo, perché scrivere impegna tutti i nostri sensi: la vista, l’odorato, il gusto (Proust docet), la sensualità personale, la capacità di percepire tutto ciò che è vivo.
«È darci una meta – afferma Ray Bradbury – provare gratitudine per ogni persona che incontriamo, e che ci ha mostrato qualcosa di nuovo. E dopo avere visto, annotato, memorizzato, assaggiato o annusato, pensare che anche gli eventi tristi e dolorosi, servono a insegnarci qualcosa».


(Articolo di Alma Daddario, pubblicato su Orizzonti n. 25, dic.-feb. 2005)

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