| « “Troppo umana speranza” è un commosso, simpatico monumento al “non ancora”», ha dichiarato Ettore Rolli, mettendo in evidenza ciò che emerge, in ultima sintesi, da questo romanzo-fiume, ben 750 pagine!, del giovane esordiente Alessandro Mari: un manifesto sulla “giovinezza”; del corpo, della mente, ma anche di una nazione - la nostra Italia -, di cui ricorre, proprio quest’anno, il cento cinquantenario dell’Unità.
Ambientata ai primordi del Risorgimento, tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, questa grande storia popolare racconta, infatti, l’ “attimo prima”, del divenire e dell’evolversi della Storia, accompagnato da quella “troppo umana speranza”, che diventa il sole attorno a cui ruotano i personaggi del libro, tra i quali spicca lo sciocco contadinotto tuttofare, Colombino, orfanello “adottato” da un parroco.
Da dove sia spuntato fuori questo tipo bizzarro, Mari lo ha spiegato così: «Durante gli anni universitari, quando frequentavo certa letteratura britannica, americana, mitteleuropea, ho sviluppato una affezione per i personaggi “tonti”, un po’ “ idioti”; quei personaggi che portano, attraverso il mondo, una visione che non appartiene propriamente all’età che vivono o al corpo che possiedono. E sicché, in quegli anni, è nata la voglia di dare vita a un personaggio del genere: un idiota.
A Mari, trentenne, che vive a Milano dove lavora come ghost-writer e traduttore ma è originario di Sacconago (frazione di Busto Arstizio dove ha vissuto fino alle scuole superiori e da cui proviene anche Colombino, il protagonista “tonto” del libro), da tempo ronzava per la testa questo personaggio, che alla fine ha trovato il modo di uscire fuori.
«È venuto prima di tutto il nome, cioè “Colombino”, poi il resto - ha precisato Mari -. Dalle mie parti è abbastanza frequente il cognome Colombo, spesse volte si dava anche agli orfani. Il nome, secondo me, porta già la faccia di quel personaggio ed anche l’intenzione che lo muove. E quindi, pian piano, ho trovato che il suo luogo potesse essere il mio, Sacconago. Colombino si porta dietro l’ostinazione di quella terra lombarda un po’ villana, un po’ genuina, di poche parole ma tante intenzioni, ma anche recriminazioni, speranze, paure… insomma l’ho immaginato così: un tipo che non comunica a parole ma con l’atteggiamento, col volto che diventa espressione».
Colombino è caparbio, ostinato. Una volta morto il sacerdote, suo padre putativo, ha difficoltà a sposarsi, perché la famiglia della sua amata lo respinge con violenza, ma lui non molla. Senza più il parroco a sostenerlo, Colombino arriverà fino a Roma per rivolgersi al Papa e nella strada di ritorno verso nord incontrerà un certo Giuseppe Garibaldi, che “non era ancora” l’eroe dei due mondi, di ritorno dal Sudamerica con la sua Anita e 63 fedeli volontari della Legione Italiana. E qui, nella storia personale, entra la Storia con la s maiuscola, ma senza sovrastarla, con un correre fluviale di vicende che si intrecciano.
Mari ha messo, nella sua opera prima, tutti gli elementi che gli stavano di più a cuore: oltre alla predilezione per “certi tipi letterari”, c’è la sua passione per gli eventi storici, per quei racconti che tramandano la memoria delle generazioni precedenti.
«La mia attenzione per le storie risale a quando ero bambino - ha confessato lo scrittore -. Io e mio nonno uscivamo per delle lunghe passeggiate, anche in bicicletta, e lui mi raccontava com’era una volta. Diceva, ad esempio: “lì c’è un capannone di tessitoria invece una volta c’erano i campi che coltivava mio padre, mio nonno…” Questa è la tradizione orale, con cui io sono cresciuto, che non appartiene a mio nonno soltanto ma a tutti gli anziani che vivono in quel paese. La loro è una generazione che ha fatto la guerra e ha voglia di raccontare che cosa succedeva. Da lì è nato in me il proposito di trovare la pertinenza storica di quei racconti, di sapere come fosse andata realmente: ho frequentato le cronache, gli archivi, ma poi mi sono rassegnato all’idea che, comunque, sia meglio l’immaginazione, perché è più potente e permette di dare un colore diverso a ciò che racconti».
I quattro personaggi principali del romanzo sono giovani che si muovono alla ricerca di un mondo migliore: oltre a Colombino, c’è una donna avviata a diventare una spia, un pittore di lascive signore aristocratiche e, infine, il Generale Garibaldi.
«Sono tutti personaggi che hanno un vettore, che è di speranza, “l’umana speranza” che ognuno di sé trasporta - ha commentato Mari -. Per Colombino di coronare un amore, e per raggiungere il suo obiettivo dovrà attraversare un paese, lasciarsi alle spalle una “certa” idea di mondo ed evolverla; per Lisander di redimersi, in qualche modo, attraverso una speranza che non è solo sua ma della persona che gli sta vicino. Leda cerca di scrollarsi di dosso le vite che le hanno imposto e di vivere la propria, declinandola come vuole. Garibaldi, di per sé, è veicolo di speranze. Queste quattro speranze, ho tentato di farle diventare le speranze di allora, di quel momento storico».
Perché proprio quel periodo, e non altri?
«Dentro di me sentivo dei personaggi, lo sviluppo personale di ognuno e la loro giunzione. Cercavo un tetto che li accogliesse, permettendogli di esprimersi al massimo, e l’ho trovato proprio nel Risorgimento. In quegli anni si percepiva un’elettricità nell’etere, anche se non si capiva bene cosa fosse: si viveva come alla vigilia di un momento decisivo - ha commentato Mari, esibendo il fascino di quel periodo storico -. Mi è piaciuto scoprire che a lottare per la Repubblica Romana c’erano anche i lombardi, gli esuli polacchi, gli ungheresi; tutti venuti a combattere per uno Stato che non era il loro. Per le strade di questa Roma combattente c’era gente che non parlava lo stesso dialetto ma che, chissà perché?, si è ritrovata lì… E questo è un fatto, a mio avviso, commovente».
C’è nel libro, ancora, un vivacissimo senso della teatralizzazione della storia, come nell’ingresso nel racconto di un altro personaggio, realmente esistito: Giuseppe Verdi, quando non era ancora un musicista affermato.
«Verdi mi affascina, biograficamente. Gli anni che racconto io, sono quelli in cui non ha ancora scritto “Il Nabucco”, anzi ha appena fatto flop in teatro, ha perso la moglie e i due figli. Quel cammeo di Verdi è per restituire il fatto che noi oggi siamo abituati a vedere quei personaggi “di marmo”, e invece allora “camminavano”. In quella Milano che racconto con Lisander, non c’era solo Verdi, c’erano Manzoni, Tommaso Grossi, Cattaneo, però erano persone normalissime, che si arrabattavano, che tentavano di vincere gli accidenti della vita. Ho voluto far vedere il Verdi-uomo, che, chiedo scusa alla memoria, faccio sbronzare in una notte di passeggio insieme al mio protagonista, perché entrambi vivono un momento di stasi, cioè vivono una situazione cruciale in cui la loro personalità può evolvere in due versi: può scendere più verso l’inferno o salire verso il paradiso. Verdi è motore di se stesso perché evolverà, e storicamente è successo. L’invidia che Verdi scatenerà per la sua così evidente carica sentimentale ancor prima che artistica, produrrà in Lisander quell’invidia che gli serve per andare avanti».
È una buona prova narrativa quella che ci consegna Mari: un romanzo di popolo, di valori condivisi, vita comune; una grande storia che attraversa il Risorgimento, rievocando chi ha contributo - più o meno consapevolmente - a fare l’Italia.
(Articolo di Alessandra Basso, pubblicato su Orizzonti)
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