| Chi ha ucciso il Sessantotto?
«No! Porca puttana! Hanno portato via tutto! Quel capannone, che Giaccai aveva sempre visto pieno di macchine e di operai in movimento, saturo di odori, di fumi, di polveri, di rumori, di merci accatastate, ora completamente svuotato, privo di vita, inerte, neutro triste contenitore.
Una fabbrica morta, un cadavere di cui rimane solo lo scheletro.
Voleva essere sicuro. Si rialzò in punta di piedi sui mattoni. Non era una suggestione. Non c’era più nulla. Il capannone completamente vuoto sembrava ancora più grande».
Negli occhi del Giaccai, rappresentante sindacale dei lavoratori del Calzaturificio Rosolina di Lucca, prende corpo l’incubo peggiore: quello della fine di tutto, della fabbrica, degli stipendi, delle lotte, delle vite...
È intorno alla metafora della “fine” che si sviluppa «Cuore vuoto» (Aletti Editore, pp. 233, euro 15,50), il romanzo di Virginio Giovanni Bestini che a prima vista potrebbe sembrare soprattutto un noir, anche se caratterizzato da un intenso respiro sociale.
La chiusura della fabbrica e il licenziamento di tutti i suoi dipendenti fanno infatti da sfondo a misteri e ombre che condurranno fino all’omicidio, in un intreccio tra crisi economica e strapotere delle banche, usura e centri di potere occulto, in una Lucca a un tempo rassicurante luogo d’arte e cultura e metafora della corruzione della provincia italiana.
Ma è a una “fine” ancor più grande di quella delle povere vittime del romanzo, colpevoli di uno sgarro a un uomo di potere, dirigente bancario che tira le fila di un circuito affaristico-criminale, che fa riferimento Bertini, lucchese, già impegnato nei movimenti studenteschi della fine degli anni Sessanta e poi, a lungo, sindacalista Cgil a Torino. I prestiti a tassi da usura che strangolano le famiglie operaie, mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza, non sono che un frammento della crisi, economica, sociale e di identità che colpisce i protagonisti.
Come in una serie di cerchi concentrici che si dipanano a partire dalla trama da romanzo giallo e intorno alla figura di Lisa, ex sessantottina e poi insegnante impegnata nel sociale e nella difesa dell’ambiente e del territorio,
“Cuore vuoto” mette in scena la conclusione di una stagione, quella che dalla rivolta del Sessantotto arriva fino alla lunga battaglia della Fiat nel 1980. Con lucidità e una punta di amarezza Bertini fa raccontare ai suoi personaggi - la stessa Lisa, Bruno il suo amico delle occupazioni universitarie dei vent’anni, ma perfino il commissario di polizia Vozzo, meridionale trapiantato a Lucca che confessa una passione giovanile per le proteste studentesche - il passaggio d’epoca che sembra aver segnato, almeno in apparenza la fine dei sogni collettivi di libertà e giustizia sociale.
«Cara Lisa - scrive Bruno all’amica all’epoca della sconfitta operaia dei 35 giorni di Torino - è iniziata per me una profonda crisi d’identità. Mirafiori è stata una scuola di vita, un’esperienza sociale originale, un’eresia sindacale scomunicata. Ora occorre elaborare la sconfitta, creare nuovi spazi e nuovi luoghi».
Se gli anni Ottanta hanno segnato la messa in discussione dei sogni maturati in una lunga stagione di utopia concreta, il mondo immaginato dagli eroi quotidiani di Bertini, forti sempre più dei loro dubbi e dei loro interrogativi che non delle loro certezze, ha però finito per andare in pezzi del tutto molto più di recente, sotto i colpi di una cattiva globalizzazione economica e di un divario crescente tra i cittadini e “il potere”.
Come spiega ancora una volta il sindacalista Giaccai replicando all’industriale che ha appena chiuso l’azienda per trasferirsi all’Est: «Il mercato l’ha buttato su e poi l’ha buttato giù, di che si lamenta? Non volevate voi la globalizzazione per esportare senza lacci e laccioli, per diffondere la ricchezza nel mondo, come dicevate. Ecco, il mondo senza regole, la concorrenza selvaggia che volevate, perché quello che avevate non vi bastava, ecco, è quello che vi si è rivoltato contro».
Di fronte alla fine di un mondo, quello che si potrebbe sinteticamente far coincidere con lo sviluppo industriale del paese e con il pieno dispiegarsi delle istanze di cambiamento insite nella cultura del movimento operaio, Bertini segnala la difficoltà e il senso di smarrimento, ma indica anche una via d’uscita.
Perché se “il giallo” che è al centro di “Cuore vuoto” viene risolto grazie ad un’inedita collaborazione tra il commissario, che si è nel frattempo reso conto della deriva fascista di parte degli apparati dell’ordine pubblico, in particolare in occasione del G8 di Genova, e l’ex studentessa ribelle, un incontro che ha quasi il sapore di una riconciliazione storica, il mistero che fa da sfondo all’intero libro si svela pian piano, in una sorta di ritorno alle origini. Chiuse le fabbriche, sfumato il sogno rivoluzionario del grande cambiamento sociale, verso quale orizzonte ci si può ancora volgere per immaginare “un altro mondo”? Con tenerezza e una costante attenzione ai dettagli e allo scenario della natura circostante, Bertini ci conduce alla scoperta di una nuova possibile trasformazione della realtà, non più utopica, ma concreta, legata alla terra e all’ambiente naturale. Se la madre di Lisa fa rivivere nei ricordi che trasmette alla figlia l’epoca delle corti contadine della campagna toscana, quella memoria diventerà uno strumento di consapevolezza: una via per rispondere alla crisi di identità e di comunità generata dal tramonto della cultura industriale del Novecento.
«Io sono nata contadina. Le mie radici sono in questa terra coltivata a grano e granturco (...). La corte per me non era solo un insieme di case attaccate una all’altra, era qualcosa di più, una specie di comunità. Nella corte si viveva, si giocava, si ballava. Si ascoltavano le chiacchiere dei vecchi, le storie affascinanti, si rideva e si piangeva, si vedeva nascere e morire».
L’ultimo cerchio che Cuore vuoto descrive è apparentemente circoscritto al rapporto tra gli individui e il territorio, in un mix raccontato in intense pagine dedicate all’arte e alla bellezza della campagna della lucchesia.
Ma Bertini ci fa capire subito che è di un territorio dell’anima che ci sta parlando, quello dove cercare risposte alla nostra crisi di “senso”. E il cerchio si chiude nelle ultime pagine del romanzo quando Lisa, gravemente malata e prossima all’epilogo della sua esistenza, decide di ricongiungersi simbolicamente con le radici contadine della propria famiglia e di trasferirsi nel Podere Spazzavento, un casale per molto tempo abbandonato, a cui donare nuova vita. Lo fa seguendo l’istinto, in cerca di un nuovo inizio, ma anche seguendo l’intuizione dei suoi compagni di gioventù che hanno deciso, ci spiega Bertini con una battuta, di trasformare la sconfitta del “potere
operaio” nel nuovo orizzonte di un “podere operaio”, rianimando corti e poderi spesso abbandonati da tempo e portando la voglia di cambiamento cresciuta nelle fabbriche e delle metropoli nel bel mezzo della campagna.
Come racconta Bruno a Lisa, «si tratta proprio di una rivoluzione. Abbiamo capito che per cambiare le cose bisogna cominciare da noi stessi, dalla vita quotidiana, dai comportamenti di tutti i giorni. Vogliamo essere padroni di noi stessi, della nostra vita, del nostro futuro».
(Articolo di Guido Caldiron, pubblicato su "Liberazione", domenica 18 settembre 2011)
Continua a seguirci su facebook al seguente link
http://www.facebook.com/alettieditore
|