| Presentato in anteprima alla Fiera del Libro di Torino dal magistrato Gian Carlo Caselli, il romanzo di Riccardo Arena, “Quello che veramente ami”, edito da Dario Flaccovio Editore, (256 pp., € 13,50), è un’appassionante storia d’amore e di politica, con prefazione di Giovanni Bianconi del Corriere della Sera e postfazione di Lirio Abbate dell’Ansa.
Riccardo Arena è giornalista professionista e si occupa di cronaca giudiziaria al Giornale di Sicilia. Corrispondente de “Il Foglio” e di “Panorama”, ha trattato i più importanti processi tenuti nel capoluogo siciliano, da Andreotti a Dell’Utri a Cuffaro. Nella sua carriera ha vinto un riconoscimento al premio “Cronista dell’anno” e due premi “Informazione e sanità”, settore di cui era specialista e su cui ha scritto nel 1994 un libro-inchiesta, “Sanità alla sbarra”.
Nella Milano del 1977 nel campo di battaglia creato dall’odio politico, nel pieno della contestazione di sinistra, Enrico detto il Tunisi, siciliano emigrato e fascista fino al midollo, con un padre torturato dai fantasmi degli orrori visti durante la guerra, incontra Monica, vicina all’area dell’Autonomia dura e pura. Tra rugby, politica, botte, morti, feriti e pistolettate in piazza, agli albori dello spontaneismo armato di estrema destra e mentre monta l’onda del terrorismo rosso, sarà amore vero quanto tormentato. L’incontro tra i giovani degli Anni di piombo e gli uomini che combatterono la Seconda Guerra Mondiale è invece il confronto tra due generazioni mandate al massacro e bruciate in nome di ideali di cui conoscevano ben poco.
Come mai è stato Gian Carlo Caselli a presentare alla fiera del libro di Torino il suo romanzo?
«Conosco Caselli dal ’93, quando, con grande forza d’animo e tanto coraggio, venne a Palermo. Dopo le stragi del ’92 il momento era quanto mai cupo e privo di prospettive di qualsiasi tipo, e lui aveva già svolto un lavoro altrettanto difficile e rischioso sul terrorismo, negli Anni di piombo. Eppure non si sottrasse all’incarico, dimostrando di essere uomo d’onore, ovviamente in senso positivo. Il mio libro è ambientato proprio tra gli anni Settanta e il ‘92, e parla anche di Sicilia e di mafia: da qui la prefazione di Giovanni Bianconi (esperto di bande armate, terrorismo, Servizi più o meno deviati e Cosa Nostra), la postfazione di Lirio Abbate (mio amico, esperto di mafia, minacciato per le sue coraggiose cronache) e la presentazione di Gian Carlo Caselli».
L’incontro dei due protagonisti avviene nel ’77, che a livello editoriale l’anno scorso è stato affrontato parecchio, anche se precipuamente come approfondimento giornalistico o monografico. Quali fonti ha privilegiato?
« “Quello che veramente ami” è un racconto di emozioni innestate sulla cronaca, che - ahimè - è quel che mi dà da vivere. Ho cercato dunque di calarmi nella realtà di quegli anni tremendi attraverso la saggistica, leggendo tra l’altro “Cuori neri”, di Luca Telese, “Spingendo la notte più in là”, di Mario Calabresi, “A mano armata”, di Giovanni Bianconi, “Avevo vent’anni”, di Enrico Franceschini, e, per altri scopi che chi leggerà il mio libro capirà, “Noi moriamo a Stalingrado”, di Alfio Caruso. E poi ho consultato giornali dell’epoca, molti siti Internet sulla cronologia, le storie e le vittime dimenticate degli anni 70… Poi ho attinto dai miei e dagli altrui ricordi, intervistando me stesso, amici, colleghi siciliani e non, parenti più grandi di età…»
L’amore fra Enrico e Monica è reso difficoltoso dal contesto politico e sociale: dal romanzo scaturirà una qualche forma di riscatto per il loro rapporto o per quello in cui credono?
«La storia d’amore tra i due protagonisti è in realtà la metafora di un amore impossibile: quello tra destra e sinistra, i cosiddetti “opposti estremismi”, che avevano tanti punti in contatto, al punto che allora ironicamente si diceva (lo dicevano soprattutto democristiani e comunisti, i più preoccupati da certi flirt politici) che “gli estremi si toccano”. In realtà, però, a mio avviso per mancanza di coraggio, gli estremisti si toccavano prima solo per menarsi reciprocamente, poi purtroppo anche per ammazzarsi, sempre a vicenda. Proprio in quel periodo si combatteva la guerra del Vietnam, che fu definita la sporca guerra. Non vorrei sembrare riduttivo, ma parafrasando questa definizione mi permetto di dire che quella degli Anni ’70 (tra ragazzi e ragazzi, tra destra e sinistra, tra sinistra e sinistra, tra terroristi e sindacalisti, giornalisti, uomini delle Istituzioni, giudici e poliziotti) fu solo una stupida guerra. Però allora si credeva in qualcosa: magari si sbagliava, però si provava a cambiare il mondo cominciando da se stessi».
Enrico, emigrato siciliano degli anni Settanta, a parte il contesto diverso, può rappresentare i tanti giovani che ancora oggi lasciano l’Isola o il proprio Paese “in cerca di lavoro e fortuna”?
«Il padre di Enrico è un emigrato atipico: è un libraio, un uomo di cultura, costretto a lasciare la Sicilia per sfuggire alla vendetta della mafia, cui, da impenitente fascista qual è, ha “mancato di rispetto”. Il figlio condivide questo destino da fuggitivo. Ma la fuga è avvenuta in una città ostile nei confronti di “fasci” e meridionali, e per questo il “Tunisi” odia Milano, adora la Sicilia, studia per il “pezzo di carta” e per tornare nella sua Isola. Poi le cose andranno diversamente, ma il destino dell’emigrato Enrico è identico a quello del barista, dell’operaio, del falegname (ieri siciliano o meridionale, oggi extracomunitario che cerca fortuna anche al Sud e in Sicilia) che lavora una vita per mettere da parte il gruzzolo e tornare a casa».
Il passaggio dalla scrittura giornalistica alla narrativa è stato indolore? Oppure, come tanti, aveva già il romanzo chiuso in un cassetto da molto tempo? Che o chi l’ha convinta a metterlo per iscritto e a pubblicarlo?
«Macché indolore! “Quello che veramente ami” l’ho iniziato negli anni Ottanta dandogli un altro titolo, “Il sole senza scacchi”, l’ho più volte modificato, ma solo quando ho deciso di tentare la pubblicazione l’ho interamente riscritto, per ben due volte, tra il 2006 e il 2007. Però non è questo il punto. Il punto è che uno come me, che di mestiere scrive, si è riscoperto novellino, perché realizzare un articolo di cronaca, per quanto possa essere complesso, è cosa totalmente diversa dallo scrivere un libro. A pubblicare mi sono convinto da solo: dopo anni di pressioni, mia moglie - l’unica che sapeva e che aveva letto - aveva quasi rinunciato ai suoi pazienti quanto vani tentativi di persuasione. Un giorno ho deciso di provare. Lo dovevo a mio padre, cui il romanzo è dedicato».
Quale autore siciliano a suo avviso ha ritratto meglio la “sicilianità”?
«Sono tanti e allora ti dico solo i primi che mi vengono in testa. Leonardo Sciascia, non solo per cultura, chiarezza espositiva, linguaggio, ma soprattutto per la saggezza e la capacità di ragionare. Luigi Pirandello, per l’impietosa schiettezza di chi ha la capacità di presentare noi siculi come siamo stati e sempre saremo. Vitaliano Brancati, per avere dipinto in maniera quanto mai fedele l’aspetto socio-culturale, anche gustoso e ironico, della nostra “etnia”. E Giovanni Verga, un grande pittore di affreschi reali, sempre vivi e vitali. Sai cos’è che lega questi quattro scrittori, secondo me? Il fatto che abbiano potuto anche raccontare una Sicilia senza mafia: perché, a parte Sciascia, gli altri tre non la conobbero come la conosciamo noi. Cosa che dimostra che il corpo siciliano può essere raccontato e può vivere anche senza il tumore che lo consuma da ormai troppi decenni».
Da siciliano è pro o contro la costruzione del ponte di Messina?
«Io sono un inguaribile romantico. Il ponte mi affascina, perché sarebbe senz’altro un gioiello architettonico e tecnologico, come il ponte che unisce Svezia e Danimarca o il tunnel sotto la Manica. Ma ragioni sentimentali mi legano ai laghi di Ganzirri, che sarebbero cancellati dalla mega-opera: dunque sarei portato a dire di no. Ma il ponte è l’emblema di quest’Isola: che parla, sparla, progetta, discetta, si affanna, si scanna, ma sempre Isola resta. Dunque senza ponte”.
Parafrasando il titolo del romanzo, c’è qualcosa di ‘siciliano’ a cui veramente tiene?
«Tutto. La Sicilia è solare, grande, tenace: come tutti i grandi amori, la ami e la odi, non hai spazio per le mezze misure. Mi convinco sempre di più che aveva ragione Giovanni Falcone: la mafia prima o poi finirà. Dico di più: la mafia qui è solo un’intrusa. Voglio ricordare infatti che ci fu un’epoca in cui quest’Isola fu culla delle arti, del benessere e della cultura - con gli arabi, con i normanni e gli svevi - e la mafia o non esisteva o non era quell’organizzazione potente che è diventata a partire dal secondo dopoguerra in poi. E senza la mafia, la Sicilia sarà come una bella e giovane donna che riesca a liberarsi da una grave malattia che le deturpa il viso e il fisico, cioè l’immagine, e l’anima. Cos’altro farà, se non godersi la vita?»
(Articolo di Giovanni Zambito, pubblicato su Orizzonti n. 34)
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