| Banana Yoshimoto è una scrittrice dalla grande capacità di descrivere sensazioni, creare atmosfere, ritrarre momenti di solitudine attraverso un linguaggio semplice e fresco.
I suoi romanzi non sono caratterizzati da grandi azioni e dialoghi ritmati bensì da sentimenti, memorie e pathos. Protagonisti sono i pensieri della mente umana in conflitto tra desideri materiali e desideri spirituali.
E così ci presenta, in uno stile asciutto e scorrevole, il suo ultimo libro «Chie-chan e io», un romanzo breve ma intenso edito da Feltrinelli, in cui riprende alcuni dei suoi temi ricorrenti (la vita, la morte, gli affetti, l’amicizia, le malinconie, il destino, le relazioni, la solitudine e la famiglia) e in particolare contrappone alla famiglia biologica un nucleo familiare non convenzionale formato in base a scelte affettive.
Ciò che la Yoshimoto vuol raccontare è la mancanza di radici delle protagoniste e il loro saper ricreare una nuova tipologia di famiglia, un nuovo luogo in cui vivere, un nuovo gruppo familiare. La famiglia d’origine, quella biologica, non è protagonista bensì è sostituita da una rete di relazioni e d’appartenenze.
Il libro inoltre rappresenta un percorso di autoaffermazione e ricerca di sé, che offre l'opportunità di riflettere su sé stessi e sull’esistenza.
Ecco, dunque, una donna quarantenne Kaori e la giovane cugina Chie-chan: due vite, due donne dai valori distanti, intrecciate però da un affetto composto da tanti piccoli gesti rassicuranti, la cui importanza sembra perdersi nella quotidianità. Vivono insieme e sono legate da una lontana parentela, su cui Kaori ripone le angosce e le preoccupazioni di una vita solitaria, in quanto non è stata capace di costruire delle relazioni stabili.
Chie-chan invece, introversa e taciturna, è la figlia della sorella della madre di Kaori, è rimasta sola a seguito della sua morte per una brutta malattia ed è stata accolta nella casa della cugina. Infatti, è dalla morte della mamma di Chie-chan che tra le due divampa un legame fortissimo, un'amicizia dolce, profonda che sembra quasi amore e senso di maternità, e che rappresenta una relazione d'appartenenza alternativa.
Mentre Kaori, grazie al suo lavoro di importazione di abiti di alta moda dall’Italia, conduce una vita agiata tra Tokio e Milano, circondata da abiti e accessori griffati, la cugina vive sempre in casa, divisa tra la cura delle piante, la preparazione di zuppe ed una meticolosa pulizia della casa.
Lontana dalla sua famiglia, che vive in Malesia, Kaori riesce inspiegabilmente a instaurare un rapporto quasi morboso con questa cugina che sembra vivere in un mondo tutto suo. Per Kaori, Chie-Chan è sua sorella, sua figlia, sua madre, rappresenta “l’altro”, il resto del mondo, un’anima fragile da proteggere. In lei, Kaori riesce a trovare quella serenità che non aveva mai trovato dentro di sé. La sua esistenza neutrale, silenziosa, è per Kaori una presenza quotidiana, un’immagine abituale che la rende felice.
Un rifugio il loro, fragile e commovente, in cui non c’è posto per nessun altro, e la realtà si adatta alle necessità dell’io.
E forse è questo che la scrittrice vuol comunicare, e cioè che la base della felicità dei rapporti umani è la sensazione di stabilità data dalla presenza dell’altro.
La famiglia è sentirsi piantati a terra con solide radici.
È non sentirsi soli.
(Articolo di Simona Gianola, pubblicato su Orizzonti n. 34)
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