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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

La fantascienza come critica sociale. Intervista allo scrittore danese SVEND AAGE MADSEN

di Rivista Orizzonti

SVEND AAGE MADSEN è considerato uno dei grandi scrittori danesi contemporanei. Ha pubblicato una lunga serie di romanzi, raccolte di racconti, saggi, drammi per il teatro, la radio e la TV e libri per bambini e per ragazzi. Inoltre ha scritto tre romanzi gialli insieme a sua moglie Ingerlise Madsen, con lo pseudonimo di Marianne Kainsdatter.
Svend Aage Madsen e Ingerlise Madsen hanno abitato per un po’ di tempo ad Ascea in uno degli appartamenti Wassard Elea per artisti e scrittori.



QUAL È L’OPERA CHE CONSIDERI IL TUO CAPOLAVORO?
È difficile dirlo, ma il libro più conosciuto in Danimarca è Tugt og Utugt i Mellemtiden (Virtù e vizio nel tempo intermedio), una sorta di pastiche del grande romanzo classico antico, come per esempio le opere di Manzoni e di Charles Dickens. Io uso quel modello ma lo sposto in avanti, alla nostra società, e l’idea è che il narratore è uno scrittore che non vive nella nostra epoca, ma fra 100-200 anni, e sceglie di scrivere dei vecchi tempi, e così scrive di Aarhus nel 1975. Grazie a questa angolazione distorta – perché ci sono molte cose che lui non sa, oppure che non ha compreso – l’immagine della società è distorta, una sorta di radiografia della società, perché lui equivoca molte cose ma in compenso mette il dito su aspetti che forse normalmente non vediamo. Sicuramente molti diranno che quel libro è il mio capolavoro, e così anch’io ho la tendenza a farlo. Ma per me è difficile indicare un’opera come il mio capolavoro, è come se la madre di molti figli ne indicasse uno come il figlio prediletto: sicuramente tenderebbe a scegliere uno di quelli che sono un po’ misconosciuti, le cui qualità sono un po’ nascoste. In realtà io ho coltivato due generi di romanzo: il comune romanzo breve di circa 250 pagine, che suona su una sola corda e ha una determinata storia, e poi i grandi romanzi complessi, di 500-750 pagine, che spesso sono rappresentati da diverse storie che si intrecciano e in qualche modo diventano una grande opera sociale. I romanzi di questo tipo hanno una struttura diversa, toccano molte corde e per me sono divertenti da scrivere. Si può fare in modo che si commentino da soli, si possono avere molti personaggi con diversi punti di vista, e questa complessità mi piace.

A QUALI SCRITTORI TI SENTI PIÙ LEGATO?
Fra gli scrittori classici il grande modello per me è Steen Steensen Blicher, che ha scritto dei racconti lunghi che secondo me sono rimasti ineguagliati. Dei miei più o meno contemporanei, scrittori come Villy Sorensen e Peter Seeberg hanno significato molto per me quando cominciai a scrivere, ma in realtà non mi sento poi così influenzato dalla letteratura danese. Ho tratto ispirazione da molte parti, piuttosto che dalla letteratura danese, per esempio da Kafka, James Joyce e Italo Calvino, che apprezzo molto.

QUALI TUOI LIBRI SONO STATI PUBBLICATI IN ITALIANO?
Quello che in danese si chiama Genspejlet e in italiano «Rigenesi» (Iperborea, Milano 2003), tradotto da Maria Valeria d’Avino. Parla di un uomo, un biologo ricercatore. Ama molto sua moglie, che muore per una malattia ereditaria, e in seguito lui perde completamente la testa, smette di fare ricerche e abbandona tutto finché non scopre che in realtà esiste una copia della moglie, e poi trova la numero 2 e 3 e 4, quindi quattro copie della moglie. A poco a poco si scopre che il padre della moglie, anche lui biologo, a suo tempo si era occupato di clonazione, e aveva pensato che sua figlia fosse così unica che doveva farne delle copie. Ora il nostro ricercatore improvvisamente ha la possibilità di incontrare sua moglie morta, ma in quattro versioni un po’ più giovani; hanno età un po’ diverse, con due o tre anni di differenza. La storia è che lui incontra il suo amore ancora una volta, o per meglio dire ancora quattro volte, con ciò che ne consegue – è piuttosto complicato. Due dei miei racconti sono stati pubblicati in italiano: «Il buon anello», che è in Buonanotte Sofia a cura di Franz Rottensteiner (Classici Urania n. 239, Milano 1997) e «Il giudice» in Apparenze. Dieci racconti di narratori danesi a cura di Bruno Berni (Avagliano, Cava dei Tirreni 2002).

TI VEDI COME UN CRITICO DELLA SOCIETÀ? PENSI DI POTER CAMBIARE LA SOCIETÀ CON I TUOI LIBRI?
In realtà non mi vedo come un critico della società, ma vedo che molti dei miei ultimi libri hanno anche quell’aspetto. «Rigenesi» per me è soprattutto una fiaba sull’uomo che vede esauditi i suoi desideri e scopre quanto sia difficile, ma allo stesso tempo è una critica o comunque un modo di rapportarsi alle possibilità di influenzare la biologia che abbiamo raggiunto negli ultimi tempi. L’aspetto della critica sociale si è insinuato nel testo, non è una cosa voluta. Io vorrei che le mie storie avessero sui lettori l’effetto di fargli sbarrare gli occhi e dire: «Ah, le cose possono essere viste anche così». Quando tratto aspetti della società, spero che il libro apra gli occhi al lettore su certe cose, e in tal modo, certo, può avere una funzione di critica sociale. Ma per me la cosa più importante è far aprire gli occhi e, si spera, mettere in moto delle idee.

DA DOVE ARRIVANO LE TUE STORIE?
È un po’ difficile dirlo, perché arrivano ogni tanto, mentre sto leggendo, o mentre sto parlando con qualcuno di qualcosa di completamente diverso, o mentre faccio una passeggiata. Quello che credo sia caratteristico di uno scrittore è in realtà che si attacca alle idee, mentre anche le altre persone hanno delle idee, ma lasciano che se ne vadano per la loro strada. Questa è una tecnica che si impara come scrittore, si impara a tenere strette le idee che arrivano. Io sono completamente autodidatta da questo punto di vista, e in realtà scrivevo di nascosto. Dopo la maturità studiavo matematica e ho cominciato a giocare con la scrittura, perché mi piaceva leggere e in quel campo ho avuto delle esperienze importanti. Così ho cominciato a scrivere di nascosto, nemmeno i miei migliori amici sapevano che facevo una cosa così impertinente come scrivere storie, poi alla fine provai a mandare un testo a un editore; la prima volta me l’hanno rispedito indietro con una pacca sulla spalla dicendo che era buono, ma non abbastanza buono. La volta successiva ci riuscii, ed era molto presto. Avevo 22 anni quando scrissi il primo romanzo che fu accettato da una casa editrice. Allora non sapevo quanto è difficile. In gioventù uno fa le cose e basta, no? Ma mi sembra che sia diventato più difficile, o forse con gli anni si acquista più autocritica.

È UN TRATTO RICORRENTE CHE I TUOI SIANO TEMI FANTASTICI E PORTATI ALLE ESTREME CONSEGUENZE?
Un meccanismo di cui faccio largo uso è prendere una situazione, per esempio una società quotidiana, e cambiare una singola condizione, inserire una singola regola del gioco, provando poi a portarla alle sue estreme conseguenze. In Det syvende baand (Il settimo nastro) si tratta di sorveglianza portata alle estreme conseguenze. Mi sembra che questo generi storie interessanti. Si conosce la società in questione, vi si è più o meno di casa, ma poi c’è quella piccola condizione che viene cambiata. I miei libri possono essere considerati una specie di esperimento del pensiero, dove produco una mutazione sociale che è relativamente difficile da realizzare nella pratica, ma che si può realizzare col pensiero: provo a creare una società ipotetica per vedere quali sono le conseguenze. Il libro è anche una discussione su cosa ci accade nell’istante in cui siamo sorvegliati. Credo che come esseri umani cambiamo, quando sappiamo che qualcuno ci segue: c’è qualcuno che potenzialmente sa cosa abbiamo fatto, che ci spia. Una parte della storia è provare a indagare le conseguenze di questa situazione, e il libro è una farsa nel senso che alcune delle cose che vi accadono sono ironiche e grottesche. Mi sembra che contenga anche un avvertimento, o comunque una riflessione sulle conseguenze. Uno degli interrogativi di cui fra l’altro provo a occuparmi in Il settimo nastro, in cui la criminalità per così dire è scomparsa, è perché la criminalità sia un argomento così forte oggi. Cosa ci succede quando incontriamo continuamente la criminalità nella finzione, e in pratica la coltiviamo come intrattenimento? Una parte molto ampia del tempo che la gente dedica all’intrattenimento ruota intorno a gente che uccide, rapina o cose del genere, e con un tale tasso di esposizione non credo che possiamo rimanere immuni: la criminalità ci influenza, nei suoi confronti assumiamo un altro atteggiamento, che può essere di maggiore condanna, ma forse anche di maggiore accettazione e assuefazione.

IL TUO PUNTO DI PARTENZA È SEMPRE LA SOCIETÀ DANESE, I TUOI ROMANZI SI SVOLGONO SEMPRE NELLA TUA CITTÀ NATALE AARHUS?
Grosso modo sì, si svolgono a Aarhus, oppure sono persone di Aarhus che vogliono andare via. Per quanto possa sembrare inverosimile, può capitare che vadano in qualche altro posto, o può essere che qualcuno da fuori venga a Aarhus, e in questo modo posso ottenere un misto di diverse concezioni della società. Ma è quasi sempre Aarhus, che conosco e con cui ho familiarità. Mi servo della società danese, ma i tratti generali somigliano comunque a quelli delle altre società europee.

LA TUA PRODUZIONE LETTERARIA VIENE STUDIATA ALL’UNIVERSITÀ. IL FATTO CHE LE TUE OPERE SIANO ANALIZZATE IN QUEL MODO INFLUENZA LA TUA SCRITTURA?
Sento che in realtà c’è un legame molto stretto fra me e coloro che mi leggono, nel senso che io in pratica non capisco molto bene le mie cose prima di averne la valutazione di un lettore. E per fortuna, migliori sono i miei lettori, migliori diventano le mie opere. Per me è un dono che siano in tanti a occuparsi delle mie cose, a studiarle a fondo. Mi capita spesso che in questo modo nascano nuove interpretazioni. Quando vedo un’analisi di uno dei miei libri, spesso dico: «Ah, allora è questo che intendeva lo scrittore». Ed è come un dono, che la gente lavori in quel modo.

HAI FATTO SCUOLA, IN DANIMARCA?
Sì, c’è qualcuno che viene accusato di imitarmi, di scrivere nel modo in cui scrivo io, da diversi punti di vista e in misura diversa. Di tanto in tanto capita che qualcuno scrive in modo svendaagemadseniano. Personalmente mi è difficile capire in che modo scrivo, quali siano le caratteristiche del mio stile, ma insomma qualcuno l’ha scoperto e riesce a imitarmi. Non molto tempo fa abbiamo visto per caso tre o quattro recensioni in cui tutti dicevano che era un po’ come Svend Aage Madsen.

TU SCRIVI ANCHE PER IL TEATRO.
Negli anni Ottanta ho lavorato per 4 anni come drammaturgo dell’Aarhus Teater, e negli stessi anni ho scritto parecchie opere. Ne scrissi quattro per l’Aarhus Teater. Il lavoro di drammaturgo di un teatro consiste nello scrivere un’opera l’anno, opera che poi viene rappresentata l’anno successivo. Mi piace molto quel genere e ho sempre in progetto di tornare a dedicarmi al teatro.

DI COSA PARLANO LE TUE OPERE TEATRALI?
Si può dire che giocano con l’identità. Interrogativi personali: com’è una persona, come si forma una persona. Uno dei drammaturghi dai quali sono stato più influenzato è Pirandello. Ho scritto un dramma che si chiama Nøgne masker (Maschere nude), un titolo rubato a Pirandello: lui non scrisse un’unica opera che si chiama così, ma una raccolta di opere teatrali che si chiama Maschere nude. Nella mia il protagonista è Pirandello, ed è un gioco per capire la sua identità, un tentativo in quel senso: capire come forma la sua identità, e questo in un qualche modo è un filo conduttore di molte delle mie opere teatrali. Alcune sono pirandelliane in una forma un po’ più moderna, ma sento ancora che lui è una delle influenze maggiori.

ELEA/VELIA È STATA UN’ISPIRAZIONE DURANTE IL SOGGIORNO AD ASCEA?
In realtà quando sono venuto qui avevo in progetto di lavorare a un romanzo che sto scrivendo e contavo di giocarci un po’ e forse rimetterlo un po’ in ordine: ma in realtà è successo che uno dei primi giorni in cui sono andato agli scavi di Elea/Velia è affiorata improvvisamente l’idea di un racconto; era un’idea che avevo messo da parte molto tempo fa e all’improvviso ho scoperto che poteva trovare una collocazione se l’avessi spostata in questo ambiente. Perciò è a questo che ho lavorato, ho cominciato a giocare con l’idea e a scrivere un po’. Spero che ne venga fuori un racconto che ha origine dal mio incontro con il luogo [Red.: il racconto si chiama Ismenes tragedie (La tragedia di Ismene) ed è stato inserito nella raccolta Manden der opdagede at han ikke eksisterede (L’uomo che scoprì di non esistere), Gyldendal, Copenaghen 2007]. Per me è stato strano, perché in genere non è così che lavoro, non mi faccio ispirare dalle località. Utilizzo dei luoghi, quando ho un’idea mi capita di dire: «Questa è adatta all’ambiente in cui sono stato». Ma mi è capitato di rado che un luogo fosse di per sé fonte di ispirazione nell’istante in cui vi giungevo. Elea/Velia è un luogo molto interessante, mette in moto delle idee.


(Intervista di Else Mogensen, pubblicata su Orizzonti n. 34. Traduzione dal danese di Bruno Berni.)

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