Home Page  
Progetto Editoriale  
Poesia  
Narrativa  
Cerca  
Enciclopedia Autori  
Notizie  
Opere pubblicate: 19994

-



VII PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE AL FEMMINILE

MARIA CUMANI QUASIMODO

SCADENZA
28 APRILE 2023

 

 



 

 

 

Il libro più amato da chi scrive poesie,
una bussola per un cammino più consapevole.
Riceverai una copia autografata del Maestro Aletti
Con una sua riflessione.

Tutti quelli che scrivono
dovrebbero averne una copia sulla scrivania.

Un vademecum sulle buone pratiche della Scrittura.

Un successo straordinario,
tre ristampe nelle prime due settimane dall'uscita.


Il libro è stato già al terzo posto nella classifica di
Amazon
e al secondo posto nella classifica di Ibs

Se non hai Amazon o Ibs scrivi ad:

amministrazione@alettieditore.it

indicando nell'oggetto
"ordine libro da una feritoia osservo parole"

Riceverai tutte le istruzioni per averlo direttamente a casa.



Clicca qui per ordinarlo su Amazon

oppure

Clicca qui per ordinarlo su Ibs

****

TUTTO QUELLO CHE HAI SEMPRE VOLUTO
PER I TUOI TESTI

vai a vedere quello che ha da dirti Alessandro Quasimodo
clicca sull'immagine

Le opere più interessanti riceveranno una proposta di edizione per l’inserimento nella prestigiosa Collana I DIAMANTI
Servizi prestigiosi che solo la Aletti può garantire, la casa editrice indipendente più innovativa e dinamica del panorama culturale ed editoriale italiano


 
Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

C'ERA UNA VOLTA... - ANALISI DEI RAPPORTI TRA LETTERATURA E DISABILITÀ. Dalle fiabe di Oscar Wilde ai libri di Dickens e De Amicis. Fino al celebre dramma “Anna dei miracoli” di William Gibson; ai romanzi contemporanei.

di Rivista Orizzonti

«C'erano una volta in tempi lontanissimi, nel ricco reame di Peloro, un re potente e magnanimo e una regina bellissima e gentile che, però, non avevano figli.
Dopo molte vicissitudini i due patteggiano con tre fate, pietose per la sorte della brava regina, la nascita di un figlio. [...] L’ultima fata disse: “voglio che nasca coperto da una pelle di porco, che si comporti come un porco in tutto e per tutto, e che non possa uscire da questa forma prima di avere avuto tre spose” [...]»
Avviene così quanto predetto dall’ultima fata: il principe si sposa prima con le due mogli, che vorrebbero ucciderlo e che, perciò, verranno uccise, e poi finalmente con la terza, che lo accetterà per quello che è, e sarà premiata.


***


Sin da bambini ci siamo abituati ad incontrare nelle fiabe o nei racconti fantastici tutte le figure della diversità, rappresentata non solo dalle classiche apparizioni terrifiche quali il Lupo Mannaro, la Strega, l'Orco, ma anche da eroi e da eroine che sono, di volta in volta, troppo piccoli o nascosti sotto fattezze animali, oppure deformi o, ancora, afflitti da misteriose infermità.
Attraverso queste inquietanti presenze il piccolo lettore viene messo a confronto con una trasparente metafora, quella del "corpo mutato" che può esprimere "l'oscurità interiore", cioè la rappresentazione delle difficoltà di chi, partendo da una situazione di concreto svantaggio, deve misurarsi con il mondo dei "sani" e dei "normali".
Il Re Porco, nell'accettazione senza condizioni della terza moglie, troverà il riscatto alla sua pena e premierà chi lo ha accettato.

«Così il principe porco, rassicurato dalla sua sposa, si scrollò di dosso la pelle sporca e puzzolente, e lasciandola cadere diventò un giovane bellissimo e pieno di grazia, e passò tutta la notte stretto alla sua Rosabianca».


Vi sono poi favole in cui, al contrario, sono narrate le vicende di chi, non riuscendo a godere della situazione di normalità, viene punito con la condanna all'infermità.
La bambina aveva fatto follie per avere un paio di scarpette rosse che la costringono a danzare senza mai fermarsi fino a che...

«"Per favore”, pregò il boia mentre danzava sulla sua porta, “Per favore mi tagli le scarpette per liberarmi da questo tremendo fato”. E con la mannaia il boia tagliò le cinghie delle scarpette rosse. Ma queste le restavano ai piedi. E lei pregò di tagliarle i piedi, perché così la sua vita non valeva nulla. Il boia, allora le tagliò i piedi....
[...]E ora la bambina era una povera storpia e doveva farsi strada nel mondo andando a servizio da estranei, e mai più desiderò delle scarpette rosse».


O ancora, favole in cui la diversità è rappresentata come condanna da cui non si esce.

«[...] Nelle profondità degli Oceani vivevano esseri metà umani e metà pesci: le sirene.
Dotate di una voce melodiosa a volte risalivano alla superficie del mare per cantare... [...]».
Le sirene, a 15 anni, avevano la possibilità di emergere dalle profondità dell'oceano per scoprire il mondo degli uomini, a loro sconosciuto. Anche la più giovane e la più bella delle figlie del re del mare ha questa opportunità e vede, su una magnifica caravella con molte vele, « [...] sul ponte, riccamente parato, l'eroe della serata, un principe giovane e bello... Improvvisamente si alzò il vento... e la nave, spinta dal vento, sballottata dalle onde giganti, non resistette molto tempo. Lo scafo si ruppe, le strutture sradicate caddero nell'acqua e in mezzo alle grida dei naufraghi, la nave fu inghiottita dalle onde mugghianti. [...]».

La sirena salva il Principe, lo porta a riva e, naturalmente... se ne innamora, ma non riesce ad aiutarlo perché... “la sua coda di pesce le impediva tutti i movimenti sulla terraferma.” [...] Lo porta in una zona visibile della spiaggia dove una bella ragazza, che colà passeggiava, lo vede e lo soccorre. La sirena si immerge, ma non dimentica, si macera nel ricordo e decide di conquistarsi delle gambe umane per poter tornare dal suo Principe. Il prezzo è altissimo, perché la conquista di ciò che rende “uguale” le costa una perdita dolorosissima: la sua splendida voce e la consapevolezza che, se il Principe non si innamorerà di lei, pagherà con la morte la sua scelta. Ma il Principe non può amarla davvero, «[...] il principe l'amava, ma come una sorella, un’amica... essendo muta si confidava molto con lei, sicuro che avrebbe mantenuto il segreto». [...]
Alla fine, infatti, il Principe sposerà la fanciulla che lo aveva soccorso sulla spiaggia, che era naturalmente una principessa, e la sirena morirà.


O, ancora, le favole che sentenziano la condanna di colui che, avendo cercato ed accettato "il diverso", viene respinto dal mondo dei "normali".
Il Pescatore si innamora perdutamente di una sirenetta e, dopo molte traversie, sceglie l'amore e la morte che è toccata a lei in quanto innamoratasi di un mortale.

«E al mattino il Prete uscì a benedire il mare, perché era stato agitato. E quando il Prete raggiunse la costa vide il giovane Pescatore giacere annegato nella spuma e, stretto tra le sue braccia, c'era il corpo della piccola Sirena. Ed egli si ritrasse e gridò: "Non benedirò il mare né nulla che si trovi in esso. Prendete il suo corpo e il corpo della sua amante e seppelliteli nel Campo dei Follatori e non mettete nessun segno su di essi. Poiché maledetti sono stati in vita, e maledetti saranno anche da morti” ».

Solo la misericordia di Dio li perdonerà e farà fiorire sul campo i fiori che vengono messi sull’altare, mai visti prima. E quando il Prete li vide [...] la loro bellezza lo turbò, e il loro profumo era dolce per le sue narici, e si sentì felice, e non capiva perché lo fosse[...]
Allora il Prete capì e «[...] benedì il mare, e tutte le cose selvagge che vi si trovano».


Le fiabe di Oscar Wilde sono tra le più belle della letteratura infantile e il tema dell’“impedimento” è spesso presente, sempre coincidente con la bontà e l’altruismo, i veicoli primi per superare la solitudine e l’emarginazione.
Il Gigante egoista macera nella solitudine la sua “diversità”, mentre nel suo bellissimo e recintatissimo giardino, di cui ha sprangato ogni accesso, neve, vento, gelo e grandine si alternano celebrando il suo egoismo. Solo quando da una breccia nel muro entreranno dei bimbi a giocare, in quell'angolo fiorirà la Primavera. Allora sarà lui ad uscire e ad aiutare un bimbo che non riusciva a salire su di un albero ancora muto e spoglio "il bimbo tese le braccia e le gettò al collo del Gigante, e lo baciò... e lui prese un'ascia e abbatté il muro”.
Anche il Principe Felice ha un “impedimento”: è una statua alta e possente nel mezzo della città. Ma è una statua che piange perché:

"Quando ero vivo e avevo un cuore umano, non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel palazzo del Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. “

Solo dopo essere diventato una statua, dall'alto riesce a vedere le miserie della sua città e diventerà capace di misericordia e generosità. Ma, nell’immobilità a cui è costretto nella nuova condizione di statua, è impossibilitato ad agire per il bene del prossimo. Una rondine, a cui chiede aiuto per cancellare le brutture della città, rappresenterà il suo riscatto. Tra le preoccupazioni del Principe, vi è quella per un bambino:

"Laggiù in una stradina c'è una povera casetta. Una finestra è aperta, e da questa posso vedere una donna seduta a tavola. Ha il viso magro e stanco, e le mani ruvide, rosse, tutte bucate dall'ago... in un lettino nell'angolo giace malato il suo bambinetto”

Ecco esplicitarsi nella fiaba quell’attenzione all'infanzia orientata in maniera duplice: il bambino nobile o borghese che gode di una attenzione intensa e, come dice la Lazzarato, a volte discutibile, e il bimbo proletario o contadino, che vive in condizioni igieniche drammatiche, denutrito e sfruttato, spesso orrendamente, fisicamente offeso. I ciechini, i rachitici e gli storpi che si trascinano nei cortili e nelle vie dei quartieri popolari, le creature tormentate dalla tisi o consumate da una gracilità irrimediabile che languono in umili e gelide stanze, i piccoli mendicanti la cui infermità viene esibita per le strade, le vittime precoci di incidenti sul lavoro o i malatini consumati dalla fame e dalla mancanza di cure.
Nel libro “Il giardino nascosto”, Colin (cugino di Mary, una ragazzina inglese rimasta orfana di entrambi i genitori in India, che viene accolta nell'immensa e strana casa padronale dello zio Craven) è orrendamente ammalato e, in più, inviso al padre che lo ritiene colpevole di aver ucciso, nascendo, l'adorata moglie. Il padre lo soffoca di cure servili, ma lo priva dell'affetto e della sua presenza. Colin è il prototipo del ricco handicappato che viene nascosto, anche se superaccudito. Mary lo salverà e lo restituirà all’amore del padre. L’autrice, Frances Eliza Hodgson Burnett, si è servita, per questa storia, dell'espediente dell'amore salvifico e della fede trionfante.

Nel libro “Incompreso”, Miles, il fratellino fragile di Humphrey, è invece "il preferito" del padre, baronetto deputato al parlamento di Sua Maestà, che con la sua attenzione lo ripaga di una natura crudele che lo ha generato fragile e malaticcio, tanto da diventare ingiusto verso Humphrey, sensibile e ammalato d'amore per una mamma troppo presto persa, irrequieto e apparentemente sordo a qualsiasi sentimento.

Di contro c'è tutta la serie di infermità messe a fuoco da Dickens o anche dal nostro De Amicis, dove la disanima coincide con la denuncia sociale.
Quasimodo, l'uomo deforme, il gobbo di Notre Dame, rappresenta, a mio avviso, l'anello di congiunzione delle due letterature: quella dell'infanzia e quella della letteratura semplicemente detta. Con il Quasimodo di Victor Hugo siamo nel Medioevo, epoca di streghe da mandare al rogo e gobbi portafortuna, superstizioni e formule magiche, zingari e demoni.
La disanima di Federico Zannoni è precisa e puntuale: in quell’epoca bastava un tratto fisico sbagliato per condannare una persona e Quasimodo di tratti fisici sbagliati ne ha parecchi. Come il naso tetraedico, la bocca a ferro di cavallo, quel cespuglio rosso e quell'enorme verruca a nascondere gli occhi, i denti simili ai merli di una fortezza, il labbro calloso. Sotto la testa, tra le spalle, una gobba enorme, e poi gambe simili a lame di roncole, piedi enormi, mani mostruose e, insieme a tanta deformità, un certo qual comportamento vigoroso, agile e coraggioso, tale da incutere timore.
La sua bruttezza è il suo handicap, capace di condizionargli in modo tragico l'intera esistenza. Questa è la sua prigione. Il campanile della cattedrale di Notre Dame viene dopo. Per tutti Quasimodo non è altro che il campanaro, il gobbo di Notre Dame, il guercio, lo storpio. Non è possibile andare oltre. L'eccessiva deformità spaventa, non consente approfondimenti, non consente di indagare spirito, carattere, intelligenza, risorse, sensibilità.

“La bruttezza genera rifiuto e paura
Stiano attente le donne gravide
È il diavolo
Ci getta il malocchio dai camini
Oh che brutta anima!
Che orrore!
Oh, maschera dell'Anticristo”

Ciò che non si conosce fa paura.
Il diverso turba la quiete, mette in gioco ogni sicurezza, molto spesso avvicina a verità indesiderate.
Il rifiuto non è, quindi, altro, che una difesa nei confronti del diverso che può far male.
Quasimodo, in qualità di diverso, non può camminare spensierato per le vie della città, conoscere gente, comunicare, guardarsi intorno, amare. Bisogna nasconderlo perché è guercio, gobbo e storto, e per non turbare l'intera comunità bisogna segregarlo sui tetti della Cattedrale, rendendolo lo schiavo più sottomesso, il servo più docile del potente arcidiacono, il cane da guardia più vigilante.
Però non si rassegna e, grazie all'amore generoso per una donna, riuscirà ad andare “oltre”. Questa donna è Esmeralda, la zingara che balla e fa magie, la figlia del vento, la ladra, inquietante e ammaliante. Una donna pericolosa, da evitare, che vive ai margini, speciale e inesplorata, come speciale e inesplorato è il suo compagno di morte: Quasimodo il campanaro. Quasimodo, l'alter ego di tutti coloro per cui l'apparenza è una gabbia.


Ma gli scrittori non sono coinvolti nel tema "handicap" solo sul piano dell'immaginazione e dell'invenzione narrativa. Se si analizza una campionatura nell'ambito del cosiddetto "romanzo di formazione", si può raggiungere la conclusione che gli scrittori coinvolti nel tema lo siano spesso anche autobiograficamente (in quanto genitori o educatori o soggetti handicappati essi stessi).
Sul piano stilistico, quindi, si osservano l'uso della prima o della terza persona, la scelta di una forma diaristica o più propriamente romanzesca, la presenza di una dimensione autobiografica, di pura finzione o addirittura fantastica. Sul piano tematico, si è rilevata (e la tesi di laurea di Clara Sereni ce ne fornisce ampia documentazione) una diversa tipologia di handicappati (colpiti da deficit sensoriali, cerebrali e psichici) e una diversa gerarchia degli aspetti educativi del disabile (il linguaggio e la sessualità, le relazioni familiari, i comportamenti sociali, il rapporto con la natura, l'acquisizione di competenze intellettuali e artistiche, il rapporto tra educatore e disabile, e, spesso, la reversibilità dei ruoli, il tema dell'autonomia, della stima di sé e della felicità del disabile).
Io mi limiterò all'analisi di alcune opere che sono state fondamentali per il mio lavoro, al tempo in cui ho scelto di fare l'insegnante di sostegno.

Il primo, tra tutti, il celebre dramma “The Miracle Worker” di William Gibson, tradotto in italiano “Anna dei miracoli”, che venne messo in scena per la prima volta nel 1975 negli Stati Uniti.
Anne Sullivan, l'Anna del miracolo, è l'istitutrice di Helen Keller, resa cieca e sorda forse da una scarlattina, più probabilmente da una meningite a due anni. Anne non ha alcuna esperienza in fatto di insegnamento, ma viene da un'esperienza di dolore di cui conosce tutti i misteri: miserie e furbizie di sopravvivenza. Anne si fa rinchiudere in un cottage, dove, unica fonte di sostentamento di Helen, riesce a fare una prima conquista: un comportamento umano, senza alcun risultato però sul piano della comprensione delle parole. Sarà il 5 aprile 1887 il giorno fatidico in cui, dopo aver spruzzato l'acqua sulle mani di Helen -l'unica parola di cui avesse vagamente afferrato il senso prima della malattia- e averne digitato sulla mano, per l'ennesima volta, le sillabe, la bimba capisce il nesso tra quella serie di gesti e il liquido bagnato che ancora gocciola dalla sua mano.

"Io stavo in piedi, immobile, e tutta la sua attenzione era concentrata sui movimenti delle sue dita. Improvvisamente sentii una vaga consapevolezza, come qualcosa di dimenticato, il brivido di un pensiero che stava tornando, e, in qualche modo, il mistero del linguaggio mi si rivelò in pieno."

Helen Keller si laurea, magna cum laude, all'età di 24 anni, si impegna in politica, riceverà un numero imprecisato di onorificenze e tributi e morirà nella sua casa nel Connecticut all'età di 87 anni.
Helen Keller appartiene a quelli che ce la fanno... perché? Perché hanno dalla loro un'incredibile intelligenza, dono di Dio, e una famiglia (in questo caso i soldi di una famiglia e una istitutrice come Anna) che li aiutano a superare la barriera costituita dal loro "handicap" ed effettivamente, sicuramente, passano dalla parte dei "diversamente abili".
Ma c'è questa costante in chi "ce la fa": l'attenzione della famiglia, l'amore che non demorde, non si rassegna, non getta la spugna.


Giuseppe Pontiggia e Ugo Pirro sono due padri, che hanno in comune un figlio disabile.
In "Nati due volte", il prof. Frigerio (lo stesso Pontiggia), padre del figlio svantaggiato Paolo, spastico per una momentanea interruzione d'ossigeno e un malaccorto uso del forcipe, non si rassegna, tutto teso a far sì che il figlio riesca a recuperare tutte le potenzialità, e non si arrende davanti a ostacoli che sembrano insormontabili. Cerca disperatamente all'esterno competenze, comprensione e sostegno morale. Trova una sorta di competizione tra le varie gravità di disabilità, una incredibile "distanza” mascherata da realismo, anche nei familiari più vicini (la madre), e inadeguatezza, imbarazzo, approssimazione, nei medici e negli addetti ai lavori in genere.
Il destino di Paolo è una duplice nascita: la prima che lo consegna impreparato al mondo, la seconda che ne registra gli sforzi e la pena per farsi accettare nell'universo dei "normali". A volte lo sconforto lo prende ed allora lo scopriamo che piange "con le mani aggrappate al pavimento, come se anche questo dovesse sfuggirgli”. E il prof. Frigerio/Pontiggia è sempre lì, spesso a sorridere con lui e per lui, ad accompagnare il figlio con contenuta trepidazione, a chiedersi chi in questo mondo competitivo sia il vero handicappato, e con la convinzione finale, nata dall'osservazione degli "altri", che non ci siano classifiche da fare, ma solo strade da percorrere. Con le gambe per alcuni, con il coraggio e il cuore per altri.

“Mio figlio non sa leggere” di Ugo Pirro è un libro-testimonianza su un caso di dislessia e sulla micidiale miscela, di ignoranza, sottovalutazione e sordità, che caratterizza gli interventi della scuola e delle strutture sociali. La dislessia, pur essendo recuperabile e pur apparendo un disturbo "meno grave" e determinante, per la sanzione sociale e scolastica che determina può diventare causa di un senso di inferiorità che scivola nell'infelicità dell'infanzia, evolvendosi in una pericolosa spirale di effetti sempre più negativi.
Come Pontiggia, il papà Pirro è costretto ad un doloroso pellegrinaggio tra varie istituzioni scolastiche e mediche, come il primo cerca di minimizzare i disturbi del figlio Umberto, collegandoli alle sue anomalie e a quelle degli altri in una specie di "respiro assolutorio”. Ma mentre Paolo ha alle spalle una famiglia unita e collaborativa, sia pure con le smagliature di qualche sporadica distrazione, Pirro vive col figlio ad Anacapri, separato dalla moglie e con una amante bambina tedesca che tende a mettersi in concorrenza con Umberto, comportandosi come una figlia.
Pirro si impadronisce della difficoltà "dislessia", ne sviscera le componenti, si inventa esercizi e comportamenti di vita che diano ordine e metodo alla scrittura. Riesce a risalire la corrente dell'alfabeto del bambino che “pareva galleggiasse su un lago torbido e scosso”.
Umberto gli resiste e gli si oppone appoggiato da una madre che lo vizia.
Alla fine guarirà e lascerà il padre senza ombra di riconoscenza, ma è chiaro che un padre non cerca “riconoscenza” da un figlio che ha saputo guarire.
Si nota come, in tutti e due questi libri, l'interpretazione psicologica si intreccia a quella strettamente pedagogica, confermando la solidarietà tra le due discipline, tuttavia permanendo nell'ambito della letteratura. D'altra parte, un'indagine trasversale stesa ad autori maggiori e minori della letteratura italiana e straniera, conferma l'interdisciplinarità di questo genere, dove letteratura, psicologia e pedagogia si mantengono in equilibrio e la letteratura osserva nello spazio in cui le altre due discipline si incontrano.

Ne “La lunga vita di Marianna Ucria” di Dacia Maraini entriamo nella letteratura pura, uscendo dalla riflessione e dall'impegno pedagogico per perderci nell'atmosfera magica e surreale del romanzo. Anche qui c'è, comunque, un ambiente, c'è un trauma, c'è un grave svantaggio di conseguenza, c'è una presa di coscienza e una risalita verso la consapevolezza di sé, l'autonomia, il risveglio intellettuale, la conquista della propria identità.
"Vorrei che Marianna tenesse compagnia al lettore/trice con il suo silenzio carico di pensieri” dice Dacia Maraini nel corso di una intervista a ItaliaLibri.

Reale, vera, riesce ad essere Marianna forse più di Useppe, de “La storia” di Elsa Morante, gracile e minuto, nato dalla violenza di un militare tedesco, alla ricerca di una donna che lo consoli della triste condizione di soldato, sulla maestra elementare Ida Ramundo, vedova e ebrea. Useppe morirà stroncato da una grave forma di epilessia.

Marianna, la “mutola”, non ricorda perché a un certo punto della sua vita le orecchie si siano rifiutate di ascoltare e la bocca di parlare. Ma la sua menomazione non si traduce in una sconfitta, anzi, la diversifica dalle altre donne e riempie il suo silenzio di pensiero. Pensieri che ruba dalla mente degli altri, dove riesce a penetrare senza sforzo, pensieri che costruisce con acume e acutezza di ingegno, forte della filosofia del signor Davide Hume, ma soprattutto forte della sua intelligenza sollecitata dalla lettura, dalle riflessioni, dalla coscienza di dover lottare per non sprofondare nel labirinto della sua menomazione.

"L'intelletto quando agisce da solo e secondo i suoi più originali principi, distrugge del tutto se stesso... noi ci salviamo da questo scetticismo totale soltanto per mezzo di quella singolare e apparentemente volgare proprietà della fantasia per la quale entriamo con difficoltà negli aspetti più reconditi delle cose..."
È Marianna o Dacia Maraini che parla?

Marianna sposerà bambina, a 13 anni, proprio il suo stupratore, che nell'atto sacrilego della pedofilia l'ha resa muta, sarà sposa e madre, attenta amministratrice delle sostanze di famiglia.
Vedova conoscerà anche l'amore, ma sceglie alla fine di andarsene a vedere il mondo e mentre il brigantino si allontana da Palermo “brandelli di memorie disperse e quasi dissolte” risalgono dal fondo della coscienza, immagini di tutta una vita, una lunga vita segnata da quello scantu che l'ha resa sordomuta, una menomata che ha trasformato la sua menomazione in una proficua fonte di affinamento fisico e intellettuale [...] “che vorrebbe tornare indietro ma ha anche troppa voglia di riprendere il cammino, di percorrere la strada del suo destino fino alla fine, interrogando i suoi silenzi…interrotti solo una notte da un assurdo grido agghiacciante che traduce finalmente la memoria di ciò che fu…” […]

Dobbiamo continuare a chiamarli disabili? si chiede, in “E li chiamavano disabili”, Candido Cannavò, storico direttore della Gazzetta dello Sport, che racconta nel suo libro -giunto ormai alla settima edizione- 16 straordinarie avventure umane. Scrive Simona Atzori, pittrice e ballerina che danza con successo in tutto il mondo, in quarta di copertina: “Penso talvolta che i veri limiti esistano in chi ci guarda”. Oltre alla storia di Simona c'è quella di Paolo Annibaldi, chirurgo, e quella dello scultore non vedente Felice Tagliaferri, degli artisti del gruppo rock Ladri di carrozzelle, del fisico teorico Fulvio Frisone, affetto da tetraparesi spastica, e del campione automobilistico Alex Zanardi.
Quello di Cannavò è un altro modo di fare letteratura, nulla lasciando alla fantasia, ma raccontando con la ruvidezza del cronista sportivo e sottolineando come l'intelligenza dell'individuo e una famiglia attenta riescano a superare qualsiasi barriera.

Ho scritto anch'io un libro, "Handicap?", con Elisa Vavassori, intrappolata da sempre in una carrozzella, laureata in scienze della Comunicazione e aspirante giornalista, che mai demorde, che mai indietreggia. Lo mettiamo tra la letteratura?
Non so se lo merita, ma so che è scritto con il mio cuore, ma soprattutto con l'intelligenza e l'amore di Elisa.



(Articolo di Maria Luisa Chiara, pubblicato su Orizzonti n. 34. Il saggio è corredato dalle illustrazioni di Elena Buttarelli. Anche l'immagine qui utilizzata è di Elena Buttarelli).

Continua a seguirci su facebook al seguente link:
www.facebook.com/rivistaorizzonti
Segnala questa opera ad un amico

Inserisci Nuova Notizia

Nessuna notizia inserita

Notizie Presenti
Non sono presenti notizie riguardanti questa opera.