| Cinquant’anni fa, moriva Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ha vissuto le due guerre mondiali. È stato un grande viaggiatore e appassionato di libri storici e romanzi. Scrittore tardivo, non ha mai avuto la possibilità di vedere stampato il suo capolavoro: «Il Gattopardo», pubblicato l’anno successivo alla sua morte.
Ognuno è figlio del suo tempo.
Ogni individuo, infatti, vive contesti sociali e storici irripetibili, che diventano la base da cui trae nutrimento la propria personale esistenza. Anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha vissuto così il proprio cammino, condizionato e subordinato a quello della Storia. Ma è riuscito ad andare oltre i confini temporali del contesto a lui pertinente, restituendoci il racconto di un’Italia che, seppur lontana, si presta a paradigma per un confronto con quella a noi contemporanea, aiutandoci a capirla ancora meglio.
Nato nel 1896 a Palermo, da una famiglia aristocratica – principi di Lampedusa, duchi di Palma e Montechiaro – nell’aprile del 1915 si iscrive presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma, ma nel novembre dello stesso anno vi è un importante intreccio della Storia con la sua esistenza: viene chiamato alle armi e partecipa così alla Prima Guerra Mondiale.
La guerra è sempre un processo disumanizzante, di realtà estreme che possono sconvolgere l’io per la spietata crudeltà che viene divulgata con generosità. Anche a Giuseppe Tomasi di Lampedusa non viene risparmiata l’asprezza dell’evento: è fatto prigioniero dagli austriaci nel novembre del 1917 e solo dodici mesi dopo – fuggito dal campo di concentramento ungherese – riesce ad entrare in Patria, raggiungendola a piedi. Congedato dall’esercito con il grado di tenente, fa ritorno a Palermo nel 1920, ma l’esperienza della guerra e della prigionia hanno un’incidenza profonda sul suo carattere tanto che di lì a poco viene colpito da un grave esaurimento.
Inizia da questo momento un nuovo percorso, caratterizzato da un decennio di numerosi viaggi in Italia e all’estero, da solo o più spesso in compagnia della madre. E in uno di essi, nel 1925, incontra a Londra, all’ambasciata d’Italia, la sua futura moglie, la principessa nonché studiosa di psicanalisi, Alessandra Wolff Stomersee, detta Licy, che sposerà sette anni dopo, in una chiesa ortodossa.
Si affaccerà negli anni a venire un nuovo e sconvolgente evento, la seconda guerra mondiale, cui Tomasi darà nuovamente il suo contributo con un nuovo arruolamento, e che porterà nuovo dolore nella vita dello scrittore: la distruzione del palazzo dei Lampedusa, nel centro di Palermo, in via Lampedusa 17, bombardato e in gran parte distrutto nel maggio del 1943 nel corso dell’avanzata alleata.
Tracce della sofferenza subita si ritrovano in “Ricordi di Infanzia”, opera fortemente biografica e mai terminata, nella quale descrive ed evoca case, giardini e consuetudini appartenenti alla famiglia, con vivissima malinconia, per l’impossibilità del ritorno ad un “paradiso perduto”. Sulla casa distrutta, quasi a sottolineare che la distruzione fosse voluta e perseguita con intenzionalità, dice che “…le bombe trascinate da oltre Atlantico la cercarono e la distrussero”. La casa, dunque, è metafora di una riscoperta delle origini, ma anche della memoria di un passato vitale e glorioso, di cui non vi è più traccia nel presente.
Dopo varie vicissitudini, Tomasi di Lampedusa visse sempre a Palermo, in un vecchio edificio in via Bufera 28 adiacente a quello della casa del mare - ricordata nel Gattopardo durante il colloquio tra il principe Fabrizio e Chevalley – appartenente da tempo alla famiglia.
Negli anni 50 stringe amicizia con i frequentatori della casa del barone Sgadari di Lo Monaco: Francesco Agnello, Francesco Orlando, Antonio Pasqualino e soprattutto Gioacchino Lanza Tomasi, che Tomasi di Lampedusa adotterà nel 1957 – anno della sua scomparsa.
L’incontro con la scrittura avviene all’età di 58 anni, e sarà di breve durata, accompagnando gli ultimi tre anni della sua esistenza.
Determinante per la stesura de «Il Gattopardo», sua sola opera sostanzialmente importante – non a caso Tomasi è stato definito da Eugenio Montale uno di quegli «scrittori di un unico libro» di cui è pieno l’Ottocento - è il convegno letterario di San Pellegrino Terme, dell’estate del ’54, al quale partecipa accompagnando il cugino Lucio Piccolo e dove conosce alcuni scrittori, tra cui Ravegnani, Bellonci, Bassani, e soprattutto il critico Emilio Cecchi e lo stesso Montale. Dei due aveva parlato all’allievo prediletto Francesco Orlando, dicendogli: «hanno l’aria inconfondibile di chi sa la propria importanza; l’aria dei Marescialli di Francia».
Uno scrittore tardivo dunque il Tomasi ma che ha ultimato “Il Gattopardo” piuttosto velocemente perché, come ci fa sapere Carlo Bo nella recensione al libro, “sembra – lo ha confidato la vedova – che il Tomasi abbia per molti anni vagheggiato di scrivere un romanzo storico sullo sbarco garibaldino a Marsala, centrato su un suo antenato astronomo. E non c’è dubbio che da questa lunga incubazione su una fragile trama e più attraverso la meditazione sull’essenza della vita il Tomasi sia approdato di sorpresa a un romanzo scritto di getto: non si trattava di un caso ma di una conclusione, di un frutto maturato naturalmente e lentamente”.
Completato il romanzo, inizia per il suo autore la ricerca, purtroppo rivelatasi infruttuosa, di un editore disposto a pubblicarlo. Nel maggio del ’56, il cugino Lucio Piccolo invia quattro capitoli alla Mondadori.Il manoscritto passa tra le mani di Elio Vittorini, consulente della casa editrice, che propone all’autore una nuova riscrittura del romanzo. Il consiglio non viene seguito e nel dicembre del ’56 il libro viene definitivamente rifiutato dalla Mondadori. Tomasi fa allora un secondo tentativo: avendo saputo che Vittorini non aveva stroncato del tutto il romanzo decide di inviarlo all’Einaudi dove dirigeva la collana I Gettoni. Il percorso verticale e frustrante di un editore è interrotto dai problemi di salute dello scrittore. Nell’aprile del ’57, infatti, gli viene diagnosticato un carcinoma polmonare e si trasferisce a Roma per le cure. A riguardo ci dice A. M. Corradini sul sito della Fondazione Piccolo: «Un mese prima del decesso scrive una lettera al cugino Casimiro Piccolo datata 27 giugno 1957 dalla clinica romana Villa Angela, ed è scritta con una grafia incerta, forse per le sofferenze fisiche. Egli vi descrive le sue pene per le cure che deve subire. Gli venivano praticate infatti delle applicazioni al cobalto, che avevano apportato un giovamento momentaneo».
Cinque giorni prima di morire è lui a ricevere una lettera, quella della definitiva bocciatura de «Il Gattopardo» da parte di Vittorini:
«[…] devo dirle la verità, esso non mi pare sufficientemente equilibrato nelle sue parti, e io credo che questo “squilibrio” sia dovuto ai due interessi, saggistico (storia, sociologia, eccetera…) e narrativo, che si incontrano e scontrano nel libro con prevalenza, in gran parte, del primo sul secondo”. E prosegue: “Per il resto, purtroppo, mi trovo nell’assoluta impossibilità di prendere impegni o fare promesse, perché il programma dei “Gettoni” è ormai chiuso per almeno quattro anni».
All’alba del 23 luglio, all’età di 61 anni, si ferma il racconto sulla vita di Tomasi di Lampedusa, uomo indubbiamente taciturno e schivo, o meglio uno «straordinario solitario», adottando le parole di Gioacchino Lanza Tomasi, ma che si è sempre sentito un aristocratico, un «Gattopardo», benché lo irritassero i vizi dell’aristocrazia, che inesorabilmente ne avevano cagionato il declino, con l’impossibilità di svolgere un ruolo attivo nella società. Svanito il primato sociale ed economico della sua classe, rimaneva per Tomasi inderogabile «la qualità di una specialissima educazione, talmente speciale che poteva passare anche inavvertita davanti ad occhi ordinari, mentre doveva rivelarsi senza fallo a chi l’avesse ricevuta identica». L’animo aristocratico è una componente essenziale anche per capire «Il Gattopardo», un romanzo classico dallo stampo ottocentesco, ambientato all’epoca dello sbarco dei garibaldini in Sicilia, e nel quale si assiste al passaggio di consegne tra la nobiltà e la borghesia. Una disfatta cui non serve opporsi, e lo sa bene uno dei protagonisti, Don Fabrizio, principe di Salina, che attende la rovina della propria classe e della propria famiglia senza reagire: pur non amando il nuovo, sa che il vecchio non può sopravvivere e non intende muovere un dito per salvarlo. È qui sta il fascino e la contemporaneità del romanzo: nella rievocazione nostalgica di un mondo ormai morto e, riprendendo le parole di Alfonso Berardinelli, soprattutto nella constatazione che «ogni trasformazione rapida convive con un fondo di immobilità, con una resistenza oscura e spesso non dichiarata contro le novità e i mutamenti». Prosegue Berardinelli: «In moltissime società e culture, la modernizzazione si presenta, nello stesso tempo, come un fatto e come una recita. Spesso l’estetica del nuovo arriva prima della politica e dell’economia del nuovo. Non solo nella Sicilia e nell’Italia del 1860, le società cambiano anche per restare se stesse. Ci si adegua per non essere travolti».
Tomasi in questo appare profondamente moderno, nell’aver colto la difficoltà al cambiamento, che può essere estesa ai cittadini, ma anche alla classe dirigente italica, del nostro tempo.
Anche con la scomparsa del suo autore, l’avventura de «Il Gattopardo» prosegue. Passati otto mesi dalla morte del principe, il romanzo, infatti, giunge questa volta nelle mani di Bassani – allora direttore per Feltrinelli della collana “I contemporanei” – che lo ha ricevuto dalla figlia di Benedetto Croce cui a sua volta lo aveva consegnato un conoscente della vedova Tomasi.
«Dalla prima pagina mi sono reso conto di trovarmi di fronte all’opera di un vero scrittore. Andando avanti mi sono persuaso che il vero scrittore era anche un vero poeta» aveva scritto Bassani alla vedova, dando inizio al primo riconoscimento che ne anticipò la pubblicazione per Feltrinelli, avvenuta l’11 novembre del ’58.
Nonostante il successo immediato di vendite, il libro continuò a dividere i critici letterari: accanto a recensioni positive come quella entusiastica a firma di Carlo Bo, ve ne erano altre da Franco Fortini a Leonardo Sciascia che lo bollarono come un romanzo conservatore, e troppo tradizionale da un punto di vista stilistico. La polemica sul libro pare abbia toccato l’apice al premio Strega, cui è legato un aneddoto: sembra che Moravia, sostenitore di «Una vita violenta» di Pasolini abbia minacciato Soldati di non salutarlo più se avesse candidato al premio il romanzo di Lampedusa. Quanto ci sia di vero e quanto di leggendario non è dato saperlo; fatto sta che alla fine a presentarlo ci pensarono Ignazio Silone e Geno Pampaloni e nel luglio del ’59 il romanzo vinse il Premio Strega. E al successo del libro che nei primi tre anni raggiunse le 400.000 copie vendute si aggiunse anche quello della trasposizione cinematografica nel ‘62 ad opera di Luchino Visconti e con Claudia Cardinale e Alain Delon tra gli interpreti principali.
«Ancora una volta il destino era stato fedele all’uomo, che era schivo del clamore, del successo, della retorica: e glieli aveva risparmiati», con queste parole Pampaloni commentava l’enorme successo cui Tomasi non aveva potuto assistere.
(Articolo di Teresa Filomeno, pubblicato su Orizzonti n. 32, anno 2007)
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