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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

A scuola di scrittura con DACIA MARAINI: «Scrittura e lettura sono due facce della stessa medaglia. È impossibile scrivere se non si legge».

di Rivista Orizzonti

COME È NATO IL SUO INTERESSAMENTO PER I CORSI DI SCRITTURA CREATIVA?
«Ho cominciato per caso, perché una volta, negli anni ottanta, il figlio di Dario Fo, che ha una università in Umbria "Alcatraz", mi ha chiesto di fare un seminario. Io ero un po' titubante inizialmente, perché non l'avevo mai fatto. C'era anche Benni. E poi persone che venivano da tutta Italia. Ma questo seminario è andato talmente bene che tutti quelli che vi hanno partecipato mi hanno invitato poi a tenerne altri nelle loro città. Si è quindi come disseminata questa pratica dei corsi di scrittura.
Io non sono un'insegnante, però ho riflettuto molto sulla scrittura come problema, come qualcosa che tocca personalmente la mia vita, non come un problema astratto. È una questione con cui mi confronto continuamente: ho sviscerato le difficoltà della scrittura, il suo legame con la lettura. Proprio questo connubio ha fatto sì che fosse possibile uno scambio, che per me è andato molto bene. Da quel momento ho continuato».

SI PUÒ INSEGNARE A SCRIVERE?
«Questa è la prima cosa che ci si chiede ed è una domanda che mi hanno fatto in molti. Il mio parere a riguardo è che il talento non si insegna, c'è o non c'è, ed è parte di una capacità affabulatoria che alcune persone hanno e altre no. È come avere una bella voce. Se uno è stonato può fare poco, può migliorare, ma non può certo aspirare a diventare un cantante. Ma se uno che ha una bella voce, aggiunge al talento una pratica, una tecnica, può migliorare questa dote. Il talento non si può imparare, ma tutto ciò che accompagna il talento sì. Queste tecniche, una volta apprese, permettono di accorciare la strada. Certamente uno ci può arrivare seguendo altri percorsi, ma questi corsi aiutano a non fare certi errori che si commettono quando si comincia».

A QUESTO RIGUARDO LEI HA ANCHE PUBBLICATO UN LIBRO, «AMATA SCRITTURA». CE NE PARLA?
«Si tratta di un libro collettivo. Ho messo insieme tante voci di scrittori italiani. Mi interessava che non fosse presente solo il mio parere, ma anche quello di altre persone che lavorano con la scrittura. E, nonostante si tratti di persone diverse, il risultato che emerge è piuttosto omogeneo. Io ho interrogato per questo libro diversi autori. Ne cito alcuni: Tabucchi, Cerami, Loy... Questo, per quanto riguarda la parte dedicata ai pareri dei professionisti. C'è poi una parte del libro dedicata agli aspiranti scrittori, in cui si analizzano e commentano i testi da loro inviati.
In questo libro si analizzano temi particolari legati alla scrittura.
Tra i tanti temi che si affrontano c'è quello del perché si scrive. Molti scrivono per ragioni terapeutiche: si scrive perché si sta male, si scrive quando si hanno dei dolori. Molti tra quelli che mi inviavano manoscritti dicevano: “io ho cominciato a scrivere da quando è morta mia madre... ho perso mio marito...”. Quindi, ci sono tutta una serie di dolori che portano alla scrittura come conoscenza di sé».

UNO DEI TEMI PIÙ INTERESSANTI È SICURAMENTE QUELLO DELL'IMPORTANZA DELLA LETTURA.
«Scrittura e lettura sono due facce della stessa medaglia. È impossibile scrivere se non si legge: è come se uno volesse comporre musica senza conoscere a fondo tutta la musica e senza saper distinguere al volo i grandi musicisti. La lettura è essenziale. Per lettura intendo lo stare a mollo nei libri, conoscerli bene, esserne familiari al 100%. Leggere è un atto sensuale. Mi viene in mente un racconto di Italo Calvino, in cui un lettore appassionato preferisce la lettura di un libro al bacio di una ragazza. Al mare sulle rocce, il ragazzo sta leggendo un romanzo appassionante, mentre è steso al sole. Arriva una ragazza, fanno conoscenza, dopo un po' cominciano a baciarsi, ma l'occhio di lui corre da solo, anche contro la sua volontà, al libro aperto che gli sta di fianco, per continuare a seguire una storia affascinante. L'eccitazione sensuale provocata dal libro prevale su quella carnale. Naturalmente non è da proporre come modello (sorride, ndr), ma come esempio della forza seduttiva della lettura».

SI PUÒ EDUCARE ALLA LETTURA?
«Molti insegnanti, consapevoli di come sia importante comunicare il piacere della lettura già ai bambini, mi hanno chiesto consigli su cosa devono fare per raggiungere questo obiettivo. Io rispondo sempre che bisogna trasmettere il piacere e l'amore per la lettura, non dar loro l'idea che leggere sia un dovere. Non bisogna imporre nulla, perché è chiaro che se uno dice: "Devi leggere un libro! ", il ragazzino non lo farà mai o lo leggerà malvolentieri. Lo sentirà come un dovere e se ne libererà al più presto. Invece un buon modo per avvicinare alla lettura può essere il raccontare una storia. Se uno dice: "Ti racconto una storia di un libro che mi è piaciuta molto" e la racconta con passione, curiosità e interesse, quasi sempre riesce a comunicare questo sentimento di coinvolgimento alla lettura.
Non sempre però si crea un'empatia tra il libro e il lettore. A questo proposito riprendo le affermazioni di Pennac, con cui concordo perfettamente. Nel suo decalogo di tutti i diritti/doveri dei lettori, in un punto afferma che il lettore ha il diritto di abbandonare un libro, se avverte che non gli piace. Infatti, a volte subentra nel lettore un senso di colpa che lo spinge a pensare che, se un libro che è considerato importante non gli piace, la causa sta nel fatto che è una persona ignorante o stupida. Ma non è così.
Il libro è un incontro, anche se diverso dagli altri, perché è differito. Infatti, lo scrittore non è mai lì contemporaneamente al lettore, i due sono sempre separati. Però ciò non toglie che questo incontro possa suscitare dei sentimenti, proprio come quelli veri tra due persone. Può esserci simpatia e può scattare l'interesse, oppure può accadere esattamente l'opposto. Se non scatta questa scintilla
vuol dire semplicemente che l'incontro non è riuscito. Però l'incontro è a due, quindi ci deve essere da tutte e due le parti una disponibilità. Non vuol dire che se uno non ama un libro quel libro sia brutto, oppure che chi lo legge sia un imbecille».

IL COINVOLGIMENTO PUÒ VARIARE A SECONDA DELLA PORTATA DEL LIBRO?
«Certo, più è grande e profondo un libro, più riesce a far scattare un maggior numero di scintille. Ci sono dei libri che sono per poche persone, quindi questo incontro avviene tra pochi. Ci sono libri che agiscono con tale vigore che l’incontro avviene a più livelli. Ad esempio, se si prende in considerazione Boccaccio, ci accorgiamo che le sue opere possono essere lette a più livelli: da un ignorante che non ha mai letto nulla e si diverte perché è un libro che non è noioso, non è datato. Però può essere letto anche su un altro livello, quello critico e accademico. E poi può essere letto a un livello altissimo, dei grandi simboli e significati storici. I grandi libri hanno molte anime in sé, che finiscono per comunicare. Altri, invece, hanno un'anima più piccola, ma non per questo meno importante, e comunicano su un solo piano».

ESISTE LA PORNOGRAFIA IN LETTERATURA?
«Anche la pornografia è tra i temi affrontati nel libro. Per me la pornografia non sta nelle parole, non ci sono parole pornografiche, così come descrizioni pornografiche o corpi pornografici. La pornografia sta nel modo in cui si tratta un tema erotico, o sentimentale o un qualsiasi altro tema.
Roland Bach affermava infatti come il massimo della pornografia sia parlare della guerra. Infatti, la pornografia deriva dal rapporto che si stabilisce con la materia narrata e si ha quando il narratore tratta la materia narrata con disprezzo».

TRA I TEMI DI «AMATA SCRITTURA» TROVIAMO ANCHE QUELLO DEL CIBO, UN ARGOMENTO AMPIAMENTE E DETTAGLIATAMENTE TRATTATO NELLE SUE OPERE. PERCHÉ SI SOFFERMA TANTO SUL CIBO?
«Spesso mi hanno chiesto il perché di questo tema ricorrente nella mia scrittura. E io credo che questo mio interessamento al cibo sia una conseguenza della mia esperienza nel campo di concentramento.
Ho vissuto due anni in un campo di concentramento in Giappone. Ero una bambina, avevo sei anni, però la mancanza di cibo era talmente drammatica che io, assieme agli altri, non facevo altro che parlare di cibo. Dalla mattina alla sera. Tanto è vero che era diventata un'ossessione. Il cibo è diventato per me un mito, che poi ho trasferito nella letteratura: mi è rimasta l'emozione del desiderio che si è trasformata in un alone emotivo forte che si avverte nella mia scrittura. Io posso stare un quarto d'ora davanti alla vetrina a guardare dolci, pur non essendo affatto golosa. Ricordo che in quegli anni sognavo intensamente di mangiare il pane cotto nel latte e nello zucchero, che poi non è un dolce, ma era un piatto che mi preparava spesso mia madre ed era diventato per me un sogno. Poi per esempio io giocavo con le pietre. E le pietre nei miei giochi rappresentavano il cibo: quella più grande era il pane. Eravamo talmente affamati che mangiavamo tutto quello che ci capitava sotto mano: formiche, rospi, serpenti, rane... Ricordo che spesso dopo una pioggia crescevano dei funghi nel cortile del campo. Quello per noi era un motivo di gioia. Ma, non sapendo se erano buoni o meno, si tirava a sorte una persona del campo, che ne assaggiava un pezzettino. Se non stava male, noi altri li mangiavamo. Una volta ne erano cresciuti parecchi, uno di noi ne ha assaggiato un pezzettino e, dal momento che non gli era accaduto nulla, tutti abbiamo mangiato quei funghi. E siamo stati male, perché facevano effetto in ritardo, ma per fortuna senza conseguenze mortali».

MOLTO UTILI PER GLI SCRITTORI ESORDIENTI SONO LE INFORMAZIONI CHE RIGUARDANO LO «STILE». SI PUÒ FARE UNA DEFINIZIONE DELLO STILE?
«Roland Bach lo chiama "una verticalità carnale", che è una bella immagine. Qualcosa che sprofonda dentro di noi e che è parte della nostra carne. Egli riprende il discorso di Saussure, un grande linguista, di cui è famosa la distinzione tra "langue" e "parole". La "langue" è estesa a tutti, è generale e collettiva. Non possiamo non tenerne conto perché è una convenzione a cui ci riferiamo per comunicare con gli altri. La "parole", che invece va in verticale, è un rapporto personale, molto viscerale, con il linguaggio e con le parole. Ognuno ha il proprio rapporto con il linguaggio, ha un suo modo di rapportarsi alla lingua del suo tempo, che è un organismo vivente in continua trasformazione. Questi due segni, uno orizzontale e uno verticale, si incrociano. Quel punto di incrocio è il punto del nostro stile».

SEMPRE A QUESTO PROPOSITO, UNA SUA PREOCCUPAZIONE È QUELLA DI NON ADOPERARE LE PAROLE CHE A FORZA DI ESSERE UTILIZZATE HANNO PERSO VIGORE.
«Io avviso sempre di stare alla larga dai gerghi. Una volta, mentre scrivevo una sceneggiatura assieme a Margarethe Von Trotta, ho notato che lei usava spesso la parola "magico". Io allora le ho detto: "Guarda che non ha più senso usare questa parola", e lei mi ha chiesto il perché di questa mia affermazione. Le ho risposto che bastava guardarsi attorno per capirne il motivo: tutti i muri riportavano la scritta “Magica magica Roma”... Quella parola era troppo abusata, quindi era diventata quasi un gergo».

I GERGHI RAPPRESENTANO UN PERICOLO?
«I gerghi sono una scorciatoia, che i gruppi sociali si sono organizzati. Per esempio, se bisogna andare da A a Z, invece di fare una lunga strada, si prende una scorciatoia. Ci sono tanti gerghi per altrettanti gruppi sociali: c'è il gergo psicoanalitico, quello politico, quello sportivo, etc. Però mentre il gruppo sociale che utilizza un gergo conosce la strada che porta alla contrazione, chi ne è fuori ne orecchia la forma linguistica senza conoscerne il percorso. È come prendere in prestito una formula di cui non si conosce il significato. Bisogna usare le parole, le frasi, di cui si è completamente padroni, senza orecchiare. Spesso ci si serve di una formula gergale per snobismo, perché ci si sente più importanti, senza accorgersi che i gerghi sono come delle stampelle, che poi finiscono per impedire di camminare».

COME È CAMBIATA, NEGLI ANNI, LA CONCEZIONE DELLO STILE?
Lo stile è l'assieme dei tratti formali che caratterizzano il modo di esprimersi di una persona o il modo di scrivere di un autore. La scrittura antica era piena di codici letterari. Oggi siamo molto più liberi,però questa libertà, se da una parte allarga le possibilità di fare quello che si vuole, è pericolosa, perché è più facile cadere quando non ci sono delle guide. La volgarità, per esempio, è una caduta dello stile, dovuta a una mancanza di regole. Le regole sono necessarie, ci danno una struttura. Non devono necessariamente venire dall'alto, possiamo anche darcele noi, ma occorrono».

IN ALCUNI LIBRI LE REGOLE SONO PIÙ IMPORTANTI CHE IN ALTRI?
«Scrivere libri gialli implica più regole rispetto agli altri libri. Le regole del poliziesco servono per la costruzione dell'enigma. Il primo grande romanzo “giallo” è “L’Edipo re”, che aveva per enigma il fatto che ci fosse la peste e bisognasse trovarne il colpevole. Gli antichi credevano
infatti che la manifestazione di malattie fosse dovuta a una "colpa". Lo sviluppo della trama poi ci presenta il personaggio di Tiresia, un indovino, che si presenta al re per spiegargli il motivo della peste. Tiresia accusa il re di essere lui la causa di questa situazione. Lo avvisa che ha commesso due reati: ha ucciso il padre e si è coricato con la madre. Il re, non credendogli e frastornato da simili
affermazioni, lo manda via in malo modo. Però nella testa di Edipo da questo momento si insinua questo tarlo. Comincia a pensare e ripensare, a ricostruire le varie testimonianze fino a giungere alla conclusione che le parole dell'indovino erano vere. Nel momento in cui lo scopre, sappiamo poi come va a finire: che Edipo si acceca.
Io ho fatto l'esempio di un “giallo” molto lontano dal modo in cui viene inteso oggi, ma comunque in generale il “giallo” è basato sulla ricerca, su un enigma da risolvere. Oggi le trame presentano un morto, di cui bisogna scoprire l'assassino. In base ad una serie di teorie ci si avvicina a dei possibili colpevoli. Nell'andamento della trama possono esserci variazioni: dato il morto, il lettore già conosce chi è l'assassino ma non lo sa ancora l'investigatore; oppure l'investigatore sa chi è ma il lettore no; oppure l'omicidio può avvenire alla fine anziché all'inizio del libro.

LEI HA SCRITTO ANCHE LIBRI «GIALLI». COME HA AFFRONTATO IL RAPPORTO CON LE REGOLE?
«Quando ho scritto "Voci" mi sono trovata a combattere con le regole, ma poi ne ho compreso l'importanza. Nel momento in cui le ho accettate, ho scoperto una grande libertà all'interno delle stesse. In effetti, le regole pongono dei limiti, dentro i quali però si può scavare molto. Questa è la dimostrazione che, a saperle utilizzare, non sono limitative».

SPESSO SI SCRIVONO LIBRI GIALLI, PRENDENDO SPUNTO DAI FATTI DI CRONACA.
«Sì, è vero. Io due volte ho scritto libri gialli tratti da fatti di cronaca. Uno è "Isolina ", un caso di cronaca del 1901, di una ragazza fatta a pezzi. Ho ricostruito la vicenda attraverso i giornali dell'epoca, si è trattato di un lavoro di ricerca prevalentemente giornalistico: non ho inventato nulla.
Al contrario, in “Voci” il fatto di cronaca è stato lo spunto per avviare una trama completamente inventata. Mi sono ispirata alla vicenda della Cesaroni. Della storia vera ho preso il fatto che fosse stata ammazzata con 24 coltellate, senza che la porta fosse stata forzata e che fossero state trovate queste scarpette da tennis ben allineate vicino alla porta. Queste scarpette hanno colpito la mia immaginazione. Tutto il resto è interamente inventato da me.
Il libro tratta la storia di una giornalista radiofonica, che va in giro col registratore a tracolla raccogliendo, appunto, voci. Tornando una sera a casa, scopre che la sua vicina di pianerottolo è stata uccisa a coltellate, senza che la porta di casa fosse stata forzata. Allora lei comincia a chiedersi chi fosse veramente questa vicina, che ogni tanto incontrava in ascensore, ma di cui non sapeva nulla di rilevante. Contemporaneamente il direttore della radio, per cui lei lavora, le affida un'indagine: deve occuparsi di tutti i casi di delitti in cui le donne hanno aperto la porta ai propri assassini. Così inizia a raccogliere materiale su questi fatti, continuando a occuparsi della vicenda della sua vicina. Alla fine, proprio raccogliendo queste voci, arriverà a scoprire chi è l'assassino».

PER COSTRUIRE UN GIALLO FA PRIMA UNA SPECIE DI SCHEMA?
«No. In "Voci" sono partita da un'idea molto vaga. Fino all'ultimo istante (ho impiegato tre anni per scrivere il libro) non sapevo chi era l'assassino, perché lo volevo scoprire attraverso il personaggio».

CHE TIPO DI RAPPORTO SI STABILISCE TRA AUTORE E PERSONAGGI?
«Io ho imparato, scrivendo, che bisogna essere umili con i personaggi: bisogna interrogarli, ascoltarli, e non considerarli delle marionette, a cui si tira il filo e si fa fare un giro, per poi abbandonarle. Non sono dei pezzi di stoffa, ma esseri viventi, misteriosi, che sfuggono persino all'autore. Come un figlio che viene fuori dalla nostra carne però poi si sviluppa a modo suo, i personaggi sono autonomi e sviluppano una propria personalità.
A me è successo di entrare in conflitto con i personaggi perché, avendo un'idea complessiva del romanzo come un direttore d'orchestra, credevo che il personaggio dovesse essere in un certo modo per non rovinare l'armonia del romanzo. Così ho imposto qualcosa al personaggio, scoprendo in seguito che era lui ad aver ragione. Il personaggio porta con sé le stimmate di un destino, che si sviluppa a modo suo e che non sempre ti è completamente chiaro nel suo sviluppo».

SPESSO PERÒ SI SVILUPPA UNA CONFLITTUALITÀ INSANABILE TRA AUTORE E PERSONAGGIO.
«Su questo argomento ho scritto un libro "Cercando Emma ", che è uno studio del rapporto che ha Flaubert con i suoi personaggi, in particolare con quello principale, che è "Madame Bovary ". La spinta a scrivere questo libro mi è venuta dalla curiosità di capire perché lui mostrasse tanta crudeltà verso questo personaggio, pur amandolo e ammirandolo. La sua crudeltà si manifesta soprattutto nell'ultima parte del libro: ben tre capitoli dedicati alla descrizione della morte di Emma. Tanto è vero che Henry James, il noto scrittore americano, ha scritto un saggio su Flaubert, chiedendosi perché lui infierisca violentemente contro Madame Bovary, che dice tanto di amare. Cercando di rispondere a questa domanda, ho letto tanto, anche le lettere che hanno accompagnato la fattura di questo libro. Ho scoperto così che aveva un rapporto molto conflittuale con questo personaggio, che vendicava la sua autonomia, ma che Flaubert voleva piegare secondo le sue esigenze. E lui ha proiettato su Madame Bovary alcuni aspetti del suo carattere che detestava. Se ne è liberato proiettandoli sul personaggio, però poi ha continuato a odiarli attraverso il personaggio. Per esempio per quanto riguarda l'esotismo di Madame Bovary, che lui considerava di pessimo gusto, ma che condannava prima di tutto in se stesso. Infatti, quando era giovane sognava di andare in Egitto. Ma, allora, partire era più difficoltoso rispetto a oggi: bisognava prendere una nave e stare fuori per un paio di anni. Flaubert sognava di andare a conoscere una famosa prostituta, di cui parlavano tutti i grandi viaggiatori. Alla fine partì con un suo amico. Per prima cosa andò a trovare questa prostituta, una donna nera ed elegante, e contrasse la sifilide. Quando, due anni dopo,
ritornò in Francia, non fu riconosciuto nemmeno dalla madre, tanto era cambiato. La sifilide gli aveva causato la perdita dei capelli, dei denti. In più lo aveva reso grasso e per finire zoppicava ad una gamba. Quindi, lui detestava l'esotismo prima di tutto in se stesso, poiché ne era vittima.
Flaubert fa il contrario della Chiesa. Essa condanna il peccato, ma assolve il peccatore: si condanna l'adulterio, però poi se l'adultero va a confessarsi viene assolto. Al contrario, Flaubert assolve il peccato (infatti afferma che, nella Francia dell'800, una donna sposata a quel modo non poteva che sfociare, avendo un po' di fantasia, nell'adulterio: quindi, ammette l'adulterio - ed è per questo che il libro è stato accusato di oscenità e processato), ma condanna Madame Bovary.

IN UNA INTERVISTA RILASCIATA AL NOSTRO GIORNALE, LO SCRITTORE ALBERTO BEVILACQUA HA DICHIARATO CHE «OGGI, IN ITALIA, NON ESISTE PIÙ UNA SOCIETÀ LETTERARIA UNITA, ESISTE INVECE UNA GRANDISSIMA SOLITUDINE».
LEI CONCORDA CON QUESTA AFFERMAZIONE?
«Gli scrittori a volte si incontrano su alcuni temi, ma adesso in Italia stiamo attraversando un periodo in cui ognuno fa per sé: persino i luoghi di incontro sono spariti. Io mi ricordo che proprio in questa zona qui, Piazza del Popolo, negli anni 60/70, uno poteva sedersi da Rosati e dopo un po' vedeva arrivare Fellini, Moravia, Flaiano, Guttuso... C'era tutto un mondo d'artisti che ruotava attorno a questa zona. Io li vedevo con grande ammirazione e mi ricordo bene la Magnani. La chiamavano per strada: "Nannarella". C’era un circolare di personaggi conosciuti e questo si è perduto completamente. Non c'è un locale, un bar, un ristorante dove si incontrano gli artisti. Io incontro gli artisti ai festival, in televisione. Non ci sono più nemmeno i salotti. Luisa Spagnoli, morta in modo misterioso, teneva un salotto in via Po e invitava pittori, musicisti, scrittori e gente di cinema. C'era questo scambio anche tra artisti di ambiti diversi, che oggi non c'è più. La televisione ha distrutto tutto».

CI SONO OGGI DEGLI SPAZI ALTERNATIVI DOVE LA CULTURA PUÒ SVILUPPARSI?
«Il modo di vivere la cultura è cambiato. Mancano le piazze. Ma non riguarda solo gli scrittori. La gente dove si incontra? Internet sta tentando di sostituire le piazze mettendo direttamente in contatto le persone. Molte persone passano ore a fare conoscenza tramite internet. Ma questo una volta si faceva fisicamente andando in una piazza, in un bar. È tutto un po' virtuale, si preferisce stare a casa. Questo è un male generale che appartiene alla società attuale. L'aggregazione è un bisogno da cui non si può prescindere».

CI PARLA DELLA SUA ESPERIENZA DI TRADUTTRICE?
«Ho tradotto abbastanza dall'inglese e dal francese. L'esperienza più difficile per me è stata tradurre Conrad. Perché Conrad era un polacco e lui ha cambiato lingua già adulto. Quindi ha assorbito una lingua nuova dopo i vent'anni, una lingua che gli era estranea. Il suo rapporto con la lingua inglese era quello di un visitatore. È uno scrittore geniale, anche gli inglesi ammettono che la sua lingua è meravigliosa. Però si sente qualcosa di strano, un po' diverso dall'inglese classico e io questo non lo sapevo finché non ho iniziato a tradurre. Di lui ho tradotto un breve romanzo "Secret sharer". Tra l'altro la parola "sharer"è intraducibile perché significa “Il qualcuno con cui si divide qualcosa", ma in italiano non c'è un corrispettivo. Non è "compagno ", anche se è stato tradotto così, ma non da me. Io ho semplicemente ripreso il titolo.

QUALI ALTRE DIFFICOLTÀ HA INCONTRATO NEL TRADURRE DALLA LINGUA INGLESE?
«Le metafore sono difficilissime da riportare. Devi trasferirle in un'altra lingua con dei significati e dei suoni diversi. È un lavoro enorme. Poi ci sono le forme idiomatiche, che appartengono solo a una lingua come ad esempio la frase: "questo è un altro paio di maniche", che se le traduci letteralmente non hanno significato».

QUALE DOTE SI RICHIEDE AD UN BRAVO TRADUTTORE?
«Ci sono vari livelli di traduzioni: c'è quella letterale, e poi la traduzione vera, che è quella della letteratura, che è difficilissima. In questo secondo caso, si tratta di riscrivere: bisogna conoscere molto bene la propria lingua, prima ancora di quella straniera. Ad esempio, io conoscevo due traduttori inglesi, marito e moglie, che lavoravano assieme. Anche "Marianna Ucrìa" è stato tradotto da loro. Lui non conosceva l'italiano, però scriveva molto bene nella sua lingua; lei conosceva bene l'italiano. Lavorando assieme i risultati finali erano ottimi. Quello che contava era che lui sapesse scrivere bene in inglese, fosse uno scrittore. Infatti, non è tanto la conoscenza di una lingua straniera, ma il sapere talmente bene la propria lingua da renderla comunicativa, quello che si chiede al traduttore».

QUANTO È VALORIZZATO IL CONTRIBUTO DEL TRADUTTORE?
«Poco, molto poco. I traduttori non sono ripagati per tutto il loro lavoro. Sono pagati poco, sono poco riconosciuti e spesso quando si fa la critica di un libro si omette il loro nome.
Io darei la percentuale sui diritti d'autore al traduttore. Infatti, bisogna considerare anche che, se un libro va bene, il traduttore non ne ha nessun beneficio. Questo è un problema presente in tutte le nazioni. Ad esempio, poco tempo fa, sono stata in Romania. Ho incontrato la traduttrice di "Marianna Ucria " che mi ha confessato di non aver preso neanche una lira per tutto il lavoro svolto. Io le ho anticipato dei soldi, perché mi sembrava davvero orribile. Ancor peggio è la condizione di chi traduce poesia... Spesso le traduzioni si pagano a pagina: allora il povero poeta, che traduce una poesia e viene pagato a pagina, è ancor più sottopagato. Perché per tradurre una poesia si possono impiegare anche giorni e giorni. Immaginate la fatica!»

QUANTO TEMPO IMPIEGA PER SCRIVERE UN ROMANZO?
«Io non impiego mai meno di tre anni per un romanzo. Mentre un testo teatrale, un saggio, un racconto, posso scriverli anche in un paio di mesi».

HA UN METODO BEN PRECISO QUANDO SI DEDICA ALLA SCRITTURA?
«La mia tecnica è quella di fare una struttura rozza e poi di lavorarci su. Scrivo e riscrivo, finché non sono convinta che la cosa ha preso una sua forma definitiva. Poi ho bisogno anche di lasciarlo riposare certi periodi, di non pensarci, per riprenderlo in mano dopo qualche mese e rileggerlo con occhi nuovi, come se non lo conoscessi. E lì allora mi vengono delle suggestioni nuove.
Per "Marianna Ucria", che è un romanzo storico, ci ho messo cinque anni, perché lì c'è stato anche il lavoro di documentazione che è stato molto faticoso. Le notizie che cercavo non potevo trovarle nei libri di storia, anche se si trattava di cose semplici, come il costo di un chilo di pane, il sapere che scarpe indossavano, che libri leggevano, che bevande usavano, che gioielli mettevano ... I cibi che mangiavano non sono quelli di oggi e quindi sono andata a vedere come cucinavano».

E DOVE HA TROVATO LE NOTIZIE CHE LE OCCORREVANO?
«Ho tratto le informazioni che mi servivano da vari documenti: diari, testamenti. In più molto utile è stato il lavoro svolto da uno scrittore di cronache, il Marchese di Villabianca, vissuto a Palermo nella prima metà del Settecento. Quest'uomo aveva l'abitudine di raccogliere ogni giorno le notizie del suo tempo in un quadernone enorme. Annotava dettagli della vita quotidiana: da come era imbastito un banchetto, al tipo di carrozze che si usavano, ecc. Tutte notizie che allora erano considerate insignificanti e infatti passava per un tipo bizzarro, un pazzo. Lo chiamavano "Lu pazzu”. E alla sua morte, infatti, si pensò di bruciare questi scritti, che poi fortunatamente sono stati conservati. Oggi tutti studiano questi documenti, specie gli studiosi di sociologia, di antropologia. E anche io ho preso moltissimo da queste annotazioni, che per me si sono rivelate preziosissime».

MA L'IDEA DI SCRIVERE QUESTO ROMANZO DA DOVE L'HA AVUTA?
«Da una visita ad una villa dove io avevo abitato per qualche anno da bambina. Una villa del '700, bellissima, ma ormai completamente distrutta e abbandonata. Lì ho visto questo grande quadro, due metri per due, in cui era raffigurata una donna vissuta nella prima metà del Settecento. Si trattava della principessa Alliata. Di fronte a questo quadro c'era un altro ritratto, della stessa grandezza, di un uomo orribile tutto vestito di rosso: era il marito. Incuriosita ho iniziato a scrivere alcune notizie su di un foglietto: questa donna era sordomuta ed era stata sposata allo zio a dodici anni. E poi ho cercato notizie più dettagliate su di lei, ma non ho trovato nulla, perché non era considerata importante. Infatti, ho trovato anche un libro sulla vita della famiglia Alliata, ma in esso erano riportate solo notizie su uomini che erano stati importanti e avevano fatto grandi cose, sulle donne pochissimo: e su Marianna nulla. E quindi ho inventato questa storia che mi è venuta fuori, pirandellianamente, ascoltando il personaggio. Io non sapevo cosa avrei scritto di lei. Sapevo che era sordomuta, che era vissuta nella prima metà del Settecento in quella bella villa. E basta».

SONO BASTATI COSI POCHI ELEMENTI PER SCATENARE QUESTA CURIOSITÀ DI CAPIRE COSA C'ERA SOTTO?
«Evidentemente qualcosa mi toccava da vicino: il suo mutismo, la sua passione per i libri, il fatto che avesse imparato a leggere e a scrivere. La scrittura è un tema importante per me. In molti miei libri la scrittura rappresenta un elemento di emancipazione. Per una donna è una grande conquista di libertà. Anche nei testi teatrali, come "Isabella Morra " e "Veronica Franco" ho parlato di donne che conquistano la libertà attraverso la scrittura e la lettura. Quindi è un tema che mi sta a cuore e non è una cosa che mi è venuta per caso: evidentemente c'è sempre una ragione profonda che spinge a scrivere un romanzo. Anche se questo libro non era un mio progetto ed è venuto un po' fuori dal solco».

HA RICONOSCIUTO IL SUO LIBRO NELLA TRASPOSIZIONE CINEMATOGRAFICA DI ROBERTO FAENZA?
«Io non penso che il film sia un'illustrazione del libro. Il cinema ha un suo linguaggio e delle sue regole. Un film è una interpretazione di un libro, non il suo trasferimento in immagini. Perché se si ha questa opinione, si rimane sempre delusi. E infatti anche questo film è molto diverso dal libro. Però è un film nobile, cioè non pensato per essere commerciale, che ha una fedeltà di fondo alle ragioni essenziali del libro, che sono: lo sguardo di simpatia e di attenzione verso Marianna, verso il mondo che le sta attorno, la sua vicinanza alla scrittura, ai libri. Queste sono cose che, devo ammettere, ha restituito abbastanza bene. Ma è un film bello a prescindere dalla fedeltà».

CHE CONSIGLI SI SENTE DI DARE AGLI ASPIRANTI SCRITTORI? CONVIENE INVIARE MANOSCRITTI ALLE CASE EDITRICI?
«Alle case editrici arrivano migliaia e migliaia di manoscritti, di conseguenza i tempi sono molto lunghi. Però posso garantire che ogni casa editrice che si rispetti ha dei lettori pagati abbastanza bene, che fanno questo a tempo pieno. La Rizzoli ha una decina di lettori, per esempio.
Però, non consiglierei di impantanarsi nel rapporto frustrante con l'editore, che è un rapporto verticale che quasi mai riesce. Io invece suggerirei di costituire una piccola società letteraria, come ad esempio una rivista, per confrontarsi con altri aspiranti scrittori. Una rivista ti costringe a pensare in termini di progetto letterario, a capire qual è il tuo indirizzo letterario, a tradurre e scegliere i testi. Anche per capire il proprio lavoro letterario, anziché aspettare questa risposta dell'editore che non arriva mai, la rivista ti permette di avere immediatamente un riscontro, facendo circolare il racconto pubblicato.
Per me la rivista è stata la più grande scuola ed infatti a diciotto anni ne ho fondata una, "Tempo di letteratura", con altri giovani scrittori, tutti sconosciuti. All'epoca in cui ho aperto questa rivista, bisognava per forza stampare e ricorrere ad una tipografia. I costi per mantenere in vita il giornale erano più elevati e infatti la rivista è durata un anno o poco più, perché non c'erano più ì soldi. Poi le riviste vendono poco: quando hai raggiunto le 1.000 copie è già tanto. Ma oggi con i computer si possono fare riviste a costi bassi.
Poi un altro consiglio è quello di cominciare dai racconti e non dai romanzi. Dai racconti si può notare in che cosa si è più capaci e si può iniziare a lavorare su quello».

QUAL È IL SUO PARERE SUL PROLIFERARE DELLE CASE EDITRICI INDIPENDENTI?
«Le piccole case editrici che si mettono a competere con i grandi editori sono la testimonianza di una fatica immensa, ma anche di una grande sfida».

(Articolo di Alma Daddario, pubblicato su Orizzonti n. 17)

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