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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

A colloquio con Erri De Luca

di Rivista Orizzonti



«Io mi sono trovato in compagnia della scrittura perché è stato il modo in cui mi sono meglio aggiustato la solitudine»



Nella scrittura di Erri De Luca si snoda la sua vicenda autobiografica, attraverso racconti che recuperano l’oralità, intesa come arte del narrare, e accorciano le distanze tra la parola parlata e quella scritta, pur mantenendo un linguaggio puntuale e scabro, e al tempo stesso fortemente lirico e teso a trasmettere storia e conoscenza.
Spezzando il continuum delle esperienze di vita, De Luca riveste di luce e di valore alcuni scorci per farne racconti, dove sono proprio i ricordi e la rivisitazione degli stessi ad alimentare ogni pagina.
Dalle storie delle scalate in montagna, a quelle da attivista nella sinistra giovanile (“Il contrario di uno”) ai romanzi di formazione, con il passaggio dall’adolescenza all’età adulta (“Non ora, non qui”; “Tu, mio”; “Montedidio”) fino a giungere ai lavori come studioso autodidatta dell’ebraico antico e della lingua yiddish, Erri De Luca si muove tra campi diversissimi e separati, ma che sembrano avere in comune il recupero di una memoria, personale e collettiva insieme.

Lei ha iniziato a scrivere giovanissimo e la sua propensione alla scrittura è stata in qualche modo incoraggiata dalla sua famiglia. Ce ne parla?
«Ho incominciato a tenermi in compagnia con la scrittura fin da ragazzo perché i libri erano là, facevano parte dell’arredamento, della tappezzeria, nella stanza in cui sono cresciuto. Quindi ho avuto una dimestichezza con questa materia prima, la carta dei libri, che appartiene all’ambiente di famiglia della mia infanzia napoletana, e poi ho cominciato a scrivere anche delle storie.
Io mi sono trovato in compagnia della scrittura perché è stato il modo in cui mi sono meglio aggiustato la solitudine».

Anche suo padre aveva l’attitudine per la scrittura.
«Sì, più da giovane. È un gioco che ha ripreso poi da vecchio, scrivendo delle storie molto romanzesche, piene di errori di battitura perché non vedeva bene».

Leggendo i suoi libri, si avverte il bisogno di marcare una differenza, quasi con discrezione. Si evince un io narrante volutamente in disparte.
«La scrittura, che prescrive una distanza rispetto agli altri e anche al tempo che si sta raccontando, di per sé è una buona stanza di isolamento, che si può procurare anche per poco tempo: non bisogna avere a disposizione delle ore, bastano anche i minuti!»

«Mi torna alla mente il passato con parvenza di intero, per un bisogno di appartenenza a qualcosa, che stasera mi spinge verso di esso, verso una provenienza» (“Non ora, non qui”)
La memoria può essere fissata una volta per tutte, dando l’idea di unità all’individuo oppure è un inganno?
«Quando si costruisce e si scrive una storia che è capitata, che appartiene al passato – perché io non invento storie – ecco che la memoria è molto più varia e vasta, mentre la scrittura è piccola, perché sceglie, in mezzo alla memoria, una sua porzione e una sua versione dei fatti. È una riduzione che poi, una volta che è stata scritta, diventa definitiva. Ecco la scrittura fa questo: dà un formato definitivo a una memoria che invece poteva essere, fino a prima della scrittura, con molte varianti, con molte possibilità».

“Riduzione” è il termine che utilizza spesso anche per indicare il passaggio dall’età dell’adolescenza all’età adulta. È un tema che ricorre spesso nei suoi libri, perché le è tanto caro?
«Non so se mi è caro, come non può essere cara una mutilazione. Il diventare adulti rappresenta una riduzione, una mutilazione, di tutte le possibilità che ci sono in un’adolescenza, e ancora prima in un’infanzia. Un bambino, un ragazzo, può diventare tutto ed è ricco di folla dentro di sé. Può immaginare molto suoi futuri e abitarli tutti, finché non se ne compie uno soltanto – magari quello che non ha nemmeno previsto o scelto. Dunque da tutte le sue personalità poi è costretto a ridursi a una sola, a rispondere di sé con un solo nome, un solo cognome».

Cesare Pavese affermava che ogni artista ha una tematica principale che si esplicita in ogni argomento trattato. Lei a livello consapevole, quale si riconosce?
«Io scrivo tutte storie, allora i posti sono vari così come le tematiche. Da una parte Napoli per quel che riguarda la mia infanzia, la mia adolescenza a Ischia, le estati al mare. Poi c’è il tempo della mia stagione politica, in cui sono stato un militante della sinistra rivoluzionaria italiana e lì le storie appartengono a quella tensione, a quella temperatura. Ci sono ancora le mie storie di montagna che ritornano spesso, e inoltre i resoconti di lettore dell’antico testamento. Ci sono quattro o cinque cantoni».

Che considera comunque separati…
«Separati, sì. Sono i limiti del mio campo».

Per quanto riguarda il suo lavoro di traduzione dall’ebraico antico, c’è un’attenzione da parte sua a non staccarsi troppo dal significato originario, per non correre il rischio di privarlo di una chiave di lettura che la fedeltà comunque rende meglio.
«La fedeltà è sempre redditizia, ti rimborsa sempre».

L’attenzione alla fedeltà è presente anche nei suoi libri di narrativa, dove lei si avvale di un linguaggio che rende ciò che scrive ancora più autentico. E si percepisce che è generoso nel concedersi ai lettori e a parlare si sé, della sua vita.
«Le cose che scrivo sono orali. Tutti i miei racconti sono dei racconti a voce, le mie frasi non sono più lunghe della voce, del fiato che ci vuole a pronunciarle: passano prima dentro l’acustica. Parlano della mia vita perché è quella che conosco, e poi non mi sento di inventare storie.
Non sono uno che deve decidere prima di scrivere e che pretende di inventare un personaggio o inventare svolgimenti. Mi avvalgo dello svolgimento della vita».

Tranne che in alcuni casi, come in “Montedidio”, dove ad esempio troviamo il bel personaggio di Rafaniello.
«Fa parte della letteratura yiddish, di questa immensità di letteratura non tradotta alla quale sono riuscito ad accedere studiando quella lingua – la lingua degli ebrei d’Europa, che sono stati cancellati negli anni del nazismo».

Più volte ha parlato dell’analogia tra il popolo napoletano e quello yiddish. Nella resa del personaggio di Rafaniello (molto apprezzato anche in Israele dove “Montedidio” è stato anche primo nella classifica dei libri più venduti, ndr) quanto è stato agevolato dalla similitudine tra i due popoli?
«Ci sono dei punti di contatto, che hanno spiegato magari a me stesso perché gli yiddish mi stavano così simpatici. Sia la lingua napoletana che quella yiddish sono prevalentemente orali, anche se poi sono state anche scritte e dunque letterarie. Sono lingue buone per essere spiccicate alla spesa nel mercato, nei rapporti tra le persone, in famiglia. Sono lingue affettuose, piene di diminuitivi, di vezzeggiativi, e lingue brevi appunto: hanno queste parole tronche che finiscono accentate sull’ultima, come tutte le lingue che vanno di fretta.
E poi sia Napoli che i ghetti sono stati sempre sovrappopolati. Napoli aveva la più alta densità abitativa d’Europa e questo comportava dei tic, come quello della gesticolazione frenetica, che non ha niente di pittoresco ma serve solo a spingere le parole in mezzo alla calca e al rumore degli altri, ad accompagnarle e fargli largo.
Inoltre queste due culture hanno in comune anche una grande passione per il teatro; la Varsavia ebraica era piena di teatri, come Napoli, gremita di teatri e teatrini.
E poi, come tutti i popoli molto fitti, c’è da parte di entrambe un accanimento estremo con la superstizione. Ecco, forse lo yiddish è più superstizioso del napoletano».

Lei ha affermato di apprezzare sia la compagnia che il tempo in solitudine. La solitudine è la condizione ideale per essere circondati da pensieri e quindi per scrivere.
«Beh, sì. Per scrivere, ma anche per leggere, bisogna procurarsi una distanza, una separazione, un isolamento. Si può scrivere e leggere anche dentro un treno, dentro un autobus affollato, però c’è bisogno comunque, anche in mezzo agli altri, di procurarsi un isolamento».

Ma lei ha assaporato l’amarezza della solitudine forzata?
«Forse la solitudine mi è pesata un po’ da ragazzo, però poi dopo mi ci sono trovato bene. Diciamo che mi ci sono sempre tenuto una buona compagnia. Non soffro di solitudine».

«Siamo due, il contrario di uno e ella sua solitudine sufficiente» (“Il contrario di uno”)
«Chi è solo è meno di uno»

Il “due” è una metafora dell’amore?
«Perché una metafora? È una formula d’amore».

Potrebbe essere anche il numero “uno”, nel senso di tendere all’unità, una formula d’amore?
«Uno non c’entra niente con l’amore, l’amore è scambio. Due è un numero che non tende a niente, vuole essere due e basta, non vuole essere tre e non vuole essere uno, non vuole diventare plurale. Due è un numero a parte. Lo sapevano i greci e gli ebrei che hanno fornito a due un plurale separato, il duale».

Come si svolge la sua giornata di scrittura?
«È breve. Mi alzo molto presto e, dopo aver fatto le mie letture nelle lingue che frequento la mattina (ebraico antico, yiddish, ndr) mi metto a scrivere – se ho da scrivere qualcosa».

Ultimamente sta scrivendo qualcosa?
«Sto aggiungendo delle pagine a un libro di poesie che pubblicherò per Einaudi».

Nelle poesie preferisce la forma prosaica.
«Poco lirica, più materica».

Perché è più autentica, arriva di più al lettore, rispetto ad una poesia ermetica?
«La poesia ermetica deve essere perlomeno squisita dal punto di vista sonoro».

Sempre in tema di poesia, ci parla dello spettacolo sul Don Chisciotte che sta rappresentando a teatro?
«Ormai è il quarto anni che facciamo delle serate con il nostro Chisciotte e gli invincibili (e non “invisibili”, come ogni tanto trovo scritto».

Gli invincibili, appunto, che, come si evince dallo spettacolo, sono colore che nonostante le ripetute sconfitte non si abbattono.
«Don Chisciotte è sempre lì in piedi, pronto a battersi di nuovo. È proprio il modello, l’eroe massimo di questa categoria, perché è uno che si butta nella mischia in quanto si sente investito di una missione, mentre più spesso le persone sono costrette a battersi perché non possono fare altro, perché ne va della loro vita. Penso ad esempio alle persone che stanno intorno alla discarica di Pianura, che si battono per la loro vita, per non accumulare altro veleno nei loro paraggi. Ci sono delle persone che diventano invincibili per necessità, mentre don Chisciotte è il prototipo dei volontari. E noi lo raccontiamo. Prendendo in esame il corso del tempo più vicino a noi, le guerre e le prigionie dove ci sono degli invincibili, raccontiamo e cantiamo di figure che noi consideriamo iscritte al suo albo: i chisciottini».

Lei vive in campagna, ma si sposta spesso in varie città.
«Proprio tra qualche giorno dovrò fare un’altra gironzolata».

Quali sono le differenze che riscontra tra la vita in città e quella in campagna?
«La vita in città non la posso fare più. Ho preso il vizio di non avere nessuno intorno, né in testa, né al piano di sopra, né al piano di sotto e né di fianco (sorride, ndr). E poi quando vado in città, qualunque città sia, tranne Napoli che è ben servita dal vento e dal maestrale, mi cominciano a lacrimare gli occhi. Avverto un’aggressione chimica immediata. Il mio fisico si è viziato e ne risente, e quindi cerco di sfilarmela il più presto possibile».

«Rompevo il giocattolo: non per la insignificante curiosità di vedere cosa ci fosse dentro, come fosse fatto, ma per vedere l’attimo in cui era di colpo disfatto, prima di perdersi nell’indistinto dei suoi pezzi» (“Non ora, non qui”). La vita ha un senso in quanto finita?
«Quando è finita ha un senso completo, c’è una chiusura che permette di intenderla».

E per lei cos’è l’eternità?
«Le montagne. Le montagne sono l’eternità».

E la noia?
«Mai saputo».

Lei si è sempre dichiarato non credente ma c’è stato un momento della sua vita in cui ha avuto delle perplessità circa l’esistenza di Dio.
«Io continuamente ho dei dubbi. Frequento le divinità per iscritto tutti i giorni, sono uno che quotidianamente ha a che fare con quella scrittura, e con quella notizia; e rimango non credente.»

Lo considera un dato definitivo il fatto di essere non credente?
«Lo considero un fatto provvisorio, come tutto quello che mi succede».

I momenti di crisi nell’esistenza, di cui pure parla nei suoi libri – soprattutto negli anni successivi alla partecipazione alle lotte giovanili – secondo lei rappresentano una risorsa nell’esperienza individuale oppure sono soltanto una manifestazione di dolore a cui noi arbitrariamente attribuiamo un senso.
«Tutto il dolore che superi è un’aggiunta alla qualità di una vita. Volgarmente si può dire: tutto quello che non ti ammazza ti ingrassa».

In “Non ora, non qui” (romanzo d’esordio, ndr) il referente è sua madre, a cui può parlare liberamente, anche con quelle parole che non le ha mai detto. La letteratura può servire da terapia?
«Mai. La letteratura non può servire da terapia, quando serve da terapia è da buttare. La letteratura serve da compagnia.
Se uno scrive per stare meglio, farebbe bene poi a buttare tutto. Nessun libro mi ha fatto passare dei malanni; certe volte me li ha potuti approfondire, gli ha dato dei nomi, ma non me li ha certo curati, salvati».

C’è un libro a cui è maggiormente legato?
«No, sono slegato da quelli che ho scritto e sono legato solo a quelli che sto scrivendo. In questo momento ad uno».

Le capita rileggendo i suoi libri di sentire una certa distanza.
«Non li leggo, però qualche volta mi capita che qualcuno mi chieda di leggerne una pagina, in pubblico magari, e allora lì mi accorgo che io comunque quella pagina meglio di così non l’avrei saputa scrivere e dunque non mi sento distante, slegato sicuramente perché non mi riguarda più, ma mi sento in pace con la mia coscienza».

Tra gli scrittori contemporanei ce n’è qualcuno che predilige?
«Mi piace molto Mauro Corona».
In Italia ci sono pochi lettori che è un dato che contrasta col numero sempre maggiore di aspiranti scrittori. Si è dato una spiegazione di questo fenomeno singolare?
«Non mi sembra che ci siano pochi lettori. Credo che siano aumentati tant’è che aumentano le librerie, e le grandi catene di librerie che si rivolgono a molti lettori. Penso ad esempio a Feltrinelli».

C’è anche molta letteratura straniera e i libri più venduti sono traduzioni di libri stranieri.
«La nostra è una piccola lingua, parlata solamente da noi, dunque abbiamo bisogno di tradurre.
Siamo dei bravi traduttori, così come siamo dei bravi doppiatori di cinema dove prendiamo tanto anche dal cinema degli altri, come succede alle piccole lingue».

Un consiglio ad un aspirante scrittore?
«Imparare un’altra lingua».


(Articolo di Caterina Aletti, pubblicato su Orizzonti n. 33)

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