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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

VITO PANDOLFI, ANTESIGNANO DELL’AVANGUARDIA TEATRALE ITALIANA

di Rivista Orizzonti

“All’adorabile Paola
il bistrattato Vito;
a Paola
fiamma delle mie notti,
luce
del suo
Vito.”

La dedica alla moglie, Paola Faloja, che sposò dopo 10 anni di rapporto (solo nel 1970), è scritta a penna nel libro "Regia e registi nel teatro Moderno" (ed. Universale Cappelli - serie teatro - n. 59 del 1973), conservato affettuosamente dal figlio nella sua libreria privata. La dedica evidenzia l’esclusivo amore per Paola, che darà a Vito Pandolfi il suo unico figlio, Libero, nato a Roma il 26 luglio 1971.
Paola viveva con i genitori in via Sistina 118 e Vito in via Giulia, vicino Palazzo Farnese. Quando rimase incinta, Vito la portò a casa di Jole Pandolfi, figlia di suo fratello Luciano, e con la luce dei suoi occhi chiari le annunciò l’attesa del suo unico genito.
Ma prima di proseguire con la biografia di Pandolfi, è necessario, per comprendere appieno il contesto in cui operò, attraversare i luoghi della memoria, raccoglierne le testimonianze, passando attraverso un groviglio di esistenze che hanno segnato la Cultura Italiana, non solo teatrale.

La piccola chiesa di Santa Cecilia situata in via Vittoria 6, sconsacrata, e consacrata all’arte teatrale verso la fine del 1910, è ancora lì. La Règia Scuola di Recitazione dedicata ad Eleonora Duse con sede nella chiesa, attigua al Conservatorio di Santa Cecilia, ebbe il professore Silvio D’Amico (nato a Roma il 3 febbraio 1887) come insegnante di Storia del teatro, a metà degli anni 20. D’Amico è stato inoltre critico drammatico di varie realtà giornalistiche tra le quali "L’Idea Nazionale", "Tribuna", "Giornale d’Italia", "Il Tempo" (dove scrisse dal 1945 fino alla morte a Roma avvenuta l’1 aprile 1955).
Il decreto legge che, sopprimendo la Règia Scuola di Recitazione “Eleonora Duse” di Roma, istituiva la nuova Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, è del 4 ottobre 1935, XIII dell’Era Fascista. Tra gli allievi del professore D’Amico e di Franco Liberati c’erano stati Anna Magnani, Paolo Stoppa, Sergio Tofano, Achille Fiocco, Gastone Bosio, Antonio Crast, Ave Ninchi, Orazio Costa Giovangigli.
Dal teatrino di via Vittoria - che rimarrà, a tutt’oggi, il piccolo teatro studio dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, il teatro delle prove e dei saggi importanti (si ricordi "Una partita a scacchi" di Thomas Middleton, a cura di Luca Ronconi, il 20 dicembre 1973, con costumi e scene di Pier Luigi Pizzi) si passa al periodo nel villino di piazza della Croce Rossa e qui si incontrano gli attori ed i registi che segneranno la scena drammatica dei successivi quarant’anni. È qui che si forgeranno Vittorio Gassman, Vito Pandolfi, Adolfo Celi, Luigi Squarzina, Nora Ricci - nipote del grande Ermete Zacconi -, Lea Padovani, Nino Manfredi, Mario Scaccia, Rossella Falk, Bice Valori, Monica Vitti e tantissimi altri che, con l’interpretare ed il dirigere, hanno risvegliato la cultura ed i sentimenti negli animi del sopito popolo italiano. Hanno tutti poco più di venti anni, in un momento storico assolutamente tragico.

Vito Pandolfi (Forte dei Marmi, 24 dicembre 1917 - Roma, 20 marzo 1974) viene ammesso in Accademia come allievo regista nell’anno scolastico 1940/1941.

1941.
Due biciclette, in una fresca serata di giugno, da via Milazzo - dove in un appartamento era in affitto Vito - vanno verso il Foro Mussolini. Le pedalate sono piene di energia ed arrivano in anticipo rispetto al previsto, si fermano al giardinetto pubblico sotto l’obelisco Dux. Delle mani posano l’involucro con la bomba fatta in casa seguendo le regole del manuale Hoepli e, poco dopo, la deflagrazione. Solo qualche scalfittura all’obelisco, nulla più!

Uno dei due ciclisti era, per l’appunto, il ventiquattrenne Vito Pandolfi, critico d’arte già noto, ed il più apprezzato tra gli allievi registi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica.
Dopo l’8 settembre finì in carcere; ma non per la bomba del Foro Mussolini, della quale la polizia dell’epoca ignorò gli autori, piuttosto per un’altra, più riuscita e memorabile, che aveva fatto letteralmente esplodere sul palcoscenico del Teatro Argentina allestendo, nel febbraio del 1943, l’"Opera dello straccione" di John Gay. Precedentemente, Vito Pandolfi si era già distinto in altre regie. La prima era stata "Pulcinella delle tre spose" - rifatta da lui stesso e rappresentata nel Teatro Studio “Eleonora Duse” per solo due sere, il 28 e il 29 giugno 1941, con Carlo Mazzarella protagonista. Mettendo in scena questo primo saggio dedicato alla Commedia dell’Arte, sulla quale intensificò i suoi interessi, aveva lavorato contemporaneamente nella regia del "Re Cervo". Il suo spirito reazionario impose truccature sgraziate, in antitesi con lo stile dell’opera, introdusse una danza macabra con un teschio danzante e impose una recitazione altamente forzata. L’esperimento comunque piacque e si parlò per la prima volta di nuova avanguardia teatrale.
Nel 1942, come suo secondo saggio d’Accademia, presentò "La danza della morte", trasposizione di testi da Santa Teresa d’Avila ad Ernest Hemingway, con cambi di scena realizzati, per la prima volta, con effetti di luce e tipiche macchine teatrali a vista. Il 29 giugno del 1943, mette in scena "La vita è sogno" di Calderon della Barca, rappresentato nella Sala Borromini.
Ma lo spettacolo più scatenato, il più colto, e il più cripticamente, ma consapevolmente, politicizzato è per l’appunto "L’Opera dello straccione", rappresentato al Teatro Argentina l’11 febbraio 1943, nella versione di Riccardo Aragno, con musiche di Roman Vlad e scenografia di Toti Scialoja. Tant’è che viene menzionato nel minuzioso e informatissimo catalogo dell’antifascismo giovanile, "Lungo viaggio attraverso il fascismo", scritto da Ruggero Zangrandi ed edito da Feltrinelli nel 1962.
Lo spettacolo teatrale con la regia di Vito Pandolfi (antesignano dei vari Giancarlo Nanni, Sepe, Valentino Orfeo, Pippo Di Marca, Giuliano Vasilicò, Ugo Margio, Agostino Marfella, e così via…) presentava particolari che non sono riportati dai critici dell’epoca (come le scritte e gli aforismi “Liberty is delicious”, “tra ricchi non ci si impicchi”, “tutti i nodi vengono alla gola”). Tra questi, anche il fatto che Carlo Mazzarella, nella parte di Gionata Catena, interpretava così bene la parodia del Dux da provocare applausi a scena aperta.
La sapiente regia critica e colta di Vito Pandolfi aveva fatto sì che si trasferisse la vicenda dai bassifondi criminali della Londra del Settecento a quello che appariva lo scenario italiano equivoco del dopoguerra. Imprimendo a tutta la storia un’aria piratesca, aveva tuttavia lasciata più o meno inalterata la storia: il bandito Peachum (Manlio Busoni) consegna a Gionata Catena (Carlo Mazzarella) lo sbirro Mac, detto il bel pirata (Vittorio Gassman, applauditissimo anche per una atletica lotta con Testa di Pietra, interpretato da Silverio Blasi). Ma la figlia di Gionata Catena, Lucy (Silvana Sierra), innamorata come tutte di Mac, lo lascia scappare. Peachum lo riacchiappa, sta per impiccarlo, quando arriva la grazia. Il tutto è recitato in una sorprendente congerie di diversi materiali artistici, che Luciano Salce e Vittorio Gassman inventariarono così: «… in una babelica confusione di gusti, di teorie, di sacro e di laico, v’erano canzoni, danze antiche e musiche scozzesi - ma dopo un trattamento diatonale - tanghi e cake-walks del dopoguerra francese, il gusto preciso dell’espressionismo tedesco e del balletto russo, versi di Apollinaire e la retorica dell’apache e dei bas-fonds, l’umorismo era macabro e surreale, la tragedia alternata all’operetta, duelli pirateschi terrificanti risolti con una risata, tutto in chiave sorpresa-ritmo-pantomima-colpodiscena-imprevedibilità e spirito di contraddizione». Con tutti questi elementi eterogenei - frutto di un gusto del pastiche, alimentato dalle già numerose e composite letture - Vito Pandolfi evidentemente lanciava messaggi più o meno in codice alla platea del Teatro Argentina, dov’era riunita buona parte dell’intelligenza romana. I critici lodarono lo spettacolo e gli attori ma mostrarono di non accorgersi che, spostando l’opera di John Gay a quegli imprecisati anni venti, si arrivava proprio al nocciolo delle origini del fascismo italiano, e vennero tacciati di essere una compagnia di banditi, servi del capitalismo italiano, un capitalismo “straccione” per di più. Il solo Giorgio Prosperi, pur riconoscendo al regista Vito Pandolfi le sue qualità artistiche, si chiese “cosa sarebbe successo se, al posto di avere in platea la quintessenza di una cultura predisposta, o almeno avvezza ai cibi drogati (intesi come “cibi” culturali altamente raffinati), vi fosse stato del semplice popolo”. Per Prosperi, adombrare il regime in quel “baraccone di periferia” e scatenare quella sorta di “sarabanda di ragazzi terribili attorno ad un cadavere” in un momento come quello, era immorale. Per gli attori «fu una vittoria di squadra, la prima forse, cumulativa, al punto che, lo squallore seguito a quella densissima nottata conclusasi con una storica sbronza in casa del pittore Toti Scialoja, apparve naturale spossatezza dopo uno sforzo di considerevole portata». Fu uno sprazzo di fronda, un lampo di qualcosa che già molti pensavano e s’erano detti, ma solo in conversazioni molto private, lontano da orecchie indiscrete. Mazzarella pensò bene di non dormire a casa per un po’.

Vito Pandolfi, denunciato e arrestato otto mesi dopo, stava per rivivere sulla sua pelle il dramma familiare che aveva respirato fin da piccolo, quando la mamma, Ada Provera, per le sue idee fermamente socialiste, venne mandata al confino dal regime fascista. Vito, durante un interrogatorio a Palazzo Braschi, riuscì a vedere qualche nome da una “lista nera” di ebrei e antifascisti. Rientrato in cella - dalla finestra ammirava piazza Navona con le sue belle fontane - tentò la fuga. Saltò; il cornicione di stucco si sbriciolò e cadde a terra tramortito, rovinando tutto il lato destro del suo corpo. Una fruttivendola di passaggio lo caricò sul suo carrettino e lo trasportò all’ospedale dove rimase piantonato ma riuscì comunque a passare parola, salvando molti dall’arresto. Dopo tre mesi fu dimesso e liberato.
«… l’eroica avventura del mio Vito Pandolfi che m’addolori è naturale - commentò sul suo diario Silvio D’Amico, a sua volta imprigionato negli stessi giorni -; ma dirò che anche mi consola e mi dà animo. Risuscita con più vigore che mai le mie ostinate speranze nel nostro domani, che vedo e mi auguro migliore. Il quale non potrà essere se non l’opera di una minoranza giovane: quella che si va manifestando come la sola atta a prendere il posto della generazione fallita; quella che dovrà ricominciare tutto, assolutamente tutto, daccapo».

Vito Pandolfi è critico teatrale del quotidiano romano "L’Unità" dal 1944 al 1947. Dal 1946 al 1963 si occupa della fattibilità di un Teatro Stabile di Roma, che vede la sua inaugurazione solo nel 1964, dove è nominato direttore fino al 1969, anno nel quale defezionò la direzione, lasciando in attivo le casse del Teatro stesso. Nell’anno scolastico 1961/62 è libero docente di Storia del teatro e dello spettacolo, insieme a Giorgio Bassani, ma il suo nome non appare tra i docenti per non creare conflitto d’interesse con il nuovo ruolo assunto quale Direttore di un Teatro Stabile della Capitale d’Italia, presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” (da una testimonianza di Ruggero Jacobbi). Insegnò Storia del teatro all’Università di Genova dal 1964 fino all’anno della sua scomparsa. Fu critico teatrale per quotidiani e riviste specializzate, tra cui "L’Unità", "Il Politecnico", "Sipario", "Teatro Oggi" e diresse gli "Annali di Storia del Teatro e dello Spettacolo".
Ha dedicato al teatro studi quali "La commedia dell’arte" (1956); "Il teatro drammatico dalle origini ai nostri giorni" (1959), in cui si mette in relazione l’evoluzione del teatro con quella della società; "Teatro tedesco espressionista" (1956), "Teatro del dopo-guerra italiano" (1956), "Teatro contemporaneo italiano" (1959), "Teatro siciliano: introduzione critica" (1961), "Storia universale del teatro drammatico" (1964), "Teatro borghese dell’Ottocento" (1967), "Regia e registi nel teatro moderno" (1973); al cinema: "Il film nella storia" (1956); alle tradizioni popolari: "Copioni da quattro soldi" (1960).
Ha dato al cinema la sua consulenza di studioso della commedia dell’arte per "La carrozza d’oro" di Renoir (1952) interpretato da Anna Magnani. Sempre nel 1952 è assistente alla regia di Mario Costa in "Perdonami", nel quale è anche attore. Nel 1962, antesignano di Ermanno Olmi e dei fratelli Taviani, Vito Pandolfi ha diretto il film a soggetto "Gli ultimi"; tratto dal racconto autobiografico di padre David Maria Turoldo, "Io non ero un fanciullo", e girato interamente a Coderno (Udine), con gli abitanti come attori. Il film racconta la vita di una famiglia di poveri all’inizio degli anni 30; protagonista è il piccolo Checo con la sua infelicità di bambino, che, in quanto diverso dagli altri per intelligenza, sensibilità e fantasia, è sbeffeggiato dai coetanei, che lo chiamano “lo spaventapasseri”, ed incompreso dagli adulti. Al centro vi è il ritratto del mondo contadino, che la nascente civiltà industriale pone in secondo piano, e la proiezione di una solitudine individuale sullo sfondo di una solitudine collettiva.
Il sodalizio di Turoldo, frate scomodo, con Pandolfi, intellettuale laico e marxista, non fu visto di buon occhio dalle autorità ecclesiastiche, che esclusero il film dal circuito delle sale da loro controllate. Del film, cui contribuisce il suggestivo bianconero di Armando Nannuzzi, esistono copie con due finali diversi.
Nel 1965 è il regista di un lungometraggio documentario di carattere sociologico, finanziato dalla Provincia di Latina, dal titolo "Latina ’65 l’arco del tempo" dove Paola Faloja è stata il suo aiuto regista.
Nel 1972, due anni prima della sua dipartita, è attore nel film "La grande avventura di Scaramouche" di Piero Pienotti. Ecco il cast in ordine alfabetico: Franco Fantasia, Grit Freyberg, Adler Gray, Christian Hay, Franco Mazzieri, Renato Navarrini, Ivana Novak, Vito Pandolfi, Virgilio Ponti, Gerardo Scala.


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