| Domanda - In Italia non è possibile esporre le proprie idee, perché sia dalla parte politica che dai critici c’è l’ossessione dell’omologazione per avere, sempre e comunque, un controllo sociale.
«Certo. Questo fa parte della deformazione professionale dei mass-media, quindi è molto più semplice il catalogare, che non invece dedicare il giusto tempo e la giusta considerazione ad ogni singolo cervello e ad ogni singola posizione. Si cerca di avvicinare il più possibile il cervello dell’artista a quello di categorie già preesistenti, tenendo conto sempre della preminenza, per esempio, della politica o delle ideologie rispetto al cervello che prendono in considerazione; cioè oggi, in realtà, il punto di riferimento di questa società è il villaggio globale, quindi una sorta di politica di informazione diversa, come se ci fosse una struttura che sovrintenda al nostro vivere collettivo, e tutti ci dobbiamo verificare in questa rete come una grande ragnatela in cui si rimane un po’ avvinghiati, quasi stritolati, e chiunque cerchi di sfuggire sperimenta che la ragnatela è sempre più grande, fino a quando prima o poi ci capiterai anche te».
Domanda - Allora quanto è importante per un artista la legittimazione politica, per una legittimazione artistica? In Italia chi la pensa in modo diverso dagli altri tende ad essere criminalizzato.
«Beh, sì. O diventa un mostro nel senso di “monstrum”, per cui prendiamo il caso di Sgarbi, singoli personaggi che sono più forti e riescono a strumentalizzare loro stessi questa ragnatela, quindi diventare ragni, tranne poi alla fine esser anche loro ringoiati dalla ragnatela. Tranne poche eccezioni questo è l’andazzo».
Ma quanto è importante la legittimazione politica per la legittimazione artistica?
«Mah, questo è valutabile, nel senso che poi bisogna fare i conti sempre con la realtà, quindi con il pubblico; per esempio per uno scrittore la legittimazione politica può essere più importante che per un cantautore, perché da parte del cantautore ci sono più armi, c’è un rapporto, comunque, che è sempre diretto. E quindi, attraverso la sua voce, i suoi contenuti, la sua musica, può arrivare a centinaia di migliaia di persone, tranquillamente, anche non mediato. Però, naturalmente, per la costruzione della credibilità, diciamo che l’informazione sia essa di stampa che televisiva o radiofonica è decisiva per poi avere questa legittimazione. Perché può succedere che tu puoi vendere milioni di dischi e non essere legittimato; Orietta Berti quando cominciò negli anni 60 vendeva tanti dischi che però non pesavano quanto i dischi venduti da me o da De Gregari, o da Guccini».
LA FORMAZIONE
Domanda - Quali sono le tappe fondamentali della tua formazione artistica, sia da un punto di vista musicale che letterario?
«Io sono di una generazione in cui hanno confluito un sacco di culture, sia musicali che letterarie: da quella americana, da Kerouac a Ferlinghetti a Ginsberg, ma anche quella francese e canadese, quindi veramente all’incrocio delle due culture americane e francesi.
Invece quando sono nato musicalmente, facevo canzoni in dialetto romanesco, però il dialetto degli studenti, quindi un linguaggio anche non capito, né dagli accademici né dal popolo, era una specie di slang alla romana che mi ha dato grandi soddisfazioni nel senso che riuscivo a fare una canzone popolare ma nello stesso tempo colta perché c’era un linguaggio fatto anche di molti neologismi, per esempio io ho veramente inventato la parola “fico”, la stessa “Roma capoccia” non esiste in lingua e neanche in romano. “Capoccia” in romano e qualcos’altro, io invece l’ho usato quasi in una traduzione di “Caput Mundi”».
Domanda - Ogni periodo ha il suo linguaggio per comunicare.
«Però non è che sono stato molto capito in quel periodo, nonostante questo, quello che veniva fuori era una canzone nuova, una canzone popolare di origine, ballate di lavoro, di protesta, con un linguaggio da studenti. E la gente anche se non capiva, capiva, come un po’ succedeva per noi quando sentivamo Dilan, che anche se non capivamo a fondo i suoi testi, riuscivamo a percepire l’importanza del messaggio».
Domanda - Oltre a Dilan cosa ascoltavi?
«In quei tempi sono stato all’Isola di White, ero un viaggiatore per musica e quindi ho visto i Beatles a Roma, i Rolling Stones a Roma, Jimi Hendrix all’Isola di White; ho visto tutto».
Domanda - E di musicisti attuali, sia stranieri che Italiani?
«La mia generazione è fortunata perché ha vissuto l’inizio del rock e l’inizio di tutta la canzone d’autore del dopoguerra. Forse noi siamo i più completi, quelli che hanno un’età simile alla mia, che va dai 45 ai 54-55, sono i più fortunati perché hanno la capacità di scelta, anche di critica, perché hanno vissuto tutto, hanno sentito tutto. E quindi, da una parte sono più responsabili, perché il grado di originalità viene sempre a scemare, e sei forte di un’esperienza. Quando io sentivo Kurt Cobain che riconosco essere stato uno degli ultimi geni, mio rendo conto però che io ho vissuto i Doors e Jimi Hendrix, faccio immediatamente dei riferimenti, quindi per me niente è originale, è lo sviluppo di quello che c’è stato negli anni 70».
LA RELIGIONE
Domanda - Per quel che riguarda il tuo rapporto con la religione, nella tua produzione artistica, non hai sentito che l’arte poteva avvicinarti alla verità o a Dio? C’è un bellissimo film dei fratelli Taviani, Il sole anche di notte, dove il tema portante è: “Ho paura che chi cerca Dio non lo trovi, ma chi cerca la verità, forse, trova Dio".
Questo che tipo di riscontro può avere con la tua esperienza professionale?
«Molto. Perché, volenti o nolenti, ci si sbatte sempre con questa realtà. Io credo che ci sia veramente un pezzetto di sovrannaturale in chi crea, e quindi l’avvicinamento anche se non consapevole a qualcosa di immanente che comunque è presente dentro la nostra coscienza e qualche volta è sopra di noi, qualche volta è dentro di noi. E ogni volta che noi riusciamo a prendere un pezzettino che ci possa legare a qualche cosa di eterno, di universale, si sente. Ma anche in versione sociale».
Domanda - Dio non solo nella ricerca dell’assoluto, ma anche nell’atto legato al quotidiano?
«L’atto quotidiano, ma soprattutto, per tutti noi. Nel senso che quando parlo di paradiso, in chiave personale, come salvazione di coscienza personale, dall’altra parte come giustizia sociale. Io non credo nell’inferno, proprio perché o la coscienza di Dio salva tutti, in quanto ha pietà di noi come esseri umani, oppure non salva nessuno. O tutti all’inferno o tutti in paradiso. Non so come potrei essere contento io di salvarmi, quando so che poi, magari, c’è tutta un’umanità che non si salva? Comunque, è vincere il concetto della solitudine, invece di avere un’affermazione di carattere umano è tutta l’umanità che si deve salvare».
Domanda - È una visione molto Junghiana della dinamica esistenziale.
«Ma sì. Perché non potrei godere sapendo che c’è qualcuno che non c’è riuscito. La stessa cosa è quando uno parla di felicità oggi, e come si può essere felici sapendo che ci sono milioni di bambini che muoiono di fame e atrocità in tutto il mondo. È chiaro che lo scontro quotidiano con quello che succede ogni giorno nel mondo ti porta ad una angoscia latente, ad un sentimento di impotenza anche se tu poi effettivamente stai molto meglio di quella parte del mondo».
Domanda - E questo sentimento pervade anche le tue canzoni.
«Nelle mie canzoni io ho sempre avuto questo sentimento religioso della vita e anche della giustizia. Quindi, i temi fondamentali delle mie canzoni dei primi anni erano proprio questi, una giustizia laica applicata ad una mia educazione del tutto cattolica. E non dando le necessarie risposte, il mondo cattolico, negli anni 60, alle istanze rivoluzionarie, in senso positivo, dei giovani di allora, c’è stato tutto uno spostamento dell’area cattolica che poi ha portato, in qualche caso, a degenerazioni globali.
Perché se tu analizzi anche il terrorismo della fine degli anni 70, sono tutte frange più o meno cattoliche che per delusione, non avendo avuto giustizia, si sono poi sempre di più estremizzate ed hanno portato a grandi episodi di violenza proprio perché non c’erano le risposte».
L’EVOLUZIONE ARTISTICA.
Domanda - Da un punto di vista tuo personale, dopo tanti anni, al di là della acquisita capacità linguistica e formale, qual è la tua evoluzione artistica, sia nel testo che nelle musiche?
«Ancora non l’ho capito. E fortunatamente non l’ho capito.»
Domanda - Non c’è un progetto.
«Non c’è progetto, tant’è vero che io mi trovo sempre come una persona che sta su una zattera sul mare ad aspettare il vento. L’ispirazione è la molla, se non c’è l’ispirazione è meglio il silenzio».
LA MUSICA E GLI SPAZI
Domanda - Le scuole come il Cet (Centro Europeo di Toscolano) di Mogol servono da un punto di vista artistico e di formazione?
«Il talento è la prima cosa. Naturalmente il talento va sviluppato, più cose ci sono per tirarle fuori, per renderlo evidente, più va bene. C’è sempre il rischio di bollare delle situazioni oppure di esaltarle, in realtà poi alla fine serve il talento. Non servono a niente se non ci sono i talenti, invece servono a qualcosa se ci sono i talenti che frequentano poi questo tipo di scuola. Ognuno poi si costruisce la sua scuola, alla fine, è lui stesso la scuola».
Domanda - Hai mai avuto l’esigenza di creartene una tua?
«Mai. Nel senso che ho un gruppo di lavoro, però è un laboratorio che non va all’esterno, si sviluppa al nostro interno».
Negli ultimi anni solo due trasmissioni televisive dedicate interamente alla musica: Doc e Roxybar.
«Il problema principale di Doc era quello di essere abbastanza frammentario, si spaziava dal pop al rock, al blues, alle nuove tendenze, senza però il tempo di far capire alla gente. Era un bello spettacolo ma un grande carrozzone, e dorsale era questo che voleva Arbore. Quello di Red Ronny, invece, è un discorso un pochino più approfondito, per cui ci sono delle interviste, si cerca di entrare dentro alle persone, alle teste che hanno creato quella musica. Io credo che se ce ne fossero di più si creerebbe confusione. Poi oltretutto queste trasmissioni erano quotidiane, per cui pensa quanto materiale puoi sentire, alla fine dell’anno trovi veramente mille gruppi. Secondo me nel mondo non è che ci siano proprio mille persone degne di essere ascoltate, è come gli stranieri nel calcio ci sono dieci campioni e poi tutto il resto».
IL RAPPORTO CON LA CITTÀ DI ROMA
«È un rapporto che per il momento si è un attimo raffreddato, non so per quale ragione, forse l’età, forse un po’ di pigrizia anche da parte mia di non proporre cose eclatanti o piccole, quindi di girare per la città a proporre musica, a proporre appuntamenti, etc. Però non è detto che non si possa più fare.
Io adesso sto preparando un grande progetto perché può essere svolto sia in grandi spazi che piccoli, e quindi l’idea di andare io verso la città, mi piace di più forse di un grande concerto, nel senso che la città poi viene da me.
Io credo che oggi bisogna ricominciare a seminare all’interno dei quartieri, andare nelle realtà, questo per quello che riguarda me; poi a livello politico è chiaro che è il contrario, il fatto di speriferizzare la periferia, portare la periferia al centro, mentre nell’arte credo che per il momento sia l’ora di ritornare nei posti, andare a casa della gente».
LE COLLABORAZIONI ARTISTICHE
Domanda - Hai mai inserito nei tuoi dischi pezzi scritti da altri?
«No, tranne il lungo periodo con De Gregori, dove praticamente eravamo una persona sola, nel senso che facevamo tutto quattro mani, poi non mi è più capitato».
Domanda - Lo faresti?
«Non lo so, perché è come dire ad un pittore facciamo un quadro insieme, è difficile che poi venga bene,m anche perché il testo è l’anima della canzone, parte sempre da un’idea. Perderei la voglia e la gioia di scrivere».
IL FESTIVAL DI SANREMO
Domanda - Vedi il Festival di Sanremo?
«Sanremo lo si vede, si dovrebbe sentire Sanremo.
Oggi ha ancora un senso, oltre a quello puramente commerciale?
L’importante è che poi non ci si limiti a Sanremo, che il nostro gusto non abbia come termometro Sanremo, perché lì siamo fuori.
La verità è in tutti gli altri giorni tranne quella settimana di Sanremo che ci obbliga a dare una voce a qualcosa che non avrebbe senso, se non fosse Sanremo.
È un po’ come dire c’è un torneo di calcio per giocatori… chi lo sa…»
Domanda - Disoccupati?
«Disoccupati, o una cosa di questo genere, per cui tu per una settimana dai importanza a quei calciatori poi ricomincia il campionato e vedi i Savicevic, vedi i grandi campioni e dici: “Ma quelli là chi erano?”.
Secondo0 me serve solamente a tirar fuori delle nuove proposte, e qualche volta ci si riesce.
Però proprio quelli a cui Sanremo ha dato i natali, dopo lo ripudiano come qualcosa di deplorevole.
Sanremo è un mezzo per arrivare al pubblico, quindi una volta ottenuto il pubblico e il consenso del mercato uno dice: “Che ci vado a fare!”».
(Articolo di Giuseppe Aletti, pubblicato su Orizzonti n. 7)
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