| Di Lina Wertmuller, regista ormai celebrata e storicizzata nei manuali cinematografici come autrice di paradossali “grotteschi”, di maschere umane eccessive seppur geniali fino a tracimare nel delirio compulsivo e ossessivo, ispiratrice di barocchi melodrammi di un’umanità furibonda e febbrilmente “sopra le righe”; della Wertmuller dicevo, che in questa sua poetica si riconosce ed è riconosciuta, oggi invece diremo altrimenti. Altrimenti cosa? Parleremo invece del suo esordio (1963) con una storia, ma che dico, una cronaca invece, una cronaca disperata e malinconica di “vitelloni” intrappolati nella più sperduta provincia del più profondo sud. Vitelloni senza voli di fantasia felliniana e senza le follie di quegli eroi, sfacendati e poetici, nelle maglie dei loro giorni perduti. Sì, giorni perduti, come direbbe Billy Wilder, ma più grigi e senza le coloriture clownesche del grande riminese; giovanotti, studenti fuori corso, tra l’eterna sigaretta (“tenissi ‘nu muzzone?” - hai da fumare?” - è l’eterno intercalare del bravissimo e rimpianto Stefano Satta Flores) e l’ossessione sessuale ingigantita dalla tetra repressione provinciale. Scusate se mi sono dilungato: parlo naturalmente de “I basilischi”, tenero e spietato quadro di un entroterra meridionale (Basilicata?) senza domani e senza speranza, quadro dipinto coi grigi e i mezzitoni struggenti di un rinunciatario crepuscolarismo da antologia poetica. Gesta e desideri di squallidi eroi, fatalmente sconfitti da una sonnolenza e una fatalità millenarie, nella comoda culla di chi da sempre lascia che tutto vada come è sempre andato. E la fuga (temporanea) di un giovanotto verso la fatata metropoli è solo l’illusione di una parentesi vitalistica, un fuoco che presto si cheta e si spegne nella palude di quel nido divorante di torpore, abitudini e piccoli privilegi di un pugno di irrimediabili perdenti, di piccoli borghesi presuntuosi della loro piccola cultura da studenti fuori corso, disprezzando i “cafoni”, le anime semplici ed elementari che vivono realisticamente la loro vita limitata, senza sogni e chimere. E di sogni e pretese i nostri eroi vivono, consumando l’eterna sigaretta scroccata e i soldi di papà, in attesa di accasarsi con la dote della scialba donnetta a cui sono destinati. Non sentite odore di Cecov e dei suoi buffi, disperati eroi? - Tutto vero; non so oggi, ma allora era così (fine anni ’50) e il clima di una quieta e disperata chiusura, provincia negletta e abbandonata al suo tempo antico, era proprio quello. Ne sono stato testimone. Esordio intenso, poetico, sapiente di una Wertmuller liricamente ispirata, di lì a poco agitata dai furori di “feuilletons” sanguigni e paradossali. Un miracolo di trasparenze e allusioni non più ripetuto.
(Articolo di Luigi M. Bruno, pubblicato su Orizzonti n. 37)
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