| Il 15 luglio 2010 a Milano, nell’ambito della rassegna “Da vicino nessuno è normale”, Pacifico si è esibito in una lettura del suo monologo teatrale “Boxe a Milano - Ricostruzione di Agostino Sella, mite e disperato”, un’anticipazione del nuovo progetto di musica-teatro con cui il cantautore milanese sarà in tour dall’autunno. Oltre a questa lettura milanese, che si è svolta presso l’ex Ospedale psichiatrico Paolo Pini, “Boxe a Milano” è stato presentato a settembre nel cartellone del Festival della Letteratura di Mantova. Si è trattato di una delle uniche anticipazioni di questo testo prima dell’allestimento teatrale vero e proprio iniziato ad ottobre.
Ascoltando l’ultimo album di Pacifico “Dentro ogni casa” (2009) e assistendo al monologo teatrale, vengono in mente i primi quadri di Enzo Mari dipinti nel 1952. Spazi interni che si sviluppano secondo prospettive esasperate in ogni direzione; in profondità, a destra, a sinistra, sopra, sotto… I piani bianchi, neri, grigi, alludono alla percentuale di luce e ombra. Mari, allora colpito dalla percezione ambigua dei volumi interni, ne indaga le ragioni; si rende conto che la visione dell’ambiente reale è piuttosto ambigua: «Il rapporto dinamico tra luce ed ombre ne modifica la percezione con sottili interpretazioni simboliche».
Il protagonista di “Boxe a Milano” è Agostino Sella, un uomo sulla quarantina, ex pugile di tenui speranze e silenziosa tenacia. La perdita di memoria, a seguito del coinvolgimento in una rissa violenta, lo rende prezioso e apparentemente acritico ascoltatore, il magazzino nel quale si ritira a vivere dopo l’incidente diviene una sorta di “confessionale laico” per tutti i vicini che incuriositi vanno a trovarlo. Ognuno svela il proprio lato in ombra a partire dalla vista degli arredi della casa di Agostino che operano dei veri e propri déjà vu del vissuto.
L’opera presentata da Pacifico è a metà strada tra letteratura e, per certi versi, filosofia. Si affronta il tema del dolore (di Agostino, ma non solo), posto in relazione alla dimensione del silenzio e al ricordo. Il dolore è letto all’interno di un vuoto, di un’assenza di presenza, un incavo del Tempo, una incapacità a tessere le fila degli eventi, del vissuto che solo il ricordo in quanto tale può compiere. È anche una riflessione sulla realtà che nel ricordo diventa “fatto” e certo si può alterare vivendola in modo virtuale (Cina), facendola balzare (Alba, la depressa) o divertendosi a frammentarla, a creare in essa dis-equilibri (il Sarto) o, come il padre di Agostino, patirla per poi lasciare che una volta sommersi da essa, si possa “poieticamente” ri-costruire.
È quasi impossibile, a questo proposito, non operare un parallelismo con Paul Valéry (1871-1945) che con le sue opere in versi e in prosa ha reso testimonianza del potere conoscitivo della letteratura nella dimensione mentale della realtà. Nel discorso inaugurale del corso di “Poetica” presso il Collége de France del ’37 scriveva: «(Con) Il termine Poetica (...) volevo esprimere la semplicissima nozione del “Fare”. Il Fare, il poièin, su cui vorrei indagare, è ciò che si compie in alcune (...) “opere dell’intelletto”; sono quelle che la mente vuole costruire a proprio uso, dispiegando a tale fine tutti i mezzi fisici che possono servirle». Le confessioni dei vicini e le domande che Agostino pone loro durante l’ascolto mai passivo, urgono di quella “sensibilità” che Valéry ritiene essersi persa. «Quando si parla di “Sensibilità” si è obbligati a farlo secondo Conoscenza; solo le arti, talvolta le danno la parola in modo diretto, ma per frammenti, e frammenti adattati a scopi peculiari. È come una lingua molto antica, nota solo per iscrizioni parziali e sparse, di cui non esista né un vocabolario completo né una grammatica». Gli oggetti, gli arredi della casa in cui Agostino “vive” la sua convalescenza diventano i porti da cui partono i racconti dei vicini; tutto questo accade come in una sorta di trance, poiché se solo i vicini sapessero della ricerca di “senso e sensibilità” di Agostino non si abbandonerebbero, non mollerrebbero gli ormeggi e, soprattutto, inconsapevolmente non realizzerebbero quell’unità fodamentale tra l’io (sviluppatosi con l’uso del linguaggio) e la sensibilità, condizione necessaria ma nascosta del pensiero.
Questa conquistata intimità con sé stessi, una confessione laica, penetra, finalmente, le cose della vita e Agostino che è stato privato di quell’io razionale che esclude tutte le “cose vaghe dell’intelletto” invece pone domande proprio su di esse, ma accade, sempre come scriveva Valéry, che: «la domanda non determina l’esistenza, o la possibilità di una risposta; o meglio, non garantisce niente circa il proprio senso. Di fatto, se la domanda è una questione di sensibilità (un bisogno, una lacuna, una resistenza al corso naturale delle cose), non è detto che la risposta sia della medesima specie, oppure può essere fallace; [...] il bisogno, fatto di sensibilità, esige un nutrimento reale, un apporto di specie completamente diversa, e non un prodotto di se stesso, un sé sotto un’altra forma».
In questa dimensione si ri-costruisce la memoria di Agostino che certo non sarà perfetta in sé, non sarà fatta di eventi giustamente collocati nello spazio e nel tempo del loro essere accaduti, ma avrà invece quella “sensibilità” carattere fondamentale delle cose della vita; non sarà ricostruzione della realtà in quanto fenomeno, ma espressione di un “quid” che è balenato solo per un attimo, nello spazio-tempo precisi di un “silenzio”. Un bagliore capace di annodare i fili di una madre-nonna (Corinna) volutamente cinica innanzi al dolore di un figlio (il padre di Agostino) che si è perso nella propria disperazione alla morte della moglie ed è rimasto annichilito innanzi alla violenza cieca subita dal figlio. La lettera della nonna reca in sé una cartolina, immagine anche questa ormai del passato, una sorta di déjà vu per la collettività di consumatori (Cina) quali noi siamo diventati. La cartolina invita il figlio ad andare ad abitare la casa, il luogo immaginato della “vecchiaia” del padre e della madre, ora finalmente ultimata: quando il dolore, la sofferenza si fa creativa chiudendo il cerchio delle cose della vita.
Nel corso del monologo Pacifico presenta circa una decina di canzoni inedite che ne chiosano i singoli atti. Nella situazione del teatro-musica Gino De Crescenzo è perfettamente a suo agio, ed è vero “poeta”; la sua capacità di narratore si esprime completamente in equilibrio tra l’osservare attento la quotidianità della vita reale e il restituirla nel racconto con pacata ironia. Ci domandiamo se sia importante spiegare allo spettatore, in quello che vorrebbe essere l’epilogo, la bontà delle sue intenzioni di Artista; lasciare allo spettatore la possibilità, a sua volta, di dare senso a quanto ascoltato è qualcosa che non gli si può e deve negare per consentirgli il piacere di dire “questa è soltanto la realtà quotidiana”.
(Articolo di Paola Piacitelli, pubblicato su Orizzonti n. 38)
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