| Un saggio sulla vecchiaia, in forma di romanzo, potremmo così definire il bel libro di Domenico Starnone “Spavento”. Una delle principali caratteristiche di questo testo va ricercata nella pluralità dei messaggi e nei vari livelli di lettura che esso presenta. Qui ne esaminerò tre.
Il primo, che possiamo chiamare psicologico-introspettivo, ci offre un insieme di riflessioni, interrogativi, pensieri, questioni filosofiche, che costellano tutto il testo ed accompagnano le vicende dei due personaggi principali, ambedue scrittori: Pietro Tosca, il protagonista della “Morte allegra”, e lo scrittore - Io narrante (alias Domenico Starnone) - che è impegnato nella costruzione di tale storia. Riflessioni sulla vecchiaia e sulla morte, soprattutto, ma anche sui grandi temi della vita, sull’amore, la malattia, gli affetti familiari, il rapporto con i giovani e con le donne, la letteratura: piccoli grandi temi esistenziali dunque analizzati sotto forma di dialogo ma più spesso di monologo. Probabilmente il lettore che, come me, si è trovato a vivere press’a poco nello stesso tempo storico dell’autore, non può fare a meno di scoprire molte verità, corrispondenze o risonanze con il proprio vissuto: non si tratta quindi semplicemente di pure sintonie emotive, ma della condivisione di stati d’animo, comportamenti, sensazioni di inadeguatezza, disorientamenti, incertezze: ad esempio il tempo soggettivo che si contrae e diviene sempre più corto, la “sindrome del corpo sfiduciato”, i meccanismi di difesa volti a negare (o rinnegare?) quel corpo nel quale fatichiamo a riconoscerci, che ci delude, che ci spaventa perfino (“spavento” quindi anche del proprio decadimento fisico, vera e propria anticipazione del “dopo” che inevitabilmente verrà) e che tutto sommato non amiamo più come una volta. Ci consola allora, come accade ai due protagonisti malati e in là con gli anni, la fuga narcisistica - eppur vitale - dalla debolezza del corpo alla forza e alla potenza della mente, dai piaceri della carne alla spiritualità della letteratura e della scrittura come antidoto, come risorsa e resurrezione, come “potenza di esistere”. Quando chi legge arriva a dire, è proprio vero, mi riconosco, provo anch’io queste sensazioni, “è proprio così”, allora vuol dire che il testo coglie nel segno, è un buon testo, comunica attraverso i suoi personaggi inventati ma veri, qualcosa di realmente condivisibile e di autentico. In tal senso la soggettività pensante dello scrittore, e soprattutto del romanziere, riesce a catturare, attraverso una scrittura “misurata e leggera”, la complessità dei processi umani (qui soprattutto quello dell’invecchiamento, della malattia, o delle relazioni interpersonali) molto più efficacemente di quanto possano fare, in modo astratto o accademico, manuali, trattati o saggi di psicologia o di filosofia quando cercano di oggettivizzare questi stessi processi.
Un secondo livello ci pone di fronte ad un “romanzo realistico” (o forse addirittura “iper-realistico”) capace di fornire, attraverso uno sguardo attento ai particolari, una rappresentazione “pittorica” della società, della cultura, dei legami familiari che emergono con forza soprattutto all’interno della struttura ospedaliera di cui lo scrittore riesce a descrivere l’atmosfera rarefatta e asettica, mettendone in luce alcuni aspetti inquietanti, come la presunzione dei medici, i ritmi temporali scanditi dai bisogni più prosaicamente corporei, gli spazi i suoni i silenzi, i tratti caratteriali di infermieri e medici, vicini di letto: una fotografia della vita nel reparto disegnata con pochi ed efficaci tratti fisici e psicologici. Uno sguardo sulla realtà filtrato da quei sentimenti di impotenza, ed anche di rabbia che chi è ricoverato prova e vive come espropriazione del corpo proprio oggettivizzato dal sapere medico. Sentiamo anche qui che il lavoro (la trama narrativa) non è maturato a tavolino, ma scaturito dall’esperienza vissuta, ed è proprio questa osservazione partecipante alla vita dell’ospedale a rendere la narrazione così vera, calda e viva.
Un terzo livello è quello che riguarda “la scrittura”: sono due (meglio sarebbe dire tre, il terzo, l’autore del libro “Spavento” è per molti aspetti un doppio del secondo) gli scrittori, io narranti delle storie le cui vite, recitate sempre (o quasi) in prima persona, si inseriscono l’una nell’altra in un originale gioco di matrioske, creando una perfetta soluzione di continuità. Soluzione di continuità che è data anche dalla struttura formale del romanzo, dai capitoli e paragrafi senza titoli che ne indichino le cesure, con quei passaggi a volte inaspettati e improvvisi, fra il protagonista della storia, lo sceneggiatore Pietro Tosca e lo scrittore che la scrive e la racconta, attraverso un flusso narrativo che si fa sempre più attraente e interessante per il lettore. In questo senso il romanzo può essere letto come la descrizione di come “nasce e viene costruita una storia” (in questo caso “la morte allegra”), non un trattato o corso di scrittura creativa, qui non ci sono regole codificate, ma si può imparare molto sul metodo soggettivo, personale di approccio alla produzione di un testo: innanzitutto l’abitudine di prendere appunti e spunti dalla realtà, lo sguardo attento ai dettagli e al mondo che ci circonda, il ricorso a strategie per allungare certi passaggi, la possibilità di rivisitare le fasi di una storia e di modificarle in seguito a nuove esperienze, i blocchi, le difficoltà, le insoddisfazioni legate alle paure e alle motivazioni personali… il faticoso tentativo infine di recuperare e riordinare il materiale accumulato caoticamente negli anni. Sono questi problemi di metodologia della scrittura, che diviene essa stessa “storia”: «la scrittura - scrive Starnone - è sempre immersa nel mondo soggettivo di chi scrive». E questo mondo comprende anche il puro e piacevole esercizio della lingua, l’uso delle parole e l’attaccamento affettivo al dialetto (vedi la catena di significati legata alla parola “sparpetuo”) che è poi una via per accedere alla memoria. Esemplari a questo proposito sono i giochi linguistici che divengono, insieme al cibo, pura voluttà di ricordi. La sera al ristorante che fa parte del finale della storia nella storia (la morte allegra) è un tripudio di sapori e di esercizi linguistici, i piatti e le prelibatezze divengono un momento di ritorno al passato: il cibo e la sua denominazione dialettale, la ricerca di raffinate origini etimologiche delle parole hanno il potere magico, come la madeleine di Proust, di aprire improvvisi squarci nella memoria e di rievocare ricordi e sensazioni altrimenti dimenticati del proprio passato, così cari e vividi perché legati, tutto sommato, come i fremiti sessuali, alla nostra stagione migliore, «ai piaceri goduti da ragazzo o da adulto, nel pieno delle forze».
Qualche perplessità sulle pagine conclusive del romanzo. Lo scrittore - io narrante - ci fa partecipi, con grande sincerità, dei dubbi e delle difficoltà incontrati nel riprendere in mano dopo dieci anni il manoscritto e la storia, cercando di mettere ordine agli appunti sparsi, alle pagine già scritte anche prima della degenza in ospedale e concepite quasi come una storia autonoma. Un finale “allegro” forse sì, ma anche patetico e squallido: una notte di sesso con una prostituta in una camera d’albergo. Pietro Tosca infatti riesce a ritrovare un insperato seppur effimero sollievo dallo “spavento” nei confronti della malattia e della inarrestabile corsa verso il precipizio finale, esorcizzando la morte proprio nella carnalità, nell’eros. Ma forse quest’ultima parola è troppo epica e importante per una fuggevole avventura con un giovane corpo di prostituta che si vende alla sua vecchiaia in una stanza d’albergo. Forse non è neppure solo una scena di sesso né semplice soddisfazione dei sensi, è qualcosa di più, è l’aggrapparsi disperato di un corpo stanco e malato per recuperare vitalità ma soprattutto virilità, è il piacere narcisistico e un po’ maschilista della forza delle proprie prestazioni (“I can”), mentre il corpo femminile si dà come corpo-oggetto, gioventù-protesi, antidoto non solo al proprio decadimento fisico, ma più potente dei piaceri della mente. Il disappunto nel lettore nasce non tanto da imperativi moralistici ma da una certa contraddizione con alcune premesse e messaggi presenti nel testo, come la funzione prioritaria e strutturante (e quindi la sfida) della cultura e della scrittura, del “verbo” (incorruttibile) versus il decadimento e la corruttibilità del corpo (“…E la scrittura ti salverà”). Penso inoltre alle splendide figure di donna rappresentate dalle mogli ed avrei preferito vedere il protagonista, Pietro Tosca, seduto sul balcone di casa «con in mano un libro di Bossuet», circondato dal calore di solidi affetti, in uno scenario di saggia serenità (come accade al personaggio dello scrittore), dove i piaceri e le eccitazioni di una mente creativa possano avere la meglio sui tradimenti e sulle avventure del corpo e sulla crudezza di un linguaggio a tratti anche un po’ volgare, volto a descriverli in dettaglio. Certo chi legge è portato a confondere i due protagonisti proprio perché l’autore stesso li fa “ruzzolare” l’uno nel corpo dell’altro e perché pensano e soffrono in modo simile il decadimento e la paura della morte, legati dall’esperienza della malattia e dallo stesso umanissimo smarrimento: ciò può talvolta trarre in inganno e rendere labili i confini fra la “creatura letteraria” Pietro Tosca e il personaggio dello scrittore che la inventa. Il primo infatti fugge da casa, rifiuta le cure, non guarisce si difende dalla morte negando o meglio annegando la malattia e la paura nel piacere, mentre l’io narrante va in ospedale, si cura, guarisce e ritrova la gioia di vivere anche nella riscoperta di molti aspetti, prima trascurati, legati alle piccole cose quotidiane, e, perché no?, anche a certi aneliti religiosi. Forse avremmo desiderato anche per lo sceneggiatore Pietro Tosca (che è difficile non considerare un alter ego dello scrittore, un possibile luogo di proiezioni inconsce) un congedo meno ingannevole e anche più dignitoso Ma questa personale notazione riflette, come ogni scrittura, il mondo soggettivo (e forse un lieve disappunto femminista) di chi scrive e può non essere condivisa né tantomeno riesce a scalfire l’apprezzabilità e il valore del testo che si configura come un’opera letteraria di grande qualità e di rara onestà intellettuale.
(Recensione di Paola Farneti, pubblicata su Orizzonti n. 37)
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