| «Dovrei comandare l’unità che riceverà l’ordine di attaccarli... Non posso farlo. È impossibile fare una cosa del genere», queste sono le parole di sdegno pronunciate dal tenente Takeyama Shinji dopo aver ricevuto l’ordine di uccidere i suoi compagni. Sdegno che però non intacca la sua fedeltà verso l’esercito e l’Imperatore. Difatti, prima di morire egli lascia un biglietto contenente la sola frase “Viva le Forze Imperiali”.
Allo stesso modo Yukio Mishima scrive poco prima della sua tragica fine: “La vita umana è breve ma io vorrei vivere sempre”. Si potrebbe così sintetizzare lo stretto legame tra il grande artista giapponese e la sua prima e unica opera cinematografica, “Yūkoku” (trad. it., “Patriottismo”). Un legame all’insegna anche della contraddizione, generata dalla scissione tra quello che si vorrebbe fare e ciò che invece si è costretti fare.
Questo articolo si concentrerà sulla pellicola tratta dal celeberrimo racconto omonimo (1966) di Mishima, analizzandone il rapporto con la fonte letteraria.
“Yūkoku” è una opera dichiaratamente teatrale: due personaggi, Takeyama e la moglie Reiko, un solo interno, minimale e austero, che rimanda così alla tradizione plurisecolare del teatro Nō. L’aspetto estetico, sempre cruciale in Mishima, si fonde qui con una storia romantica e appassionata, dove l’amorevole addio dei due coniugi rivela anche un interessante spaccato sul “discorso amoroso” classico nella cultura giapponese.
“Yūkoku” è un film che andrebbe studiato, andando oltre la sua superficiale patina politica, per poter meglio apprezzare l’universo artistico e culturale di un autore in cui estetica e vita sono indissolubilmente legate. Difatti, la tesi che verrà sostenuta in questo articolo è la seguente: l’accostamento della vita e delle opere di Mishima a una matrice di stampo principalmente politico, per quanto concerne gli ultimi dieci anni della sua vita, è limitante giacché essa rischia di adombrare quella che è, secondo noi, la vera essenza di questo scrittore e del suo lavoro, ovvero una continua ricerca del gesto estetico per ridare ordine e morale al Giappone moderno. “Gesto” salvifico dunque che però, proprio in uno stile talvolta eccessivo simile a quello di Oscar Wilde, viene quasi sempre celato proprio sotto la provocazione. Sembra che lo stesso Mishima, come leggiamo in queste sue parole cariche di sincera emozione, ambisse a voler essere frainteso da coloro che egli reputava ormai troppo corrotti per comprenderlo:
Un lettore attento coglierà in questo mio scritto […] l’eco delle mie esperienze, dei miei aneliti, delle mie angosce, delle mie passioni, delle mie confessioni e dei miei presagi. E un giorno comprenderà forse le mie metafore e dirà: ‘Ah, era questo che intendeva!’.
Il racconto a cui si ispira il film narra di come il tenente Takeyama venga a conoscenza che i suoi compagni sono condannati a morte dopo un fallito colpo di stato. Scelto per eseguire la condanna, il conflitto per lui è tra il restare fedele all’Imperatore e il sentimento di amicizia che lo lega ai commilitoni. Figlio di samurai, egli sceglie infine il “seppuku” (il suicidio rituale) quale ultima, e nel contempo sublime, forma per compiere il proprio dovere, restando fedele all’Imperatore, senza però tradire i suoi amici. In questo tragico momento, egli è accompagnato sino alla fine dell’adorata moglie Reiko, anch’ella suicida insieme al marito. Quella stessa sera la donna aveva mostrato a Takeyama il pugnale che faceva parte della sua dote nuziale. Al tenente era stato sufficiente questo per capire che lei era la moglie ideale per un militare e che per questo motivo non l’avrebbe uccisa prima del suo rito. Difatti, egli aveva piena fiducia in lei, sapeva che la donna non avrebbe temuto la morte, svolgendo inoltre il proprio dovere di testimone, affinché l’ultimo gesto del marito fosse degno di onore e rispetto. Poco importava se poi il testimone sarebbe morto a sua volta. Questo legame, che ripropone l’attrazione morbosa dell’autore verso il concetto occidentale di Eros e Thanatos, è così riportato nel racconto: “Mentre si guardavano l’un l’altro negli occhi e vi scoprivano una morte onorevole, una volta di più avevano sentito di essere in salvo dietro la protezione di mura d’acciaio che nessuno poteva distruggere, rinchiusi in un’armatura impenetrabile fatta di Bellezza e di Verità”.
Il cortometraggio di Mishima si attesta come quasi un unicum per la sua fedeltà alla fonte letteraria, tanto da rendere persino non indispensabile il collegare di continuo le citazioni tratte dal racconto alle scene da noi analizzate, visto la quasi assoluta specularità delle due opere.
Accennato dunque al plot narrativo di quello che è sicuramente uno dei racconti più celebri dell’autore, passiamo ora ad analizzare l’interazione tra il linguaggio filmico del cortometraggio e i vari elementi della estetica dell’autore giapponese.
Sappiamo che la rivolta venne repressa nel sangue, e che al momento della narrazione, la vita al di fuori della casa dei due innamorati è in caotica evoluzione. Purtuttavia, il Mishima regista rimane fedele sino in fondo alla scelta di trasporre il suo racconto nello ieratico e silente linguaggio del teatro Nō. Una diegesi che, nel pressoché totale rispetto delle unità aristoteliche (luogo, tempo e azione), si presenta allo spettatore priva di qualsiasi ornamento cinematografico, a dimostrazione di come in fondo Mishima si sentisse uno scrittore datosi solo “in prestito” alla Settima Arte. La camera è fissa in un piano ribassato, stilema di tanti film del grande maestro del cinema giapponese Ozu Yasujirō. Mishima concepisce un dramma senza parole (il film è muto con didascalie). Un cortometraggio viscerale e profetico, nel quale l’artista giapponese mette in scena alcune delle tematiche a lui più care: la fedeltà in senso lato, il codice etico dei samurai, la patria, la violazione del corpo nel momento del suo massimo splendore. Dunque una visione quasi “crudele” del martirio che lo avvicina alla estetica di uno dei suoi maestri Tanizaki Jun’ichirō. Entrambi gli autori difatti propendono verso una visione fatalistica della esistenza, insieme a un certo disprezzo per un pavido attaccamento alla vita. Mishima concepisce dal canto suo una vera estetica della crudeltà, basata su di una visione dualistica nei confronti della bellezza, interamente sviscerata in quello che è probabilmente il suo capolavoro, nonché saggio di estetica in forma di romanzo: “Kinkakuji” (“Il padiglione d’oro”, 1956). Qui l’autore contrappone i sentimenti di viscerale ammirazione del protagonista (un giovano monaco) per la suprema raffinatezza del monumento che dà il titolo all’opera, a una nauseante sensazione di oppressione causatagli dalla bellezza stessa dell’edificio. Tale dicotomia fa parte integrante della visione estetica di Mishima, poiché sin da ragazzo egli fu ammaliato dalla iconografia di San Sebastiano; la quale incarnava la sua passione per l’annichilimento della bellezza, proprio nel momento di maggiore splendore. Per tal motivo, il protagonista riesce veramente ad amare il Padiglione d’oro, in tutta la sua magnificenza, solo nell’attimo in cui quest’ultimo rischia di essere distrutto dall’incendio che egli stesso appicca.
Tornando al martirio di San Sebastiano, questa fu una immagine che affascinò Mishima sin da bambino, quando la nonna Natsuko lo costringeva a starsene segregato in casa, lasciandogli come unico svago la lettura, proprio grazie alla quale conobbe la triste storia del santo cristiano, poi ripresa nel suo primo romanzo “Confessioni di una maschera” (“Kamen no kokuhaku”, 1949): “[…], la raffigurazione del San Sebastiano trafitto dalle frecce di Guido Reni, […], rappresenta i germi di quel continuo e irrisolto conflitto fra il mondo delle idee e quello della materia”. L’immagine del corpo trafitto del santo ritorna con vigore nella figura del giovane Takeyama, il cui tragico personaggio è esempio di quanto tenue sia il confine in Mishima tra bellezza e orrore, visto che la macchina da presa indugia, nel momento del suicidio, in modo a dir poco grandguignolesco sulle interiora che fuoriescono dal ventre reciso dell’uomo e dalla bava che fuoriesce copiosa dalla sua bocca. Una estetica forse “eccessiva” quella di Mishima che andrebbe, come detto, in buona parte interpretata in chiave però provocatoria. Egli, da eccellente comunicatore ben in anticipo sui tempi, comprese come per destare la curiosità nel pubblico, fosse necessario scuoterlo; dunque quale modo migliore per suscitare lo sbigottimento delle masse se non quello di utilizzare quell’autentico “tempio della tragedia” di origine classica e occidentale che per l’autore è da sempre rappresentato dal corpo. La studiosa francese Annie Cecchi sintetizza perfettamente questo concetto nel complesso testo che dedica all’artista nipponico: “On comprend que le corps, et le corps seul, est pour Mishima le lieu du tragique”
L’attivismo nazionalista è chiaramente anch’esso presente in “Patriottismo”, che però non può essere considerato come il fattore cardine della opera. Difatti, l’interpretazione che qui si intende dare della figura pubblica di Mishima e della sua battaglia politica è in parte distante dalla posizione che molta critica e buona parte dell’opinione pubblica in Italia hanno di questo autore. Sarebbe a dire che invece di “leggere” gli ultimi dieci anni della sua vita come frutto di un acceso nazionalismo, si preferisce inserire il patriottismo dell’autore all’interno di un più complesso ragionamento estetico, che egli applica alla vita, vista come una autentica battaglia morale: “Reiko sentiva che finalmente avrebbe potuto assaporare la dolcezza e l’amarezza del grande principio morale in cui il marito credeva”. Lo scrittore giapponese auspicava infatti che glorificando il martirio di Takeyama, egli avrebbe potuto scuotere in qualche modo l’animo dei figli di un Giappone annichilito dalla guerra e che egli stesso giudicava “corrotto”, ormai lontanissimo dallo spirito del cosiddetto “Nihonno kokoro”. Ragion per cui, è probabile che Mishima giudicò utile riproporre la sua storia per mezzo di un medium di grande efficacia quale il cinema, aggiungendovi per giunta un altro inconfondibile elemento identitario per tutto il popolo dell’Arcipelago, ovvero il Nō, col suo chiaro retaggio shintoista.
Il cortometraggio “Yūkoku” costituisce il reiterato omaggio di Mishima a un eroico, quanto avventato, tentativo di riportare il Giappone verso la strada della tradizione. Trattasi però anche di una opera intimistica, in virtù della scelta di rivelare uno spaccato di vita coniugale in un momento drammatico per una nazione vicina a un colpo di stato, esprimendo pure una visione dai contenuti universali: il dramma della giovane coppia è anche il dramma di tutto il popolo giapponese, lacerato tra tradizione e modernità.
Mishima, scrittore-personaggio, divo eccentrico e spesso vanitoso, estrapola pedissequamente dalla struttura narrativa del suo racconto una sceneggiatura ben compatibile con le esigenze del linguaggio cinematografico e del teatro classico giapponese, portando se stesso sul palcoscenico per rendere ancora più incisivo l’omaggio alla storia a cui si ispira. Il cortometraggio, oggi avulso dal contesto da cui è stato tratto, impressiona per forza di cose per quel che conosciamo della storia personale di Mishima. Impressiona, nonostante il freddo bianco e nero della fotografia. Questa opera cinematografica è la prova di quanto egli fosse consapevole della straordinaria forza retorica della Settima Arte. Tuttavia, questa è stata anche l’unica parentesi “alta” del suo rapporto col cinema: da bravo provocatore, si misurò quasi sempre come attore in film di genere.
Gli ufficiali che tentarono il colpo di stato vennero infine catturati e giustiziati, morendo in tal modo con disonore, sebbene qualcuno aveva fatto in tempo a uccidersi, riuscendo a compiere il rituale di morte riconosciuto nella storia del Giappone come facente parte delle azioni di guerra, e che è al centro della storia che stiamo analizzando. A dire il vero, è proprio il suicidio il vero protagonista di “Yūkoku”. Mishima si concentra sull’ultima notte del tenente Takeyama e di sua moglie Reiko, una coppia di giovani sposi che si adorano. Per proteggere questo amore profondo, il tenente era stato lasciato all’oscuro della rivolta dai propri compagni. Il suo nome non era nelle liste dei rivoltosi e per questo motivo, e con crudele spirito di rappresaglia da parte dei suoi superiori, è stato comandato proprio a lui di sedare il tumulto, ordine che spinge il giovane ufficiale a togliersi la vita. Il film dunque altro non è che un lento, quanto estetizzante, cammino verso la morte, vissuta dai due coniugi come un momento di massima complicità e unione.
Questa vicenda piena di pathos ci regala un Mishima attore sorprendentemente alla altezza, come del resto lo è anche la talentuosa coprotagonista Tsuruoka Yoshiko, visto che il turbinio di passioni ed emozioni di cui è intrisa la storia è magistralmente comunicato dalla loro recitazione, malgrado essa sia limitata dalla mancanza di dialoghi. Il bianco e nero non attenua, ma anzi esagera quasi i contrasti onnipresenti nella opera: i colori che emergono tra le righe, il bianco e il rosso che alludono simbolicamente al sincretismo tra eros e morte. Il bianco del kimono di Reiko e il rosso del sangue che sgorga dalle ferite della lama affilata del tenente. La luce illumina il volto diafano di Reiko, mentre Takeyama è spesso in ombra, acuendo il confronto e l’unione tra i due che si amano con passione nell’ultima notte della loro vita. Per quanto concerne la capacità recitativa di Mishima, è possibile affermare che fosse generalmente discreta, benché non eccellente. Ciononostante, il fatto che in questo film egli interpreti non soltanto un suo personaggio, ma persino l’uomo che avrebbe voluto essere e la fine che di lì a poco (morirà nel 1970) avrebbe scelto, gli consente di recitare in modo appassionato e nel contempo solenne e sicuro, come se coinvolto in una sorta di prova generale del suo futuro suicidio.
La narrazione è divisa in capitoli, concentrandosi esclusivamente sulla coppia di innamorati e non presenta altri personaggi. Questo è forse l’unico neo dell’opera. Infatti, se il linguaggio letterario e quello teatrale tollerano bene la presenza di due o persino un solo personaggio, nel cinema tale situazione rischia spesso di creare un senso di “claustrofobia” e vuoto nello spettatore.
Alla sua uscita, il film impressionò per quell’attenzione maniacale verso i dettagli rivelati da un regista neofito quale era Mishima. La stessa attenzione di particolari la si ritrova nelle pagine del racconto dedicate al taglio del ventre dell’ufficiale, dove la descrizione risulta essere precisa e dettagliata quanto le inquadrature della pellicola. Questa è una scena-icona (sconsigliata ai deboli di stomaco, inutile negarlo) non soltanto del cortometraggio, in quanto sintetizza l’essenza del concetto di azione di Mishima uomo-artista. Nell’atto in cui la lama incide la carne e penetra nello stomaco, la sofferenza fisica è indubbiamente atroce e immediata con la conseguente vittoria del corpo sullo spirito, dell’acciaio vitale dei muscoli sulla stanca retorica della mente. In parallelo, la passione tra i due coniugi, che culmina nell’atto della congiunzione carnale, rappresenta l’apice del piacere in cui tutto si annulla per raccogliere le vibrazioni che percorrono interamente il corpo.
Il tempo e lo spazio che sono dedicati ai momenti culminanti di questa vicenda sono gli stessi, ma nel cortometraggio, per ovvi motivi di censura sul palcoscenico, l’esplosione dell’eros è alimentata dai momenti preparatori, dalla tenerezza tra i due. Non ci sono parole, la narrazione è lasciata ai fogli in cui si legge l’antefatto di ogni capitolo, mentre l’intensità dei movimenti e delle espressioni, in particolar quelle di Reiko, rendono bene il dramma che va pian piano montando in scena. L’attenzione sul volto della donna non è casuale, così come la scelta di spostare la macchina da presa fuori campo al momento del suo suicidio. Reiko compie “seppuku”, solo nel modo concessole: con il taglio della gola, ma questo momento deve restare nell’ombra, visto che il protagonista, l’eroe, è l’uomo. Reiko, come accade spesso alle protagoniste nelle opere di Mishima, a parte qualche rara occasione, funge solo da sostegno rassicurante per il compagno, marito o amante che sia. In fondo, questo era anche lo stesso ruolo che aveva accettato di buon grado la moglie dello scrittore. La luce sul volto di Reiko vuole evidenziare proprio questo, il bianco del suo incarnato che si accompagna al kimono virginale macchiato del sangue della virilità: la purezza deve essere alimentata dalla forza vitale maschile per arrivare all’apice, altrimenti è solo stanca retorica. Proprio alla donna, che compie con eleganza il rituale di truccarsi prima della morte, è lasciato il compito di ricomporre il corpo del marito, in modo che la sua fine eroica sia anche esteticamente perfetta, per poi lasciare la porta di casa socchiusa affinché qualcuno possa trovare i due corpi prima che si decompongano e, quindi, evitare che la loro tragica bellezza possa sfiorire ed essere dunque dimenticata.
Il rito del “seppuku” (il suicidio rituale) che ritorna con una certa insistenza specie nelle ultime opere di Mishima, va inserito nella inquieta ricerca di quella autentica vitalità che segna buona parte della sua carriera, tanto da spingerlo a definire i suoi ultimi anni come “Fiume dell’azione”, così come venne anche descritto da Marguerite Yourcenar nel celeberrimo saggio che la scrittrice dedica all’artista: “[..] Mishima, emporté désormais par ce qu’il appelle la Rivière de l’Action”. L’utilizzo da parte della scrittrice belga del sostantivo “rivière” e non “fleuve” non è affatto incidentale, giacché col primo nella lingua francese si intende talvolta la parola “affluente”. Rammentiamo che lo stesso Mishima divide la propria vita in quattro fiumi: prosa, teatro, corpo e, per l’appunto, azione. La Yourcenar ha dimostrato di cogliere un aspetto fondamentale dell’animo di questo scrittore, ovvero il fatto che ognuno dei suoi “fiumi” confluiscano nell’ “Universo Mishima” e sebbene questi possano essere analizzati separatamente, essi ritornano immancabilmente alla loro unica fonte: l’autore. Dunque, il movimento del corpo e dello spirito, quale forma di opposizione alla noia e all’imborghesimento dello spirito e soprattutto la ricerca di una purezza scevra da qualsiasi attaccamento alla vita, finanche da preferire una esistenza breve e impetuosa a una lunga e sobria.
Dunque, “azione” come sinonimo di sprezzo per il pericolo e volontà di sacrificare l’esistenza nel fiorire della bellezza. Basta poco per comprendere che tutto il parlare, e in qualche occasione il consapevole ciarlare, di Mishima intorno alle arti marziali, al body building, nonché alla disciplina militare, nasconde elementi ben più profondi e suggestivi. Per lui l’azione è quella dello spirito; il movimento e il pensiero sono tutt’uno col corpo. Visto che stiamo in argomento, vogliamo anche ribadire la tesi proposta in questo studio, la quale individua negli anni che solitamente vengono definiti dell’“impegno politico” dell’artista una fase in cui egli cerca di applicare concretamente i dettami estetici sui quali aveva lavorato per gran parte della sua vita. Ragion per cui, giudicare semplicisticamente l’opera e la vita di Mishima, che come abbiamo visto non andrebbero mai divise, come frutto di un pensiero reazionario intriso di simpatie militari, risulterebbe essere una visione datata e mal allineata con quella critica che ormai da tempo va riscrivendo sotto una nuova luce anche il pensiero politico dell’autore. Del resto l’uniforme della “Tatenokai” che amava tanto indossare la “usava” per attirare e provocare giornalisti curiosi e critici faziosi, in modo da destare il loro interesse: “E io non riesco a pensare ad altro che alla rinascita della forza; anche se mi giudicano un fanatico, sono convinto che il mio compito primario sia la rinascita della forza”. Eppure chi potrà mai dire con sicurezza che cosa egli intendesse davvero per forza. La nostra teoria è che i concetti di vitalità e di azione dovessero essere le basi per la costruzione di una nuova società. La quale potesse cambiare un Giappone imbelle e succube del rimorso e della onta per la sconfitta militare.
Dunque, questa analisi sostiene che anche nell’ultimo periodo la ricerca estetica di Mishima non si arresta, per lasciare, come spesso si crede, spazio a un pericoloso superamento dell’Idealismo di stampo nazionalista. Essa cambia solo forma, camuffando così quello che è sempre stata una ossessionata ricerca per una bellezza unica e spietata, sotto un finto manto politico: “Dentro di me la bellezza, l’erotismo e la morte stanno sulla medesima linea”.
«Non pensavo, dato che il sole non si era mai dissociato dall’immagine della morte, che potesse mai conferirmi una benedizione corporale». Abbiamo scelto non a caso un brano da “Tayō to testu” (“Sole e Acciaio”, 1967), per ribadire come quello dell’autore è sempre stato sì un universo tragico, ma pur sempre intriso di una quasi ansiosa ricerca estetica; “qualità” che la maggior parte della critica di settore ormai gli riconosce. Si è potuto inoltre constatare come la morte non spaventi Mishima, come del resto non spaventa i protagonisti delle sue storie, anzi essa è la parte fondamentale della sua raffinata poetica del martirio.
Egli restò impressionato dall’evento politico narrato in “Yūkoku” e soprattutto frustrato dalla reazione imperiale, che considerò un errore, persino un tradimento da parte di chi, invece, per primo avrebbe dovuto difendere un atto eroico compiuto per la salvezza della Patria. Forse è per questo motivo che si riesce a comprendere il tentativo della moglie di Mishima di distruggere il film dopo la morte del marito. In un certo senso, per quella che era la tradizione militare giapponese, la sua stessa sopravvivenza poteva essere considerata disonorevole.
Mishima non ha mai nascosto come per lui la morte fosse un “grande principio morale”, ricollegandosi così a una visione della vita secondo cui il momento della fine di un essere umano è persino più importante della sua stessa esistenza. Lo scrittore auspicava che questa morale del sacrificio fosse ripresa dalla società giapponese dell’epoca; in essa poi si racchiude il senso profondo degli ultimi dieci anni di vita di Mishima. Coloro che intravidero in lui solo un ultranazionalista e un intellettuale reazionario, caddero nella “trappola” che Mishima stesso aveva teso a osservatori faciloni e pieni di pregiudizi.
Concludendo, l’unicità di questo cortometraggio sta nel fatto che esso rappresenta una operazione di trasposizione dal linguaggio scritto a quello filmico dotata di potente fascino, nonché ricca di elementi estetizzanti che non sono andati perduti, come invece avviene spesso in operazioni di “mediazione” artistica di questo tipo. Per capire la portata di quella che non esitiamo a definire come una visione sperimentale del rapporto tra cinema, letteratura e, in minor parte, teatro, è utile soffermarsi su di una citazione tratta sempre dall’omonimo racconto. L’utilizzo che Mishima fa non solo degli aggettivi, ma anche delle accurate descrizioni dei vari movimenti compiuti dalla donna, fa quasi intendere che egli avesse già in mente le inquadrature della scena finale, insieme al fatto che il personaggio di Reiko avrebbe dovuto muoversi su di un palcoscenico teatrale, invece che su di un set cinematografico, perciò su di uno spazio ridotto. Ricercando con la solita maestria il giusto termine per dare una potenzialità spesso “visiva” alla sua scrittura, Mishima dimostra di essere giunto al nocciolo della problematica che lega le due forme artistiche qui prese in esame, ovvero: come rendere in azione/movimento ciò che è stato scritto? Egli ha dimostrato come una accurata capacità descrittiva, specialmente nei movimenti dei vari personaggi, sia la qualità principale che permette a un testo di diventare film:
Il tenente giaceva a faccia in giù in un mare di sangue. La punta che gli usciva dal collo sembrava ancora più sporgente di prima. Reiko camminò nel sangue senza prestarvi attenzione. Sedette accanto al cadavere del tenente e ne guardò attentamente il viso che era appoggiato di fianco sulla stuoia. [...] sollevò la testa, avvolta nella manica del kimono, pulì il sangue dalle labbra e gli diede un bacio.
È utile sottolineare che l’intellettuale giapponese è stato capace di “depistare” molti sui critici e osservatori anche nel caso di “Yūkoku”, nascondendo come suo solito la propria poetica dietro un fitto velo di provocazioni. Molti, negli anni, leggendo e/o guardando questa opera ci avranno visto la declamazione del codice d’onore giapponese, oppure una benevolenza verso i militari, e non, purtroppo, la cosa che in questo studio, malgrado la brevità dello spazio, si è tentato di dimostrare: che quello che Mishima ha fatto con le varie versioni di “Yūkoku” altro non è che un esperimento all’insegna della estetica, tutt’ora ancora all’avanguardia, nel complesso rapporto tra cinema e letteratura.
(Articolo di Riccardo Rosati, pubblicato su Orizzonti n. 37)
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