| Giuseppe Casa: «Proprio su “Orizzonti”, allora neonata a Roma, curavo la rubrica "Cronache Letterarie"»
Le signorine tette al vento che abitano la copertina di “Veronica dal Vivo” e occhieggiano al lettore con promesse non esattamente auliche vista la sede, fanno da contraltare all’oscurità del ritratto sul romanzo “In Questo Cuore Buio” (entrambi editi da Transeuropa), un’immagine schizzata con pochi tratti essenziali quanto basta a dare l’idea di una fisionomia, dell’ombra riflessa dell’autore Giuseppe Casa. Trentacinquenne insegnante di educazione fisica, c’è scritto sul retro, come se questo mettesse subito dinanzi ai curiosi la parte più evidente dell’evidenza, ovvero quanto sia difficile oggi vivere con la propria poetica, la propria scrittura. Ma Casa non ha solo la stoffa, come si addice ad ogni esordiente di belle speranze ma di potenzialità non altrettanto eccelse. Oltre alla stoffa, Casa ha soprattutto una penna, e ben appuntita. Nella sua prosa, dapprima piacevolmente parodistica nei confronti dei capisaldi pulp nostrani, lo scrittore mescola con disinvoltura pagine trash a vere e proprie chicche di sperimentalismo linguistico, dai remixaggi alle punteggiature anarchiche. Il punto di vista dei suoi personaggi è sempre quello dell’idiota di talento, della persona non-persona che scende a patti con realtà di fatto più grandi di sé e, come tali, destinate a provocare le reazioni più estreme: la follia o la convivenza (rassegnata). Una posizione, questa, che garantisce a Casa la possibilità di raccontare tanto le realtà dei centri sociali quanto le facciate deliranti e goliardiche dei fatti di cronaca da cui la sua raccolta d’esordio, “Veronica dal Vivo”, prende spunto di episodio in episodio.
Di te sappiamo che insegni educazione fisica e vivi a Roma. Bisogna ammettere che non c’è scritto certamente molto nelle note biografiche. Come nasce allora lo scrittore Giuseppe Casa?
«Circa una decina d’anni fa ho iniziato scrivendo poesie, ma ho fatto in tempo ad accorgermi che non era quella del poeta la mia vera dimensione. A parte tutte le difficoltà che comporta la pubblicazione di un singolo componimento, in realtà non è solo questo il problema. Una poesia richiede troppa sofferenza sul piano emotivo, è un’essenza della parola che va ricercata scavando a fondo nella propria intimità».
Quindi il passaggio dalla poesia alla prosa nel tuo caso è avvenuto non solo per un’esigenza di tipo interiore, ma anche per una tua tendenza alla leggerezza?
«Be’, io sono molto curioso, mi lascio trasportare dalle mie esperienze. Con la poesia sono arrivato a un punto in cui non sarei riuscito a dire ancora quello che intendevo veramente, il verso non mi rispecchiava più. Mi sentivo presuntuoso a usare la poesia, con la letteratura mi appariva tutto diverso. Cioè, scrivendo in versi hai sempre questa necessità di esprimere qualcosa di profondamente intimo e sofferto, con la prosa non necessariamente. Non ho mai vissuto l’esperienza letteraria con l’imperativo di esprimere cose forzatamente importanti. Potevo scegliere se dire niente o meno».
Ci sono state letture importanti nel corso di questa tua ricerca, Giuseppe?
«Devo dire che non amo i classici, assolutamente. Ho iniziato piuttosto con scrittori considerati poco impegnati come Bukowski. Poi mi sono avvicinato un passo alla volta a Jack London, a Hemingway, accorgendomi che in realtà non esistono così tanti steccati fra autori classici e non. Per cui ho finito con l’amare tanto Céline quanto Tolstoj, considerando alla fine ogni scrittore una buona lettura».
Parli solo di stranieri. Nessun italiano?
«Degli italiani ho sempre amato gli sperimentalisti. Ho iniziato con Ballestrini, poi con Mastronardi, fino a Sanguineti che è estremamente più noto come poeta sebbene io trovi straordinarie le due prove da prosatore che ha dato in forma romanzata. E naturalmente tanti altri. Fra i classici invece mi ha colpito l’opera di Svevo, una lettura appassionante ancora oggi, nonostante la corsa dei tempi».
E dopo tanti esempi eccellenti, come mai ti sei ispirato ai fatti di cronaca per la tua raccolta d’esordio, “Veronica dal Vivo”?
«I racconti raccolti in quel libro sono in parte nati come esercizi letterari che pratico tuttora: andavo a cercare le notizie più assurde, magari nascoste in un trafiletto nelle pagine sportive di un giornale locale, e poi ne facevo piccoli ritratti in prosa. Da questa idea è nata per esempio la rubrica «Cronache Letterarie» che curavo proprio qui su “Orizzonti”, allora neonata a Roma. Alcune cose le ho invece architettate parodiando gli scritti di Aldo Nove e Isabella Santacroce. Qualcuno mi ha tacciato di plagio, ma un gioco condotto tanto a viso scoperto non mi pare possa meritare simili marchi. L’ho fatto in modo ilare e innocuo, esaltando semmai la mia ammirazione per il loro talento e la loro importanza. In fondo, quello che ha rappresentato il loro successo, ha permesso a me e a molti altri di uscire dall’anonimato».
Se in “Veronica dal Vivo” parlavi dei fatti di cronaca, nel romanzo tratti, fra le altre cose, dei centri sociali e degli studenti universitari. Perché hai scelto argomenti tanto generazionalmente diversi?
«Beh, in effetti io ho frequentato davvero questi luoghi per alcuni tempi. Vivendo a Roma come studente fuori sede, purtroppo in tasca non avevi mai molti soldi. Allora andavi al Centro Sociale dove potevi vedere film e spettacoli, mangiare e ascoltare musica a costi contenutissimi. In più quando sei studente sono posti che tirano perché ci vai a farti le canne, incontri tanta gente e parli di politica in nome di grandi ideali. Anche l’ambiente universitario, comunque, è una specie di centro sociale. Quando si vive tutti nella Casa dello Studente, tutti lontani da casa, tutti senza una lira... alla fine si diventa anche tutti dalla stessa parte. Si vive, si lotta dalla stessa parte. All’inizio degli anni Novanta mi ricordo che si lottava per la Pantera, lottavamo tutti, anche chi, come me, in fondo non ci credeva più di tanto in questo tipo di lotte...».
Esistono almeno due registri che vale la pena di analizzare qui, nel tuo romanzo, e sono le parti di remixaggio fra i tuoi testi e le canzoni dei CSI nel primo caso, certe parti di “Luminal” di Isabella Santacroce nel secondo che danno voce a una punk miscelandosi al narrato. Mentre poi c’è anche un vero e proprio trip con un dolce allucinogeno. Ce ne vuoi parlare?
«Se parli di musica in un contesto universitario, come fai a non pensare ai CSI? È indubbio lo spessore sociale dei loro testi, per non parlare di quello letterario! Le canzoni dei CSI sono poesie di un ermetismo seducente, veri e propri pezzi di letteratura che suonano bene su disco e vengono naturali a chi scrive, se parli di musica in questi termini. Con altrettanta naturalezza ho pensato di plagiare i testi della Santacroce per far parlare una punk. La scena in questione, per altro, era piuttosto allucinata, quindi la sua prosa andava a ricucirsi perfettamente nel mio tessuto narrativo, creando un secondo mixaggio, questa volta totalmente letterario».
E, a proposito di plagi, un certo Irvine Welsh non c’entra proprio nulla con la scena del trip?
«Sì, certamente! In un suo racconto breve, Welsh parla espressamente dello Space-cake, questo dolce che viene servito con molta disinvoltura in Olanda. Però c’è anche la mia esperienza personale di una vacanza fatta con un amico dove siamo appunto andati a visitarla, attratti chiaramente molto più dalle specialità dolciarie che dai paesaggi! No, scherzo. Comunque, sì, l’ho provato, è un dolce che provoca allucinazioni del tipo di quelle che ho descritto nel libro».
Allora tu plagi non solo dalla letteratura, ma anche dalla vita!
«(Ride) Sì, è vero. In effetti ci sono molti aspetti autobiografici in questo romanzo. Altri invece rispecchiano solo un mio modo di vedere certe cose della vita. Ad esempio alcuni episodi singoli che riguardano la storia d’amore dominante nella trama sono reali, la conseguente nascita di una famiglia e di un figlio down sono invece visioni oscure di un’opinione assolutamente personale su determinati accadimenti nella via delle persone».
Per fare solo un passo indietro, Giuseppe, e per concludere: a dispetto di quante cose hai da dire, tu appartieni ancora alla sfera degli scrittori legati al mondo confuso della piccola editoria. Che tipo di quadro potresti fornire a chi vorrebbe intraprendere la strada dello scrivere?
«Purtroppo è tutto un commercio. Il piccolo editore ti pubblica ma non ha i mezzi per aiutarti a promuovere la tua opera. Per cui o sei un ottimo promotore di te stesso, oppure rimani all’ombra di qualche scaffale, sempre che il piccolo editore in questione possieda almeno una modestissima catena distributiva. Per cui non è facile che un grande editore si interessi a te, come è pure difficile che il tuo lavoro venga riconosciuto a prescindere da un valore strettamente commerciale. Ma spesso, è più semplice la strada del dimenticatoio. La situazione è catastrofica, non c’è che dire. Aspetto da anni la risposta di un grande editore in merito ad alcuni inediti, mentre tempo addietro un altro editore altrettanto potente mi ha detto che non poteva pubblicarli perché “troppo eversivi”. Cosa vuol dire “troppo eversivi”? Temo che si tenda a privilegiare solo un certo tipo di letteratura e questo è molto triste. Come è triste accorgersi che molti critici recensiscono libri per interesse, o addirittura leggi articoli redatti da scrittori che parlano di altri loro amici, nonché colleghi, ovviamente. Ho incontrato difficoltà immani in questo senso. Francamente mentirei se ora ti dicessi che della mia scrittura non me ne frega più niente. Sono demotivato da tutto questo schifo, ma non abbastanza. Certo, mi piacerebbe vedere il mio libro nelle vetrine, ma se devo arrivarci grazie a giri di amicizie o a situazioni pubblicitarie avvilenti prima per me e poi per la mia arte, allora no, preferisco essere dimenticato. Scrivo libri, non faccio campagne elettorali!».
(Articolo di Gianluca Mercadante, pubblicato su Orizzonti n.12)
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