| Il suo "Dies Irae" è un libro di 760 pagine, magmatico, pieno di trame e controtrame, sottintesi. Un libro positivamente impegnativo. Qualche critico ha consigliato di sfogliarlo nel salotto di casa con un paio di cesoie alla mano. Perché?
Esiste una zona della letteratura, italiana ed estera, che racconta una storia differente da quella che conosciamo. Una storia dai contorni familiari, forse, ma dai contenuti obliqui, distorti, o per meglio dire chiariti, resi vitrei – e perciò potenzialmente pericolosi -, dall’occhio dell’autore. Siccome un libro si perpetua poi grazie a un altro sguardo, uno sguardo moltiplicato – quello dei lettori -, vale allora la pena arginare il rischio e, democraticamente, lasciare che certe cose escano, ma solo in forma di finzione. In modo che si possa, democraticamente, dubitarne. Il romanzo “Dies Irae” di Giuseppe Genna (Rizzoli) viaggia su queste frequenze. Racconta un’Italia il cui cordone ombelicale parte dal fondo di un pozzo artesiano dove ha perso la vita un bambino, anni fa, e l’evento fu seguito per ore, a reti unificate (le uniche due reti allora in funzione), da tutto il Paese. Quali germi ha piantato, fatto germogliare e coltivato nel tempo un evento simile? Genna risponde al quesito con un libro di 760 pagine, magmatico, pieno di trame e controtrame, sottintesi e grida a squarciagola. Un libro positivamente impegnativo, che qualche critico afferma sarebbe stato preferibile sfogliare nel salotto di casa con un paio di cesoie alla mano.
Ci sarà un motivo?...
I venticinque, trent’anni circa, di Storia Italiana che il tuo romanzo riesamina attraverso la fiction, partono dalla morte di Alfredino Rampi. L’evento mediatico più sensazionale e moralmente rilevante di una storia italiana parallela, quella televisiva, è un centro nevralgico o un punto di svolta a tutto il resto? E quale peso ancora mantiene, secondo te, nell’immaginario collettivo?
«La televisione domina attraverso la retorica letteraria. Ha mutuato tutto dalla letteratura: persino il telegiornale, non dico fiction esplicitamente super-letterarie come “24” o “Lost”. Ciò si deve alla filiazione dal cinema: uno si legge, in “Nôtre Dame” di Hugo, il capitolo “Parigi a volo di uccello”, e poi mi dice se il cinema non è nato dalla letteratura, o se il montaggio non è un espediente di retorica letteraria. Il problema è, come osservi tu, la questione di una nevralgia politica, che è una patologia dell’immaginario. In questo senso, siamo dominati da una distorsione della retorica letteraria. Vite senza suspance imbevute dell’idea suspance, che conoscono gli esiti della suspance e se li attendono come una conferma pavloviana – sono sature di una suspance dagli esiti straconosciuti: è una plausibile descrizione non soltanto dell’Italia, ma delle società cosiddette “avanzate”. Qui, in questo punto nevralgico, è auspicabile che il bisturi della letteratura apra ferite non suturabili. Siamo passati da una “Guerra Fredda” a una “Guerra Interiore”: il campo di battaglia è l’immaginario, e le armi esplodono colpi di immaginario. O gli artisti, e soprattutto gli scrittori, si rendono conto di questo, oppure non c’è niente da fare: bisogna attendere un impoverimento generalizzato, perché quando la sopravvivenza intacca la placidità della vita, allora l’immaginario si rimette in moto da solo, senza ausili o surrogati letterari. Alfredino Rampi è il segnale della cattiva interpretazione di questa potenza dell’immaginario nella sua distorsione televisiva: tutti si ricordano di quella tragica vicenda, più come pietra miliare della propria esistenza che come dramma umano dell’ “altro”. È eliminata, come si vede, la pietà, cioè l’empatia. Se l’immaginario è distorto, l’empatia si dissolve e la comunità non esiste più – resistono le icone, e Alfredino è l’oggetto primario iconico, non un corpo, una mente, uno spirito che inchioda nella sofferenza, nella cecità della tragedia, nelle sue assurde coincidenze, nella sua fatalità. Simili considerazioni arrivano soltanto dopo, sul piano intellettuale, non su quello del cuore o del pianto».
Il narratore Giuseppe Genna, che nel libro è in prima persona parte integrante degli eventi, si dichiara stanco di essere uno scrittore di thriller. Cosa ti ha spinto a procedere in altre direzioni? O, se preferisci, in direzioni “altre”?
«Ci sono due Giuseppe Genna che scrivono: uno scrive il “Dies Irae” edito da Rizzoli, l’altro scrive il “Dies Irae” di cui si parla nel libro – testo labirintico, “argonautico”, che non si capisce cosa sia. Lì miro, lì risiede il regno dell’interiorità immaginifica a cui tendo. Il thriller è una piccola forma canonica che mi infastidisce per la sua inclinazione a “chiudere” la storia, a dispensare consolazioni e immagini prefissate, a fornire risposte più che domande. Non esiste genere che potrebbe soddisfarmi e, infine, non esiste romanzo che possa soddisfarmi. Il puro desiderio sarebbe di non “guidare il lettore”, di esporlo a folgorazioni medianiche che non siano né prosa né poesia (anche qui, rilevo la cristallizzazioni di canoni morti: non esiste differenza tra poesia e prosa). Vorrei un urlo in forma letteraria, una forma sconcertante e nera, che vada costruendosi nell’impazienza. Ciò non ha nulla a che vedere col fatto che la narrazione sia una forza popolare. C’è però una fase dell’onda popolare – onda di ricezione – in cui ciò che non sembra popolare al momento viene escavato, e dopo molto, se non si è sbagliato, diverrà popolare. In questa fase d’intercettazione desidero pormi, del tutto pacificamente, senza disturbare nessuno. Per fare esempi: “Petrolio” di Pasolini è ancora avanti trent’anni rispetto a una ricezione comunitaria, Burroughs ancora di più. Non importa, qualcuno deve inocularsi negli osculi aperti, anche rischiando la clandestinità e – elemento fondamentale – l’errore marchiano».
Nell’altro “Dies Irae”, il romanzo nel romanzo, in realtà molto più simile a una sorta di installazione narrata, si ascoltano echi di filosofie induiste. Ci parleresti della genesi di quel testo, rimasto integralmente un inedito, e di come hai ritenuto fosse opportuno inserirne dei brani nel “Dies Irae” invece pubblicato? Inoltre: cosa c’entrano induismo e fantascienza?
«L’unica persona, finora, che mi ha raccontato la struttura del “Dies Irae” per come effettivamente è stata organizzata, è la critica, traduttrice e teorica della letteratura Donata Feroldi, che insegna a Siena. La struttura è un “mercuriale”, il simbolo alchemico che si osserva brillare a ogni farmacia: ci sono due serpi intrecciate, e si tratta dei personaggi Giuseppe Genna e Paola C.; le serpi finiscono per guardarsi e riconoscersi alla sommità del bastone di Mercurio, e qui il bastone non c’è: le vicende degli altri personaggi, in mimesi con la mia contemporaneità metropolitana, sono il vuoto pneumatico, qualcosa che sembra predeterminato ed è casuale, potrebbe non esserci e invece c’è, perché anche il vuoto esiste. La progressione delle vicende personali di GG e PC è esposta secondo i canoni alchemici proprio della “Nigredo”: fase in cui il destino è traumatico ed emergono i nodi psicoemotivi che bisogna sciogliere. Il libro vive di simmetrie: a un falso inizio, che è indice della fiction a cui si assiste, corrisponde un finale a cui è impossibile assistere e dove, sulla scorta della “Waste Land” di Eliot (ma anche dei suoi “Quartetti”) io utilizzo un montaggio da Gaudapada, il fondatore del non-dualismo induista, l’equivalente del nostro Platone esoterico o del Plotino delle Enneadi. Si tratta di un omaggio all’Essere inteso come oltremondano che sta “qui e ora”, nel mondano. Sia detto, in sintesi, che alchimia e non-dualismo induista, nella mia lettura, sono la stessa cosa: alludono alla possibilità della fine della specie, affermandone l’illusorietà in quanto configurazioni dell’essere, che invece non può esaurirsi. È il punto in cui “transumanar significar per verba non si porìa”. La fantascienza è l’immagine del non-dualismo: la mia fantascienza simula l’estinzione per raccontare un altro inizio, l’inesauribilità delle configurazioni, come figura dell’inesauribilità dell’essere».
Sarà certamente la più scontata e banale delle domande, ma viene spontaneo chiedersi: cosa c’è di vero e cosa c’è di costruito in quello che hai raccontato?
«Tutto è vero e tutto è finto. Il Giuseppe Genna del romanzo ha vissuto e vive le situazioni narrate, anche se certi particolari sono occultati o travestiti. Gli altri personaggi sono assemblaggi di stralci di vicende vissute da persone reali. La finzione sta nel fatto che, se io descrivo molto bene il latte a una persona che non lo ha mai assaggiato, compio una finzione. Sto intendendo che il libro diventa un invito all’esperienza del lavoro sull’“io” di cui narra a sbalzi e strappi. Ciò che è vero è finto, in questa prospettiva».
La controinformazione diventa l’informazione. Una formula, questa, che più volte ribadisci nel “Dies Irae”. Ma in un’Italia che legge infinitamente meno di quanto si scrive e si pubblica, la narrativa rappresenta, secondo te, uno strumento di controinformazione? E come si pone, dunque, secondo una tale logica?
«Da un lato la narrativa ha i suoi problemi, che sono di doppio regime: il “romanzesco” non parla più, la televisione (e tra un po’ altri media) lo fanno meglio. Ciò non significa che il romanzo sia morto: significa che è necessario “ripensare la narrazione”. Tra queste “innovazioni interne”, c’è da registrare l’idea di una narrativa che sia storica e quindi direttamente controinformativa (il romanzo di genere storico, che è all’origine del “genere romanzo”, è l’immediato futuro, purtroppo; per felice sorte alcuni scrittori, tra cui vanno citati Evangelisti e i Wu Ming, rimettono in gioco non l’idea di romanzo storico, ma di romanzesco storico, tentando la “fabula” infinita che è il nucleo di fusione della narrazione). Era necessario che accadesse, soprattutto in anni in cui la controinformazione era in mano alla destra più becera o non esisteva. Ora sussistono mezzi controinformativi che permettono un accesso orizzontale al dubbio sulla storia. Il romanzo pone invece il dubbio sulla Storia: sull’ultimità della vicenda umana, sugli universali. Servirebbe non un romanzo controinformativo, ma un controromanzo informativo. Da questo punto di vista (oltre che da altri), il “Dies Irae” è un fallimento cercato e voluto, così come capita nella fase alchemica di “Nigredo”: io ho tentato di sbarrare una strada che non portava a nulla, per aprire verso squarci di cui nulla si conosce. È l’antico artigianato dell’immaginario».
Quali sono stati gli scrittori che ti hanno maggiormente influenzato, nel corso della tua formazione di autore?
«Devo citare la formazione tardiva fondamentale: Victor Hugo. Per quanto concerne la formazione dall’inizio, la sequenza è questa, all’incirca: Lovecraft, Dante, Eliot, Celan, Wallace Stevens e Zanzotto; con gli inserti, per me imprescindibili, di Kafka, Burroughs e, molto tardi, la linea che porta a DeLillo, partendo da Dos Passos. La centralità va comunque assolutamente a T.S. Eliot».
Nel primo capitolo, che tu stesso citavi poco fa, si coglie un omaggio a Manzoni. Perché accostare la figura del narratore prescelto dalla scuola italiana a icona di unico vero scrittore italiano per antonomasia, rispetto alla morte di Alfredino?
«Si pensa che il romanzo italiano, o addirittura la prosa in genere, inizi nella modernità italiana con Manzoni. Tesi di finzione, a mio avviso: inizia con lo “Zibaldone di pensieri” di Leopardi, che è il modello stilistico di tutto il mio libro, tranne appunto che del primo capitolo. Ho usato dunque una lingua manzoniana che è primigenia per un fraintendimento, al fine di realizzare una finzione in qualcosa che è considerato tragico senza che vengano attualizzati i contenuti del tragico (la vicenda di Alfredino in diretta/differita). La narrazione dello “Zibaldone” meriterebbe una reincarnazione del critico Mario Fubini per essere canonizzata secondo la sua grandezza: che deriva, peraltro, da Vico, che deriva a sua volta da Giordano Bruno, il quale deriva a sua volta da Dante. E’ una linea “calda” (per dirla con Giuseppe Guglielmi), interratasi, che a mio parere corrisponde alla fuoriuscita dalle secche della crisi narrativa attuale. C’è da recuperare la “medianità” della narrazione come infinito intrattenimento, come infinitudine di storie non terminate, che gemmano storie ulteriori e universi in espansione...»
Dopo il “Dies Irae” cosa farai? Si torna al thriller?...
«Sto scrivendo, per Mondadori, un romanzo che sarà difficile definire di finzione. È sì il genere storico, ma condotto secondo metodi anatomopatologici, in cui, per una pressione etica estrema, mi è impossibile inventare. Qualcosa al limite tra la biografia e l’assalto alla letteratura, che viene schiacciata nella sua “penultimità”: essa non offre redenzione possibile, e si deve vergognare del fatto che è dalle sue devianze criminogene che scaturisce oscenità allo stato puro».
Note biografiche:
Giuseppe Genna (Milano, 1969) ha pubblicato “Assalto a un tempo devastato e vile” (Oscar Mondadori, 2002), “L’anno luce” (Tropea, 2005) e per Mondadori i thriller “Catrame” (1999), “Nel nome di Ishmael” (2002), “Non toccare la pelle del drago” (2003), “Grande Madre Rossa” (2004); dal protagonista dei suoi thriller, l’ispettore Guido Lopez, Rai3 ha tratto la fiction a puntate “Suor Jo”, mandata in onda nel 2005, per la regia di Gilberto Squizzato. I suoi titoli sono stati tradotti in molti Paesi, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Gippone. Il suo sito-magazine è www.giugenna.com. Insieme a Valerio Evangelisti gestisce la rivista on line “Carmilla” (www.carmillaonline.com).
(Articolo di Gianluca Mercadante, pubblicato su Orizzonti n. 31)
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