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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

PAOLO ROSSI VS “ROMEO & GIULIETTA” ( Intervista )

di Rivista Orizzonti

La popolare commedia rivisitata dallo spregiudicato comico milanese
Una serata di teatro interattivo tra improvvisazione e classicismo



Se il teatro fosse una festa, se fosse un luogo in cui incontrare altra gente, perfetti estranei che improvvisamente diventano tra loro altrettanto perfettamente familiari. Se il teatro fosse un parco giochi, un luna park animato dai sogni leggeri volati via dalle teste degli spettatori non più appesantiti dall’apatia che la nostra società coltiva come una droga legale, allora lo spettacolo del comico Paolo Rossi sarebbe stato qualcosa di consueto, senza grandi interessi se non forse il carisma e il talento del suo ideatore. Perché allora è stato necessario farlo? Proprio per dare un inizio a qualcosa, lanciare un sasso senza ritrarre la mano perché colpevole, ma anzi mostrarla senza false modestie come punto di partenza affinché di un teatro come quello descritto nell’introduzione non si parli più usando i verbi al condizionale. Almeno per una sera comunque un momento di sogno ha pervaso la platea, il palco ha improvvisamente scavalcato come una cosa viva il muro ideale che formalmente divideva gli attori dal pubblico per diventare un territorio unico, esperibile, dove “Romeo & Giulietta” vibrassero ogni volta di nuova luce, nuove facce, in uno spettacolo interattivo senza troppi copioni e certamente alcuna costrizione. Se pagine e ripagine di Shakespeare sono state effettivamente attraversate alla virgola da Rossi & co., altrettanti momenti della celebre commedia hanno invece avuto per protagonisti persone del pubblico, selezionate e “buttate dentro” da Gerard Estrenne, un artista di strada che ha fatto vivere alle persone comuni il sogno di fare del teatro, passando in un istante dalla condizione di pubblico passivo a quella di parte integrante - e recitante! - dello spettacolo proposto nella rinascita di un teatro non a caso battezzato dal comico come “Teatro di Rianimazione”.

Come nasce l’idea del TEATRO DI RIANIMAZIONE?
«Ormai viviamo nella Società dello Spettacolo, un mondo in cui le persone sono perfettamente in grado di recitare senza copioni. È un modo di vivere, il nostro, che impone una rappresentanza, un’immagine, e quindi pensando al teatro non puoi che tornare a porti domande molto elementari. La risposta, poi, è sempre la stessa: il Teatro dev’essere una festa. Una festa! Realizzare un progetto di questa portata alla fine significa dare alla gente quel qualcosa in più. Significa che il giorno dopo ognuno potrà dire di avere FATTO teatro, non solo di esserci stato e basta».

Per questo motivo allora ogni serata è diversa dalla precedente, non c’è mai un copione completamente preciso...
«No, infatti. Ma non dimentichiamo che è sempre Shakespeare, questo è molto importante. Quindi alcune pagine le abbiamo attraversate totalmente, altre meno. Un po’ come le compagnie di saltimbanchi di una volta, capisci? Un po’ questo, un po’ di Shakespeare, ripeto, e un po’ di performance stile anni 70. Il tutto perfezionato dall’esperienza!».

Quindi potremmo parlare della tradizione che si fonde all’avanguardia?
«Beh, io sono un perito chimico!».

Come dici in una battuta...
«Sì, ma è la verità, te lo garantisco».

Comunque non dev’essere semplice condurre serate che ruotano quasi esclusivamente sull’improvvisazione.
«Improvvisare è una disciplina serissima. Tantopiù se lo fai su Shakespeare, un grande scrittore. Centinaia d’anni fa Enrico Boni scrisse un testo che è una regola immortale: quando improvvisi non devi mai uscire dalla situazione che stai rappresentando. Non è facile, è come fare l’acrobata. Però, diciamo la verità: se cadi cosa succede? Come diceva il mio amico e maestro Riccardo Pifferi, coautore e coregista con me di questo spettacolo, quando andò male un’esperienza con Enzo Jannacci disse: “Non siamo mica in una sala operatoria, no?” Per cui anche se cadiamo cosa vuoi che succeda? Trenta secondi di vuoto e via».

Trenta secondi difficili da non temere quando porti in scena un autore come William Shakespeare. Come vedi il suo teatro oggi?
«Io non vedo Shakespeare o il teatro di Shakespeare. Io vedo un teatro. Anzi, scusa, IL TEATRO! E vedo che oggi ha bisogno di tornare fattivamente a un processo di ringiovanimento. Dev’essere un posto in cui le persone s’incontrano e prendono parte ad uno spettacolo attraversando con esso i propri ricordi. Da bambini com’era? Ogni volta che i genitori ci portavano per mano a teatro per noi era una festa, o no? Dovrebbe tornare ad essere così, secondo me. Poi, va bene, gli ortodossi si scandalizzeranno su alcuni punti e su altri meno».

Ad esempio?
«Le pagine che abbiamo interpretato, quelle di cui ti ho parlato prima. Credo che nessuno possa obiettare la nostra versione delle morti di Marcuzio e Tebaudo, il monologo della Regina, oppure ancora la lettera di Romeo. Mentre magari s’incazzano se suoniamo una canzone napoletana mentre muore Giulietta, ma questa è l’inevitabile sorte che tocca a tutte le esperienze che uniscono la tradizione alla cultura popolare».

L’interessante, però, sta appunto nell’unire le due correnti.
«Io credo che Shakespeare ci credesse molto, sì. Io personalmente avrei voluto vedere le repliche dei suoi spettacoli al Globe».

Il Globe non a caso fa parte della scenografia della tua rappresentazione. Un teatro che fa da sfondo a un altro teatro.
«Sì, infatti. Comunque sarebbe stato bello vederlo là, “Romeo e Giulietta”. In mezzo a gente che ruttava, scopava, si esaltava quando qualcuno moriva... Nel nostro caso posso dirti sicuramente che il pubblico che prende parte allo spettacolo, non se lo dimenticherà mai, questo è certo. Ma nemmeno chi rimane seduto. Dovevi vedere in certe serate la gente che si alzava dalle sedie e ballava, oppure cantava. Ci vuole tempo, ma io credo di essere sulla strada giusta».

Comunque l’impatto è forte, per cui è normale che in qualche caso la gente si blocchi un po’, non credi?
«Sì, in quanto a impatto lo penso anch’io. Però non è mai una provocazione, per questo alla fine la gente si diverte e partecipa. Noi scherziamo, ci prendiamo in giro fra noi e sfottiamo le persone che ci guardano, ma poi alla fine anche loro sfottono noi. È un gioco. Ma bisogna farlo senza perdere il gusto di raccontare le storie, è questo il nostro compito. Noi siamo dei raccontatori, ed è giusto che oggi il teatro ritorni a questo, ritorni alle sue origini».

Perché, altrimenti come vedi il teatro di oggi? Quello italiano, almeno.
«Beh, uno dei più grandi attori italiani è De Berardini, che oggi è un autogrill. Io che non sono affatto un grande attore - anche se comunque credo di saper ancora raccontare delle storie - dico: bene, allora andiamo a fare teatro in un autogrill! Perché mascherare d’ipocrisia certe cose, scusa? A me non interessa usare il teatro per dimostrare quanto sono bravo. A me interessa avere un’idea, raccontare qualcosa e far godere la gente. E quando qualcuno non capisce una scena io mi fermo e la ripeto. A Vercelli è successo subito, ho ripreso l’inizio a favore dei ritardatari. Altre volte capita anche in altre parti dello spettacolo, ma non è mai un problema per me farlo. L’importante è che il teatro capisca che è arrivata l’ora di confrontarsi con la Società dello Spettacolo: viviamo i tempi di Internet, della pubblicità, della televisione. Non sono demoni: sono mezzi. Quindi non è un male usarli, soprattutto se si riesce a mantenere intatta la purezza dei cantastorie, hai presente? Gente che senza una lira ogni giorno va in mezzo alla strada a raccontare».

Quindi la vera chiave per comunicare col pubblico è non lasciarsi travolgere dalla celebrità e mantenere intatto il candore?
«Celebrità? CELEBRITÁ?!!... (Ride e guarda altrove) Si sono dimenticati di Hitler, figurati se si ricordano di noi!...»

Una volta hai detto che il peggior pubblico che possa capitare a un comico è proprio un altro comico. Una domanda in due tempi: quali autori ti piace andare a vedere in teatro? E se Paolo Rossi andasse invece a vedere... Paolo Rossi?
«Gli Autori che mi piacciono sono i classici. Se andassi a vedere Paolo Rossi... be’, penserei che è uno di talento, che ha fatto qualche cazzata e può ancora molto migliorare, ma questo dipende solo da lui. Se continua a seguire le sue idee senza farsi condizionare dalle leggi di mercato, può ancora dire qualcosa».

E a proposito della tua attuale compagnia cosa ci puoi dire?
«Che sono multi-etnici! Partirei da Giovanni Cacioppo di Gela, Emanuele Dell’Aquila è pugliese, Pepe Ragonese è invece un grandissimo jazzista argentino, poi c’è un francese, Gerard Estrenne, un artista di strada, e Modou Gay, un raccontatore senegalese. Devo a lui la mia idea. Mi ha spiegato che in Africa funziona così, la gente si ritrova e FA le storie, non sta semplicemente a guardarle».

Quindi è una collaborazione che ti ha portato letteralmente a una svolta professionale?
«Sì, è vero. Io credo che questa non sia l’idea per uno spettacolo, ma un vero e proprio genere. Se riusciamo a lavorarci ancora per un po’, forse riusciremo davvero a svellere i confini del solito modo di fare teatro in Italia. Viviamo già in una società dove la gente è costretta a fare almeno diciotto parti al giorno, dammi tu un solo motivo per cui la sera dovrebbe pagare per vedere uno che fa finta di essere un venditore di pellicce!!!».

(Articolo di Gianluca Mercadante)


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