| Trent’anni di letteratura: Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Anna Maria Ortese, Dario Bellezza
SCRITTORE, POETA, EDITORE, TRADUTTORE; NEL CORSO DELLA TUA CARRIERA SEI STATO MOLTE COSE, MA CHI È OGGI BEPPE COSTA?
«Ancora mi sto cercando. So solo che non mi so occupare di me. Questa è la mia vita, non ho mai inseguito soldi o macchine, non ho conti in banca e devo la sopravvivenza ai miei figli. Fare lo scrittore è stato un caso. La cosa più importante è che sono sempre riuscito ad aggregare gli altri o farli incontrare; capita che molti amici miei, vedi il caso di nomi importanti, che non sono mai riuscito a fare aggregare tra loro, sono però riuscito a far sì che fossero presenti nello stesso luogo dove facevo una cosa io. Ad esempio Arnoldo Foà e Pino Caruso, non si conoscevano prima, e nemmeno Dario Bellezza con Arnoldo. Il più bello è stato l’incontro che ho preteso tra Dario e Marta Marzotto, una bella persona che ha sempre aiutato chi poteva, soprattutto quelli che lei riteneva artisti, qualche volta sbagliando. Dario non ne voleva sapere di queste donne ricche, ma Marta si innamorò e cercò di aiutarlo fino alla fine.
Quindi, l’atto dell’incontro. Sono uno che fa incontrare le persone, ma non sa incontrare se stesso».
NEL ’76 HAI FONDATO LA PELLICANOLIBRI. COM’È STATA QUESTA ESPERIENZA?
«Iniziai con autori esteri. Adoravo una certa follia, così quando vidi un film di Roland Topor, visto che ho sempre cercato di conoscere le persone che mi affascinano, arrivai a conoscere Fernando Arrabal. Fu così anche per Enzo Jannacci e Gino Paoli: tentai di pubblicarli, pure Leo Ferrè, ma un editore pirata pubblicò i libri di cui io avevo un contratto regolare, e Philippe Soupeau, che fu pubblicato da un editore che poi fallì. Molte mie pubblicazioni sono nate quasi per caso, nel senso che ho una caratteristica: se ascolto un brano di musica e mi viene la pelle d’oca vuol dire che è buono, e così è anche per i libri. Arrabal era già noto come autore teatrale; il suo libro venne pubblicato in Francia nel ’78, e io nel ’79, tre mesi dopo, già lo pubblicai. Con lui c’erano Jodorowsky e Gaston Bachelard, che veniva studiato da Giorello. Bachelard non è edito in Italia, però se uno va all’estero scopre che è un grande filosofo: fa parte degli autori attorno ad Arrabal. L’unica difficoltà fu che io non ho mai avuto una lira per pubblicare questi autori, e la cosa bella di questi autori e dei loro editori francesi o spagnoli fu che si compravano per poche lire, a volte mi vennero regalati, come accadde con Moravia, che per aiutarmi uscì contemporaneamente con un mio libro, litigando un po’ con Bompiani».
ALBERTO MORAVIA E DARIO bELLEZZA. RACCONTAMI DEL VOSTRO RAPPORTO E DELLA LORO ATTUALE CONDIZIONE NELL’AMBITO DELLA CULTURA ODIERNA?
«Quasi tutto ciò che si è scritto su Dario è falso, ed essendo, tutto ciò che è stato scritto, falso, spesso non viene ripubblicato. Dario ebbe degli scontri perché adorava litigare, voleva essere polemico, ma è stata la persona più intelligente e divertente che io abbia mai conosciuto. Amava far polemica, amava parlare male delle persone per vedere se queste che stavano attorno a lui erano veramente amiche nostre. Lo fece anche Fernanda Pivano; le presentai un’amica, rimasero sole, Fernanda le disse: “certo che è strano questo Beppe Costa” e quella prese a parlare male di me, al che Fernanda le disse: “allora non sei amica di Beppe Costa, vattene, scendi dalla macchina, non voglio venire con te”. Dario è stato il principe dei provocatori, ma è sottovalutato in narrativa e, se leggete i suoi romanzi, vi renderete conto dell’errore. Il problema di Dario era che non aveva costanza, cercava i soldi, gliene servivano troppi, e per scrivere romanzi ci vuole una certa serenità, infatti i narratori di successo, a parte quelli provvisori da un libro solo, sono coloro che stanno bene anche economicamente, tipo Moravia: lui stava bene e quindi poteva alzarsi tranquillamente alle sei del mattino e scrivere tutti i giorni, compresa la domenica. Dario presentava autori e amici, non sempre però, e aveva una particolare attenzione per i gay e per gli autori che in qualche modo lo stimavano, ma ciò che si è scritto dopo, è quasi tutto falso, se si eccettuano i rapporti con Enzo Siciliano e Adele Cambria. L’incontro con Dario è stato bellissimo: era il 1976, e stavo in un cineforum che curavo con altri. Mi si avvicinò un ragazzo dicendo: “sai ti cerca il grande poeta Dario Bellezza”; “e a me che mi deve cercare a fare” risposi. Non fu all’inizio della mia casa editrice, arrivò dopo, perché non volevo pubblicare autori italiani, poiché sapevo che sarebbe stato un casino. Gli italiani hanno una tendenza strana: sono gelosi, stimano spesso gli autori stranieri ma non cercano di imitarli collaborando, come ad esempio fanno molti musicisti. Per spezzare questo deserto culturale che c’è in Italia, bisogna unirsi, soprattutto i poeti. Dario mi presentò quelli che volle presentarmi e che volevano essere aiutati: Elio Pecora, Riccardo Reim, Renzo Paris, tutti autori che io pubblicai perché lui lo chiese, ma che poi scomparvero dalle nostre vite. Non servivamo più, lui perché è morto, io perché avevo smesso. È stato detto che Moravia detestava Dario, ma è falso, Alberto amava Dario come un figlio, lo contestava perché i soldi non gli bastavano mai, questo sì. Lo portò al “Corriere della sera”, cercò di aiutarlo economicamente, pur essendo tirchio, con i propri soldi, per farlo scrivere. Il rapporto omosessuale di Dario invece non l’abbiamo mai affrontato, perché lui ha frequentato la mia famiglia, ma ogni visita si interrompeva a un certo orario, quando doveva andare alla stazione Termini: a volte gli lasciavo la macchina, poi magari me la restituiva con quattro ruote bucate. Mi ricordo uno di Ragusa a cui rubò un fidanzato: siamo dovuti scappare a Catania, e per tre giorni siamo stati chiusi in casa perché ci volevano rompere la faccia.
La vita di Dario è pazzesca, credo che nessuno riuscirà mai a ricostruirla, ma era una persona assolutamente intelligente e divertente. Quando venne colpito dalla malattia il primo a saperlo fui io, per il semplice fatto che le analisi le aveva date alla mia compagna di allora, che lavorava e lavora tutt’ora al San Filippo Neri.
Però vorrei dire che ho l’impressione che lui sia stato ucciso, che gli sia stato tolto tutto il cibo, mi dispiace dirlo, ma chi gli stava vicino secondo me l’ha ucciso, perché stare vicino a uno come Dario, quando muore, comporta un momento di pubblicità enorme. E, la gente, purtroppo per mille lire e per una riga su un giornale, ho imparato che ammazza, in tutti i modi».
SULLA LEGGE BACCHELLI HAI QUALCOSA DA DIRE?
«Per quanto riguarda la vicenda di Anna Maria Ortese, sulla legge Bacchelli, devo dire qualcosa che può fare male a qualcuno. Dario, così come altre persone, aveva da anni una corrispondenza con Anna Maria. Perché non l’ha tirata fuori? Lei scrisse a tutti. Quando io, a casa di Adele Cambria, scoprii che Dario la conosceva, e seppi delle sue condizioni pietose, con Adele decisi che era il caso di intervenire. Andai a Rapallo per incontrarla. Lei non mi fece entrare nella sua casa, tanto aveva vergogna di sé e della sua povertà. Quando la scovai, lei mi prese una camera vicino a casa sua in modo che l’indomani ci potessimo vedere, e fu un incontro magico. Mi ha sempre chiamato “Gheddafi”, perché ero rivoluzionario e avevo i capelli come lui, anche nelle lettere mi chiamava così. Ai premi non vinceva perché ritenuta scomoda. Fu dura anche la raccolta firme per la legge Bacchelli, perché lei poi non voleva parlare con nessuno, e dovetti quasi costringerla a firmare la richiesta del vitalizio. Mi telefonò Calasso, di Adelphi, per chiedermi aiuto per risolvere questa situazione e allora io procurai l’agenzia, ma lei ancora non si fidava, aveva paura dei grandi editori e mi ripeteva che lei scriveva male: come tutti i grandi, non si rendeva conto di quello che era. Ma quando pubblicò “Il treno russo” vinse prima il Premio Rapallo, e in seguito il Premio Fiuggi, grazie al quale vinse trenta milioni. Lei volle essere accompagnata da me, ma non avendo la cravatta non mi fecero entrare, e così scese con Andreotti. Al suo ritorno mi disse: “Beppe siamo ricchi” e andammo al bar, ci sedemmo con una bottiglia di Vermouth e ci mettemmo a bere. Finiti i festeggiamenti, la riaccompagnai in albergo, non voleva ancora vedere nessuno, e la convinsi a firmare per Adelphi. Pensa, Adelphi mi mandò un suo libro in omaggio, “Il cardillo addolorato”, ma non fui mai invitato da nessuna parte.
Poi le lettere che diedi a Giuliano Amato, tramite il suo segretario, durante il rischio dei missili di Gheddafi, non le ho mai più avute indietro. Questo signore (c’era anche Forlani) mi disse: “guardi, appena finisce la vicenda con Gheddafi approveremo questa legge”, e così fu. Approvarono la Bacchelli, ma non solo per lei. L’hanno fatto per molti loro amici, gente a cui i soldi non mancavano, e così non l’abbiamo potuta avere per Goliarda Sapienza e altri, come Giovanna Mulas. Mi brucia moltissimo non essere mai stato chiamato in causa, e lo dico a tutti quelli che si sono appropriati di queste cose. Persino a Sciascia, che era morto tanti anni prima, è stato attribuito questo pregio: un suo erede ha avuto il coraggio di dare a lui i meriti della legge Bacchelli».
IN ITALIA SI SONO MOLTIPLICATI PREMI LETTERARI E FESTIVAL MA, NONOSTANTE L’IMPEGNO DI MOLTA GENTE E NUMEROSI EVENTI DI VALORE, SEMBRA CHE, NEL GLOBALE, SI GUARDI PIÙ AL LATO ECONOMICO-COMMERCIALE CHE AL VERO VALORE DELLA CULTURA. PERCHÉ? HO QUASI L’IMPRESSIONE CHE LA POESIA CONTEMPORANEA E I FESTIVAL VIAGGINO SU DUE STRADE DIFFERENTI.
«È un po’ quello che è successo agli editori e alla tv. Un programma culturale ha bisogno delle gambe, come un festival ha bisogno dei vestiti e così anche molti premi, nati da associazioni o per merito di eredi, alla fine hanno bisogno di trovare fondi, e così anche manifestazioni, nate per merito di appassionati, finiscono con l’invitare attori di grido. Così però finisce che non è più tanto il premiato che conta, ma ciò che gli gira attorno. È sempre stato così, solo che oggi è aumentato terribilmente. L’ultima volta che ho dato un’occhiata al catalogo dei premi erano tremilacinquecento, quindi fa un po’ i conti... Alcuni sono veri e propri ladrocini fatti da professori, falliti editori o falliti poeti che li mettono in piedi con i soldi degli autori stessi, più quelli del Comune; certo può capitare che ci vada anche un bravo poeta, però, in mezzo a ciò, se non ci si mette il comico, con tutto il rispetto che ho per i comici, non c’è pubblico. È come il Festival del Cinema alternativo del Salento, che è fatto di registi che si pagano da sé il proprio film e che invitano Tom Cruise, che attira gente facendo nulla… quindi, il discorso vale per la poesia come per tutte le altre cose.
Il punto è, come ho detto prima, che manca l’aggregazione, mancano “persone con le palle”, come succedeva quando c’era Pasolini, o Claudio Angelini e Giorgio Weiss. Sono stati dei coraggiosi, perché si mettevano in orari accettabili poeti a confronto, si regalavano libri in tv: le abbiamo avute in TV queste cose, non è che mancavano. Ora invece non c’è un solo programma che lo faccia, e questo perché la TV è stata modellata apposta per potere governare meglio un popolo che non sa. Quando feci l’ultima volta il Premio Casalotti, invitai Giovanna Bemporad, una poetessa che ha tradotto l’Odissea e che la conosce a memoria. Una cosa spettacolare! Quando morirà probabilmente si parlerà anche di lei… Ma invitai anche Gianni Rivera, il giocatore, per attirare pubblico, perché in TV il calcio è seguito. Solo che io da solo non posso fare molto, e dal 1996, quando sono morti quelli che rimanevano, io e Adele Cambria ci siamo sentiti abbastanza soli, e lei mi ha rimproverato a lungo per non essermi più fatto vedere. Ora sto seguendo l’esempio di Terzani: mi faccio l’ultimo giro di giostra».
PASOLINI. HAI MAI AVUTO MODO DI CONOSCERLO?
«Io ho avuto modo solo di vederlo, perché Dario Bellezza era geloso delle amicizie. Dario non mi ha presentato nessuno, a differenza di Moravia che mi presentò Dacia Maraini, ma da lei sono andato io con la mia faccia. Allora non era molto nota, camminava con una 500 scassata. Presentammo tutti e due un libro quell’anno, io avevo più folla di lei perché ci presentava Dario Bellezza, lei in un albergo, io in libreria».
SEI TRA GLI ORGANIZZATORI DEL TERANOVA FESTIVAL CHE SI SVOLGE A ROMA DAL 28 AL 31 OTTOBRE. DI COSA SI TRATTA ESATTAMENTE?
«Mi ha coinvolto Mario Salis, il fondatore. Creò il premio in Francia partendo da Arrabal, dalla madre che si chiamava Teranova, e quando Arrabal lo ha saputo l’ha appoggiato, perché Arrabal amava sua madre. Poi, scoprendo che ho pubblicato tre libri di Arrabal - l’ultimo l’ho dato a Patrice Leconte lo stesso giorno che usciva - mi ha coinvolto per la manifestazione in Italia. Il festival è fatto sulla scelta di comunicazione delle parole, sull’immagine e sulla musica, un mix emozionante. Certo, le nostre conoscenze sono limitate, perché sicuramente oltre ai poeti che abbiamo scelto ce ne sono tanti altri validi; ma è il primo anno che io do una mano, quindi, se altri ce ne saranno, sicuramente li scopriremo. Non è un concorso a premi, non ci sono soldi, semmai degli omaggi, ma io spero abbia tanta fortuna. Poi vediamo, se Raffaella Bonfiglioli riesce, magari si fa anche un almanacco, un’antologia di testi dei poeti invitati».
UN’ULTIMA DOMANDA. COSA SI PUÒ FARE PER MIGLIORARE L’ATTUALE CONDIZIONE DELLA POESIA?
«Aiutare. Sostenere. Collaborare. Gratuitamente, spendendo anche soldi, con quelli che si sforzano di farlo. Io lo sto facendo col Festival di Sassari e col Festival Teranova. Quando ho fatto incontri nelle scuole, ho visto che spesso tutti portavano le loro poesie, quindi la mia lettura è diventata la lettura dei presenti. Oggi diciamo che non vorrei fosse proprio così. Non ha senso spendere soldi per una cosa simile, se ci sono dei soldi devono essere spesi per far conoscere la poesia dei poeti».
(Articolo di Andrea Garbin, pubblicato su Orizzonti n. 36)
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