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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Incontro con la scrittrice TEHMINA DURRANI, simbolo con Benazir Bhutto, della lotta per l’emancipazione femminile in Pakistan

di Rivista Orizzonti


Tehmina Durrani è una donna molto bella. Ha due enormi occhi neri, molto comunicativi, come la maggior parte delle donne del suo Paese. L’abbiamo incontrata a Roma, dove, ospite della principessa Pignatelli, è venuta per presentare il libro Empietà, e per parlare della condizione femminile in Pakistan dove, come non tutti sanno, sussistono ancora leggi come il “delitto d’onore” e un corteggiatore respinto può impunemente decidere di «sfregiare per sempre» la malcapitata di turno, gettandole in faccia dell’acido. Questo per sottolineare il clima di paura e vessazione cui è sottoposta la gran parte delle donne in alcuni Paesi islamici, come il Pakistan, l’Afganistan, e gli stessi «modernissimi» Emirati Arabi.
Ci racconta della sua vita, apparentemente privilegiata - proviene da una delle famiglie più influenti del Pakistan. Suo padre è un importante uomo d’affari, ex presidente delle linee aeree nazionali. Tehmina cresce nella «società bene» di Latore e frequenta la stessa scuola privata di Benazir Bhutto, di cui presto diventa anche amica, condividendone cultura e ideali. Ma la sua strada, come quella di tutte le donne, appare già segnata dall’inizio: il logico passaggio è dalla casa paterna alla casa del marito, che dovrà tutelarne la vita e la libertà. E, a ventidue anni, avviene l’incontro fatale con Mustafà Khar, un uomo politico più anziano di lei di vent’anni, affascinante e carismatico. Sembra proprio un bell’incontro d’amore e non un matrimonio imposto dalla famiglia, come nella maggior parte dei casi delle giovani donne nubili. I due per un certo periodo trascorrono una vita felice, contesi dai salotti intellettuali alla moda grazie alla personalità di lui, politico ambizioso che incanta le masse e disarma gli avversari. Lei, innamorata e fedele, sostiene la causa del marito, e si dedica esclusivamente ai quattro figli, che nel frattempo allietano l’unione.
Dopo un breve periodo, però, le cose cambiano, soprattutto nel privato: Mustafà si rivela violento e possessivo. Comincia a picchiare la moglie per sospetti tradimenti privi di fondamento, le impone di non uscire più di casa, di non vedere amici, e in pubblico si diverte ad umiliarla, a trattarla male. Intreccia complotti per isolarla dai parenti (seduce la sorella minore di lei), e tenta di sottrarle i bambini, con la scusa che è inadatta a seguire la loro educazione.
Per un po’ Tehmina soffre in silenzio, ma poi decide di ribellarsi e di separarsi dal marito. Naturalmente tutto questo è vissuto con grande sofferenza, e senza l’appoggio e la comprensione della madre o dei fratelli, e tantomeno di leggi che possano essere dalla sua parte. Tehmina decide comunque per il divorzio, anche se come donna musulmana perderà i diritti sociali acquisiti con il matrimonio, la custodia dei figli, e il sostegno economico del marito. Ma la conseguenza che le pesa di più è senz’altro la rottura con i genitori, incapaci di accettare il comportamento anticonvenzionale della figlia e il conseguente scandalo, associato al buon nome della famiglia. Decidono di rinnegarla pubblicamente: Tehmina non avrà da loro né un sostegno morale né economico.
Dopo il divorzio, decide di scrivere un libro per raccontare la verità. Lo scandalo esplode sulle prime pagine dei giornali del suo Paese: è la prima volta che in Pakistan una donna rispettabile e di alto rango mette in piazza la squallida verità che si nasconde dietro l’ipocrisia dell’alta società, e osa ribellarsi al marito-padrone, sfidando apertamente la cultura feudale del suo Paese.
Nel tempo, Tehmina Durrani è diventata la donna più famosa del Pakistan, insieme a Benazir Bhutto. Ha diretto lo “Jehad Movement of Pakistan”, il movimento contro la corruzione politica e a favore dei diritti delle donne e, come la leggendaria eroina islamica Shaharazad, con la ragione ha trionfato sulla forza materiale del tiranno, diventando il simbolo della liberazione della donna.
Il libro autobiografico di cui abbiamo parlato è Schiava di mio marito, edito in Italia da Mondadori.

IN QUANTI PAESI, OLTRE ALL’ITALIA, È STATA TRADOTTA QUESTA SUA PRIMA NOVELLA AUTOBIOGRAFICA?
«In ben 35 Paesi tra Europa, Asia e America».

E IN QUALI DI QUESTI HA RISCOSSO MAGGIOR SUCCESSO?
«Credo proprio in Italia. Qui ho sentito tangibilmente l’interesse, la compartecipazione della gente. Forse perché c’è un vissuto storico, parlo naturalmente di tanti anni fa, che potrebbe accomunare le donne del vostro Sud alla condizione attuale delle donne del mio Paese. Un tempo anche da voi, per esempio, c’era il delitto d’onore, e le mogli potevano essere comunque emarginate, ripudiate, persino chiuse in manicomio con prove false e scuse banali, o addirittura uccise. Comunque non erano libere di studiare o lavorare. Purtroppo da noi ancora è così. Per questo non posso tacere di questa realtà nelle cose che scrivo, anche se i miei ultimi romanzi non sono così direttamente autobiografici come Schiava di mio marito».

COME È STATO ACCOLTO QUESTO LIBRO NEL SUO PAESE?
«All’inizio molto male. L’impatto a livello di cronaca è stato negativo, perché la nostra famiglia è molto nota. Paradossalmente, nel nostro Paese una donna povera è molto più libera di una donna che proviene da una buona famiglia, da un casato prestigioso o comunque legato al potere. E questo è dovuto anche al fatto che il potere, in Pakistan, è strettamente collegato alla religione Islamica ufficiale, religione, tengo a precisare, “riletta e reinterpretata” in modo sbagliato, funzionale al fondamentalismo e alla tirannide di certi governi. Il Corano infatti non parla di schiavizzazione delle donne, né proibisce che queste accedano liberamente agli studi o che partecipino attivamente all’educazione dei figli e alla gestione della famiglia, o che vengano ripudiate con facilità o addirittura uccise se osano ribellarsi al potere patriarcale. Nel regno di Giordania, che è uno dei più antichi regni islamici, dove la dinastia discende direttamente dal Profeta, tutto questo non esiste. Si vive in modo libero e, pur osservando il Corano, le donne sono libere di scegliere il proprio destino, di studiare, e non hanno l’obbligo del velo o del chador. In molti altri Paesi, come il nostro, c’è una visione arretrata e distorta, che non tiene conto del progredire della storia. È impensabile un progresso senza l’apporto delle donne: non possono andare avanti solo gli uomini, lasciando l’altra metà della popolazione ferma al medioevo. La donna nel nostro Paese rappresenta metà della società. Come può una persona sana di mente rassegnarsi al fatto che metà della società rimanga sepolta tra le mura domestiche senza la possibilità di esprimere un parere?»

E LA GENTE, NON TENTA DI REAGIRE A QUESTO STATO DI COSE?
«C’è ancora molto da fare. L’avvento di Benazir Bhutto è servito a poco. Anche lei nel periodo in cui è stata al potere, ricattata dai più influenti capi religiosi al governo, ha dovuto sottostare pubblicamente a certe regole: accettando per esempio di comparire sempre con il capo coperto dal velo, per fare uno degli esempi più semplici. E non è riuscita a liberare le nostre donne dalla schiavitù psicologica che le rende prive anche dei diritti sociali più elementari da voi».

IL TITOLO DEL SUO PRIMO ROMANZO È EMBLEMATICO PROPRIO DI QUESTA SITUAZIONE.
«Debbo dire che non sono molto contenta di come il titolo del mio primo libro sia stato tradotto in Italia. Il titolo originale era Il mio signore feudale, con un chiaro riferimento sia storico che ironico. Così invece mi sembra di avere scritto un bestseller, ma la mia storia è un’altra cosa. Non è soltanto una storia d’amore o una storia di un rapporto fallito, è la storia del mio Paese, dell’educazione che viene impartita alle donne sin dall’infanzia, delle vicende storiche che hanno visto al potere prima Zia e poi Benazir Bhutto di cui sono amica. E così parlo delle vicende politiche che hanno coinvolto anche mio marito e la mia famiglia, dell’imprigionamento che ho subìto per lui. E le vicende umane si mescolano inevitabilmente a tutto il resto. Praticamente è una sorta di romanzo storico, niente è stato inventato, e per questo all’inizio il libro ha subìto la censura nel mio Paese, e io sono stata rinnegata pubblicamente dalla mia famiglia, padre e madre compresi. Fortunatamente, dopo la separazione sono riuscita ad ottenere l’affidamento dei figli, anche se, come per qualsiasi donna musulmana che divorzia, non avevo diritto a nessun tipo di contributo economico, né per me né per i figli. Malgrado le sue ricchezze, mio marito non si è mai occupato dei figli né di me, e così anche i miei. Tempo fa mio padre e mia madre hanno persino tentato di ingraziarsi una delle mie figlie. Le hanno detto: rinnega pubblicamente tua madre, di’ a tutta la nazione che quello che ha scritto nel suo libro è falso, e noi ti riaccoglieremo in famiglia. Lei naturalmente ha rifiutato, e sarebbe stato comunque tutto inutile, dato che il mio libro era già stato tradotto in 35 Paesi!»

SECONDO LEI UNO SCRITTORE DOVREBBE ESSERE SEMPRE IMPEGNATO SOCIALMENTE?
«Nel mio caso è stato inevitabile; personalmente poi sono colpita solo da storie che abbiano un qualche legame con il sociale: storie di ingiustizia, di sofferenza, anche se cerco di trattarle con leggerezza nella narrazione, trasformandole un po’ con la fantasia. Credo di riuscire in questo intento, perché ho sentito spesso dai miei lettori commenti del tipo: questa storia mi ha preso molto, ho dovuto leggerla tutta d’un fiato sino alla fine».

QUAL È IL SUO LETTORE-TIPO, SOPRATTUTTO NEL SUO PAESE?
«Non c’è un vero lettore-tipo. Ci sono molti giovani, e naturalmente molte donne che si riconoscono nelle mie storie. Non ci sono naturalmente gli integralisti, o persone legate a certi ambienti ufficiali di potere. Le cose, anche se molto lentamente, stanno cambiando, anche se la lettura non è libera e diffusa come nei Paesi occidentali. Il potere “ottuso” si fa forte del fatto che nel nostro Paese l’alfabetizzazione è molto bassa. Gli integralismi, si sa, sfruttano sempre la povertà e l’ignoranza della gente per rimanere al potere; basti pensare ad esempi come l’Algeria, l’Afganistan, dove il potere conta molto sull’ignoranza e la povertà della gente. E gli ultimi drammatici fatti accaduti lo testimoniano davanti a tutto il mondo».

LEI PARLA MOLTO BENE L’INGLESE, DI SOLITO IN CHE LINGUA SCRIVE?
«Spesso in inglese, che è un po’ la nostra seconda lingua, ma anche in Urdu, la nostra lingua parlata».

IL SUO SECONDO ROMANZO, EMPIETÀ, EDITO IN ITALIA DALLA NERI POZZA, HA SEMPRE UNA BASE AUTOBIOGRAFICA?
«Parzialmente. Mi attengo alla vicenda vissuta da una donna che conosco molto bene. Haar (naturalmente il nome non è quello reale) è la moglie di un alto esponente della religione islamica, un personaggio ottuso e prepotente che ha fatto della sua donna un vero e proprio vegetale vivente, riducendola alla pazzia. Ho conosciuto Haar grazie a mio marito Mustafà. Mi aveva pregata di intercedere per lui presso questo pir (si tratta di una carica religiosa islamica molto importante ed ereditaria per diritto), dato che stava passando un periodo di “disgrazia” presso il governo. Recatami a casa del pir, venni ricevuta in un ambiente dove erano relegate le donne della famiglia. Lì vidi questa bellissima giovane, che per tutto il colloquio che ebbi con il marito non proferì parola, ma si limitò a lanciarmi sguardi disperati, come se chiedesse aiuto con gli occhi. La persi di vista, in quel momento avevo tanti problemi personali da risolvere. Qualche tempo dopo seppi che il pir era morto, e provai il desiderio di incontrarla di nuovo. La cercai: era tornata a vivere dalla madre, ma mi sembrò strana. Era sempre in preda al panico, aveva crisi di pianto, non riusciva a parlare. Con fatica mi raccontò la sua storia, le continue violenze subìte da parte del marito, la proibizione di uscire o frequentare chiunque, l’impossibilità di comunicare con il mondo esterno, di esprimere un’opinione, persino di pensare. Non ultimo: dovette procurare al marito delle giovanissime amanti, altrimenti lui avrebbe abusato della loro figlia ancora bambina.
Dopo qualche tempo tornai a trovarla, ma Haar era praticamente impazzita del tutto. purtroppo non sto parlando di un caso-limite: le donne nel mio Paese, e in altri dove vige il fondamentalismo, sono trattate come non-persone, l’ignoranza e la mancanza di comunicazione fanno il resto. La paura di reagire è grande: le donne sono consapevoli che il marito, il padre, o il fidanzato possono impunemente sfigurarle con l’acido per punirle, dare fuoco ai loro sari fingendo un incidente domestico, o anche semplicemente ripudiarle e divorziare, dato che non sono tenuti a provvedere per gli alimenti. Una ragazza che sposi un leader religioso poi, è schiava due volte. Perché l’Islam è stato riletto e strumentalizzato proprio per sottomettere le masse ignoranti e le donne. Le donne musulmane sono state ingannate dai fondamentalisti: nel Corano c’è rispetto per la donna. Basti pensare alla storia di Agar. Agar era la schiava di Abramo, che, non potendo avere figli da Sara, ebbe da lei Ismaele. Sara, ingelosita, la cacciò nel deserto con il figlio ancora piccolo. Il Corano prevede che i fedeli rendano omaggio alla tomba di Agar presso La Mecca, e questo è simbolico del rispetto che si deve ad una donna, emblema dei capostipiti di Maometto. E questa è una delle letture “giuste” del nostro Corano».

QUELLA DI HAAR È UNA VICENDA DAVVERO DRAMMATICA.
«È la condizione reale in cui vivono molte donne in Pakistan».

DOPO AVER VISSUTO IN EUROPA E IN AMERICA, E COMUNQUE ESSERE VENUTA A CONTATTO CON CULTURE PIÙ “PERMISSIVE”, POTREBBE RIUSCIRE AD ADATTARSI A VIVERE DEFINITIVAMENTE IN PAKISTAN?
«È difficile, ma credo di sì. Senti di non vivere la tua vita, sei continuamente sotto controllo in ogni ambiente che frequenti: tutti si aspettano che tu faccia un passo falso per poterti criticare pubblicamente, per emarginarti e isolarti. Ma il Pakistan è il mio Paese: voglio tornarci, per insegnare alle donne a non rassegnarsi, a lottare, a non fuggire, a fare di tutto perché le cose cambino, se non per loro almeno per le loro figlie. Vorrei impegnarmi affinché non siano più considerate cittadine di serie B, possano parlare liberamente e circolare nelle strade vestite come vogliono. Qualcosa, come ho detto, è successa dopo l’avvento di Benazir al governo; e se la presunzione dei politici è quella di poter esercitare il loro autoritarismo grazie al silenzio delle donne, siano certi che questo silenzio è stato già rotto. È arrivato l’11 settembre, il giorno in cui gli attacchi terroristici agli Stati Uniti, oltre a cambiare le vite di quelli che hanno dovuto piangere i morti, hanno cambiato il mondo intero. E assieme alle ripercussioni positive e negative, è successa comunque una cosa importante: la questione islamica è uscita dal silenzio, lungo e oppressivo, nella quale era caduta con la convivenza e l’omertà dello stesso occidente, che ha assistito, complice, alle ingiustizie di certi regimi. Il futuro del mondo musulmano non è più visto come qualcosa che riguarda solo gente lontana di terre lontane. Il Corano è diventato un bestseller. E mentre i musulmani difendono le ragioni dell’Islam, gli studenti le mettono in discussione. E i leader più illuminati dei Paesi islamici si rendono conto che, se non diventeranno moderati, tutto il mondo li isolerà».

TROVA GIUSTO L’INTERVENTO ARMATO CHE È STATO EFFETTUATO PER PORRE FINE AL REGIME TALEBANO IN AFGANISTAN?
«Sono contraria a qualsiasi intervento armato, anche se in questo caso a molti è sembrato inevitabile. Trovo che questa propaganda di guerra sfrutti l’ignoranza e l’arroganza da entrambe le parti, tentando di contrapporre l’occidente all’oriente e continuando a mantenere le distanze fra quelli che vengono definiti “primo mondo” e “secondo” o “terzo mondo”. Non si dimentichi che l’Europa scoprì le scienze, la matematica, la filosofia grazie al contatto con l’Islam. E gli Stati Uniti non dimentichino che la fede non si sconfigge con le bombe, le armi non hanno “armi” contro le idee, e bisogna considerare le condizioni disperate in cui vivono tanti fratelli afgani, reduci da un regime che li ha distrutti, e adesso tormentati dalle “bombe alleate”. Le nostre vittime civili, non sono meno innocenti delle vittime americane».

DELLA QUESTIONE RIGUARDANTE UNA CORRETTA INTERPRETAZIONE DELL’ISLAM PARLA ANCHE NEL SUO ULTIMO LIBRO “MIRROR TO THE BLIND” CHE IN ITALIANO È STATO TRADOTTO CON L’IMPERO DEL MALE, EDITO DA MONDADORI.
«Si tratta di una biografia che ho raccolto personalmente. È il racconto della vita esemplare di Abdul Sattar Edhi, il primo uomo ad essersi occupato nel mondo islamico della gente più umile, battendosi contro la miseria e l’ignoranza, e aiutando i diseredati e le donne. Ultimamente gli è stato conferito il Premio Balzan, lo stesso conferito anni fa a Madre Teresa di Calcutta. Edhi è l’altra faccia dell’Islam, quella vera, rimasta in letargo, mentre i combattenti della fede sono cresciuti a ritmo sostenuto in questi tempi. Se tutti i musulmani prendessero esempio da lui, l’invito a combattere “la guerra santa” diventerebbe una contraddizione. In un ambiente più giusto, che privilegi i diritti umani, sarebbero sempre meno i musulmani armati di pistola, e sempre più quelli armati di solidarietà. La vita di Edhi è una grande lezione umana per tutti: dovremmo recuperare quanto c’è di positivo nella nostra cultura, e utilizzarlo per costruire un mondo migliore».

ADESSO PARLIAMO DI LINGUAGGIO. IL SUO È STATO DEFINITO, PER QUELLO CHE RIGUARDA LE NOSTRE TRADUZIONI, LINEARE E ACCATTIVANTE.
«Allora debbo presumere di avere avuto degli ottimi traduttori! Mi dispiace di non poter controllare direttamente, dato che non conosco l’italiano. Sono in grado di controllare solo le versioni inglesi dei miei romanzi. Per me il linguaggio è soltanto un mezzo espressivo. Qualche critico mi rimprovera una eccessiva semplicità, ma a me interessa principalmente la storia. Ogni scrittore ha un suo punto di vista, uno stile. C’è chi si dedica alla scrittura sperimentale, chi bada più ai suoni delle parole che al significato. Questo va bene, ma a me interessa che quello che dicono i miei personaggi suoni naturale e attinente alla storia che racconto. Che tutto abbia un senso, che faccia pensare la gente…»

PROGRAMMI FUTURI IN CAMPO ARTISTICO?
«Oltre a scrivere, dipingo anche. Ho già organizzato delle mostre in Pakistan, e vorrei farne anche in Italia. Sono un’autodidatta, ma la pittura è un altro mio grande amore, dopo la letteratura. In Pakistan le copertine dei miei libri sono sempre tratte dai miei quadri. Forse illustrerò personalmente il prossimo libro».

ANCHE NELLA VERSIONE ITALIANA?
«Perché no?».

UN MESSAGGIO PER I LETTORI E LE LETTRICI?
«Leggere tutto, senza pregiudizi. E un messaggio speciale alle donne di tutti i Paesi: devono essere più unite, credere di più in sé stesse. Solo così ci si potrà liberare definitivamente da qualsiasi tipo di schiavitù o soggezione…»

(Articolo di Alma Daddario, pubblicato sulla rivista Orizzonti n. 18)

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